Storia d'Italia/Libro XIII/Capitolo XVI

Libro tredicesimo
Capitolo sedicesimo

../Capitolo XV ../../Libro XIV IncludiIntestazione 22 maggio 2008 75% Storia

Libro XIII - Capitolo XV Libro XIV
[p. 71 modifica]

XVI

Giampaolo Baglioni invitato a Roma dal pontefice, incarcerato e giustiziato. Nuove insidie del pontefice contro il duca di Ferrara. Incoronazione di Cesare in Aquisgrana; sue ragioni di preoccupazione. Minaccie di fanti spagnoli alle terre della Chiesa.

Non accadde questo anno in Italia cosa degna di memoria: salvo che, essendo in Perugia Giampaolo e Gentile della medesima famiglia de’ Baglioni, o perché nascesse tra loro contenzione o perché Giampaolo, non gli bastando avere piú parte e piú autoritá nel governo, volesse arrogarsi il tutto, cacciò Gentile di Perugia: il che essendo molesto al pontefice, lo fece citare che personalmente comparisse a Roma. Il quale, temendo a andarvi, mandò Malatesta suo figliuolo a giustificarsi, e a offerire a essere presto a obbidire a tutti i suoi comandamenti: ma instando pure il pontefice della venuta sua, poiché fu stato molti dí perplesso, si risolvé a andare, confidatosi parte nella antica servitú che in ogni tempo aveva avuto con la sua casa, parte persuaso da Cammillo Orsino suo genero e da altri amici suoi; i quali, usando l’autoritá loro e valendosi di mezzi potenti appresso al pontefice, o ottennono fede espressa da lui (benché non per scrittura) o almanco furono dal pontefice usate tali parole con somma astuzia e fatte tali dimostrazioni che quegli che si confidavano potere ritrarre da lui la mente sua gli dettono animo a comparire, dandosi a intendere che egli potesse farlo sicuramente. Ma arrivato a Roma, trovò che il pontefice, sotto specie di sue ricreazioni come altre volte era solito di fare, era andato pochi dí innanzi in Castello Santo Angelo. Dove andando la mattina seguente Giampaolo per presentarsegli fu, innanzi arrivasse al cospetto [p. 72 modifica]suo, incarcerato dal castellano, e dipoi per giudici diputati esaminato rigorosamente confessò molti gravissimi delitti, sí per cose attenenti alla conservazione della tirannide come per piaceri nefandi e altri suoi interessi particolari; per i quali, poi che fu stato in carcere piú di due mesi, fu decapitato secondo l’ordine della giustizia: movendosi, secondo si credette, il pontefice a questo per avere, nella guerra d’Urbino, compreso per molti segni Giampaolo essere d’animo alieno da lui, avere tenuto pratiche con Francesco Maria, né potere in qualunque accidente gli sopravenisse fare fondamento fermo in lui, e conseguentemente, mentre che egli era in quello stato, nelle cose di Perugia. Le quali per riordinare a suo proposito, essendosi i figliuoli di Giampaolo fuggiti come ebbono nuove della sua retenzione, dette quella legazione a Silvio cardinale di Cortona, antico servidore e allievo suo; restituí Gentile in Perugia, al quale donò i beni che erano stati posseduti da Giampaolo, e appoggiandosi a uno subietto molto debole voltò la riputazione e grandezza a lui.

Continuò medesimamente questo anno il pontefice (attribuendo piú al caso o alla poca prudenza che ad altro l’occasione perduta del vescovo di Ventimiglia) di tentare nuove insidie contro al duca di Ferrara, per mezzo di Uberto da Gambara protonotario apostolico, con Ridolfel tedesco, capitano di alcuni fanti tedeschi che Alfonso teneva alla sua guardia; il quale gli aveva promesso dargli a suo piacere la entrata della porta di Castello Tialto. Dove potendo pervenire le genti che si mandassino da Bologna e da Modena, senza avere a passare il Po se non per il ponte di legname che è innanzi a quella porta, fu dato ordine a Guido Rangone e al governatore di Modena che, raccolte certe genti sotto altri colori, andassino allo improviso a occupare quella porta, per difenderla tanto che giugnessino gli aiuti da Modena e da Bologna; dove era posto ordine che la gente si movesse quasi popolarmente. Ma giá statuito il dí dello assaltarla, si scoperse che Ridolfel, a chi per ordine del pontefice erano stati dati da Uberto da Gambara circa dumila ducati, aveva da [p. 73 modifica]principio comunicato ogni cosa con Alfonso; il quale, poi che ebbe scoperto assai della mente del pontefice e de’ suoi disegni, non volendo che la cosa procedesse piú innanzi, tenne modo che la fraude di Ridolfel si publicasse.

In questo anno medesimo passò Cesare, per mare, di Spagna in Fiandra; avendo nel passare, non per necessitá come aveva fatto il padre, ma volontariamente, toccato in Inghilterra, per parlare con quel re col quale restò in buona concordia. Di Fiandra andato in Germania ricevé, del mese d’ottobre, in Aquisgrana, cittá nobile per l’antica residenza e per il sepolcro di Carlo Magno, con grandissimo concorso, la prima corona, quella medesima, secondo che è la fama, con la quale fu incoronato Carlo Magno; datagli, secondo il costume antico, con l’autoritá de’ príncipi di Germania. Ma questa sua felicitá era turbata dagli accidenti nati di nuovo in Spagna. Perché a’ popoli di quei regni era stata molesta la promozione sua allo imperio, perché conoscevano che, con grandissima incomoditá e detrimento di tutti, sarebbe per varie cagioni necessitato a stare non piccola parte del tempo fuora di Spagna; ma molto piú gli aveva mossi l’odio grande che avevano conceputo contro alla avarizia di quegli che lo governavano, massime contro a Ceures, il quale dimostratosi insaziabile aveva per tutte le vie accumulato somma grandissima di danari; il medesimo, avevano fatto gli altri fiamminghi, vendendo per prezzo a’ forestieri gli uffici soliti darsi agli spagnuoli, e facendo venali tutte le grazie privilegi ed espedizioni che si dimandavano alla corte: in modo che, concitati tutti i popoli contro al nome de’ fiamminghi, avevano, alla partita di Cesare, tumultuato quegli di Vagliadulit; e appena uscito di Spagna, sollevati tutti, non, secondo dicevano, contro al re ma contro a’ cattivi governatori, e comunicati insieme i consigli, non prestando piú ubbidienza agli offiziali regi, avevano fatta congregazione della maggiore parte de’ popoli: i quali, data forma al governo, si reggevano in nome della santa giunta (cosí chiamavano il consiglio universale de’ popoli). Contro a’ quali essendosi levati in arme i capitani e ministri regi, [p. 74 modifica]ridotte le cose in manifesta guerra, erano tanto moltiplicati i disordini che Cesare piccolissima autoritá vi riteneva: donde in Italia e fuora cresceva la speranza di coloro che arebbono desiderato diminuire tanta grandezza. Aveva nondimeno l’armata sua acquistato contro a’ mori l’isola delle Gerbe, e in Germania era stata repressa in qualche parte la riputazione del re di Francia. Perché dando egli, per notrire discordie in quella provincia, favore al duca di Vertimberg discordante con la lega di Svevia, quegli popoli risentitisi potentemente lo cacciorono del suo stato e acquistato che lo ebbono lo venderono a Cesare, desideroso di abbassare i seguaci del re di Francia, obligandosi alla difesa contro a qualunque lo molestasse. Per il che quello duca, trovandosi distrutto sotto la speranza degli aiuti franzesi, fu necessitato ricorrere alla clemenza di Cesare, e da lui accettare quelle leggi, che gli furono date: non rimesso però per questo nella possessione del suo ducato.

Nella fine di questo anno medesimo, circa tremila fanti spagnuoli stati piú mesi in Sicilia, non volendo ritornare in Spagna secondo il comandamento avuto da Cesare, disprezzata l’autoritá de’ capitani, passorono a Reggio di Calavria; e procedendo con fare per tutto gravissimi danni verso lo stato della Chiesa, messono in grave terrore il pontefice (nell’animo del quale era fissa la memoria degli accidenti di Urbino) che, o sollevati da altri príncipi o accompagnandosi con il duca Francesco Maria, co’ figliuoli di Giampaolo Baglione e con gli altri inimici della Chiesa, non suscitassino qualche incendio: massime recusando le offerte fatte dal viceré di Napoli e da lui di soldarne una parte, e agli altri fare donativo di danari. Dalle quali offerte preso maggiore animo, si movevano verso il fiume del Tronto, non per il paese stretto del Capitanato ma per il cammino largo di Puglia; e aggiugnendosi continuamente altri fanti e qualche cavallo, diventavano sempre piú formidabili. Nondimeno, si risolvé piú facilmente e piú presto che gli uomini non credevano questo movimento; perché passato il Tronto per entrare nella Marca [p. 75 modifica]anconitana, nella quale il pontefice aveva mandate molte genti, e andati a campo a Ripatransona, avendovi dato uno assalto gagliardo, perduti molti di loro, furno costretti a ritirarsi: per il che, diminuiti molto di animo e di riputazione, accettorono cupidamente da’ ministri di Cesare condizioni molto minori di quelle le quali prima avevano disprezzate.