Storia d'Italia/Libro VIII/Capitolo V
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V
Ma come a Vinegia pervenne la nuova di tanta calamitá non si potrebbe immaginare non che scrivere quanto fusse il dolore e lo spavento universale, e quanto divenissino confusi e attoniti gli animi di tutti, insoliti a sentire avversitá tali anzi assuefatti a riportare quasi sempre vittoria in tutte le guerre, e presentandosegli innanzi agli occhi la perdita dello imperio e il pericolo della ultima ruina della loro patria, in luogo di tanta gloria e grandezza con la quale da pochi mesi indietro si proponevano nell’animo l’imperio di tutta Italia. Però da ogni parte della cittá si concorreva con grandissimi gridi e miserabili lamenti al palagio publico: nel quale consultandosi per i senatori quello che in tanto caso fusse da fare, rimaneva dopo lunga consulta soprafatto il consiglio dalla disperazione, tanto deboli e incerti erano i rimedi, tanto minime e quasi nulle le speranze della salute; considerando non avere altri capitani né altre genti per difendersi che quelle che avanzavano della rotta spogliate di forze e di animo, i popoli sudditi a quello dominio o inclinati a ribellarsi o alieni da tollerare per loro danni e pericoli, il re di Francia, con esercito potentissimo e insolente per la vittoria, disposto a seguitare il corso della prospera fortuna, al nome solamente del quale essere per cedere ciascuno; e se a lui solo non avevano potuto resistere, che sarebbe venendo innanzi il re de’ romani, il quale si intendeva appropinquarsi a’ confini loro, e che ora invitato da tanta occasione accelererebbe il venire? mostrarsi da ogni parte pericoli e disperazione con pochissimi indizi di speranze. E che sicurtá avere che nella propria patria, piena di innumerabile moltitudine, non si suscitasse, parte per la cupiditá del rubare parte per l’odio contro a’ gentiluomini, qualche pericoloso tumulto? Giá (quel che è l’estremo grado della timiditá) reputavano certissimi tutti i casi avversi i quali si rappresentavano alla immaginazione propria che potessino succedere; e nondimeno, raccolto in tanto timore il meglio potevano l’animo, deliberorno di fare estrema diligenza di riconciliarsi per qualunque modo col pontefice col re de’ romani e col re cattolico, senza pensiero alcuno di mitigare l’animo del re di Francia, perché, dell’odio suo contro a loro non manco diffidavano che e’ temessino delle sue armi: né posti perciò da parte i pensieri di difendersi, attendendo a fare provisione di danari, ordinavano di soldare nuova gente per terra e, temendo della armata che si diceva prepararsi a Genova, accrescere insino in cinquanta galee l’armata loro, della quale era capitano Angelo Trevisano.
Ma preveniva tutti i consigli loro la celeritá del re di Francia, al quale dopo l’acquisto di Brescia si era arrenduta la cittá di Cremona, ritenendosi ancora per i viniziani la fortezza; la quale benché fortissima arebbe seguitato l’esempio degli altri (avendo massime, ne’ medesimi dí, fatto il medesimo la fortezza di Pizichitone)..., se il re avesse consentito che tutti ne uscissino salvi; ma essendovisi ridotti dentro molti gentiluomini viniziani, e tra gli altri Zacheria Contareno ricchissimo uomo, negava di accettarla se non con patto che questi venissino in sua potestá. Però mandatevi genti a tenerla assediata, ed essendosi le genti viniziane, che continuamente diminuivano, fermate nel Campomarzio appresso a Verona perché i veronesi non avevano voluto riceverle dentro, il re camminò innanzi a Peschiera per acquistare la fortezza, essendosi giá arrenduta la terra; la quale come ebbeno cominciata a battere con l’artiglierie, vi entrorono per piccole rotture di muro con impeto grandissimo i fanti svizzeri e guasconi, ammazzando i fanti che in numero circa quattrocento vi erano dentro; e il capitano della fortezza che era medesimamente capitano della terra, gentiluomo viniziano, fatto prigione, fu per comandamento del re insieme col figliuolo a’ merli medesimi impiccato: inducendosi il re a questa crudeltá acciò che quegli che erano nella fortezza di Cremona, spaventati per questo supplicio, non si difendessino insino all’ultima ostinazione. Cosí aveva, in spazio di quindici dí dopo la vittoria, acquistato il re di Francia, dalla fortezza di Cremona in fuora, tutto quello che gli apparteneva per la divisione fatta a Cambrai: acquisto molto opportuno al ducato di Milano, e per il quale s’accrescevano le entrate regie, ciascuno anno, molto piú di dugentomila ducati.
Nel quale tempo, non si sentendo ancora in luogo alcuno l’armi del re de’ romani, aveva il pontefice assaltate le terre di Romagna con quattrocento uomini d’arme quattrocento cavalli leggieri e ottomila fanti, e con artiglierie del duca di Ferrara, il quale avea eletto gonfaloniere della Chiesa, titolo, secondo l’uso de’ tempi nostri, piú di degnitá che di autoritá; preposti a questo esercito Francesco da Castel del Rio cardinale di Pavia, con titolo di legato apostolico, e Francesco Maria della Rovere figliuolo giá di Giovanni suo fratello, il quale adottato in figliuolo di Guido Ubaldo duca di Urbino, zio materno, e confermata per l’autoritá del pontefice l’adozione nel concistorio, era l’anno dinanzi, morto lui senza altri figliuoli, succeduto in quel ducato. Con questo esercito avendo scorso da Cesena verso Cervia e venuti poi tra Imola e Faenza preseno la terra di Solarolo, e stati qualche dí alla bastia vicina a tre miglia di Faenza andorno a Berzighella, terra principale di Valdilamone, ove era entrato Giampaolo Manfrone con ottocento fanti e alcuni cavalli; i quali usciti fuora a combattere, condotti in uno agguato furno sí vigorosamente assaliti da Giampaolo Baglioni e Lodovico dalla Mirandola, condottieri nello esercito ecclesiastico, che rifuggendo nella terra vi entrorono mescolati insieme con loro, e con tale impeto che il Manfrone caduto da cavallo appena ebbe tempo a ritirarsi nella rocca: alla quale essendo presentata l’artiglieria, fu dal primo colpo abbruciata la munizione che vi era dentro, dal quale caso impauriti si rimessono senza alcuna condizione nell’arbitrio de’ vincitori. Occupata tutta la valle, l’esercito sceso nel piano, preso Granarolo e tutte l’altre terre del contado di Faenza, andò a campo a Russi, castello situato tra Faenza e Ravenna, ma di non facile espugnazione perché, circondato da fosse larghe e profonde e forte di mura, era guardato da seicento fanti forestieri. E faceva l’espugnazione piú difficile non essere nello esercito ecclesiastico né quel consiglio né quella concordia che sarebbe stata necessaria, benché le forze vi abbondassino, conciossiaché di nuovo vi erano giunti tremila fanti svizzeri soldati dal pontefice; e però, con tutto che i viniziani non fussino potenti in Romagna, si faceva per gli ecclesiastichi poco progresso. I quali per infestare essendo uscito di Ravenna con la sua compagnia Giovanni Greco, capitano di stradiotti, fu rotto e fatto prigione da Giovanni Vitelli uno de’ condottieri ecclesiastici. Pure finalmente, poi che furono stati intorno a Russi dieci dí l’ottennono per accordo; ed essendo in questo tempo medesimo succeduta la vittoria del re di Francia, la cittá di Faenza, la quale per esservi pochi soldati de’ viniziani era in potestá di se medesima, convenne di ricevere il dominio del pontefice se infra quindici dí non fusse soccorsa: la quale convenzione poi che fu fatta, essendo usciti di Faenza cinquecento fanti de’ viniziani, sotto la fede del legato, furono svaligiati per commissione del duca di Urbino. Fece il medesimo e la cittá di Ravenna, subito che se gli accostò l’esercito. Cosí, piú con la riputazione della vittoria del re di Francia che con le armi proprie, acquistò presto il pontefice le terre tanto desiderate della Romagna; nella quale non tenevano piú i viniziani altro che la fortezza di Ravenna.
Contro a’ quali si scoprivano, dopo la rotta dello esercito loro, ogni dí nuovi inimici. Perché il duca di Ferrara, il quale insino a quel dí non si era voluto dimostrare, cacciò subito di Ferrara il bisdomino, magistrato che per antiche convenzioni, per rendere ragione a’ sudditi loro, vi tenevano i viniziani, e prese l’armi recuperò senza ostacolo alcuno il Polesine di Rovigo, e sfondò con l’artiglierie l’armata de’ viniziani che era nel fiume dello Adice; e al marchese di Mantova si arrenderono Asola e Lunato, occupate giá da’ viniziani, nelle guerre contro a Filippo Maria Visconte, a Giovanfrancesco da Gonzaga suo proavo. In Istria Cristoforo Frangiapane occupò Pisinio e Divinio, e il duca di Brunsvich, entrato per comandamento di Cesare nel Friuli con duemila uomini comandati, prese Feltro e Bellona. Alla venuta del quale e alla fama della vittoria de’ franzesi, Triesti, e l’altre terre, dallo acquisto delle quali era proceduta a’ viniziani l’origine di tanti mali, tornorno allo imperio di Cesare. Occuporono eziandio i conti di Lodrone alcune castella vicine; e il vescovo di Trento, con simile movimento, Riva di Trento e Agresto.