Storia d'Italia/Libro V/Capitolo I
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Libro V | Libro V - Capitolo II | ► |
I
Preoccupazioni di Massimiliano per i successi del re di Francia. Il re dá aiuti a’ fiorentini per la riconquista di Pisa. Le milizie francesi ricevono Pietrasanta da’ lucchesi. L’esercito francese dopo una sola azione contro Pisa tumultua e si scioglie; i pisani espugnano Librafatta. Turbamento del re di Francia per l’accaduto; i fiorentini rifiutano nuove offerte del re; peggioramento delle condizioni de’ fiorentini.
Dalla vittoria tanto piena e tanto prospera del ducato di Milano era augumentata di maniera l’ambizione e l’ardire del re di Francia che arebbe facilmente, la state medesima, assaltato il reame di Napoli se non l’avesse ritenuto il timore de’ movimenti de’ tedeschi. Perché se bene l’anno dinanzi avesse ottenuta la tregua da Massimiliano Cesare con inclusione dello stato di Milano, nondimeno quel re, considerando meglio quanto per la alienazione di uno feudo tale si diminuisse la maestá dello imperio, e specialmente la ignominia che ne perveniva a lui, d’avere lasciato, quasi sotto la sua protezione e sotto le speranze dategli e dopo tanti danari ricevuti da lui, spogliarne Lodovico Sforza, non avea piú voluto udire gli imbasciadori né del re di Francia né de’ viniziani, come occupatori delle giurisdizioni imperiali; e acceso ultimatamente molto piú per la cattivitá miserabile de’ due fratelli, ridestandosi nell’animo suo l’antiche emulazioni e la memoria delle ingiurie fatte in diversi tempi a sé e a’ suoi predecessori da’ re di Francia e dalla republica viniziana, congregava spesse diete per concitare gli elettori e gli altri príncipi tedeschi a risentirsi con l’armi di tanta ingiuria, fatta non meno alla nazione germanica, della quale era propria la degnitá imperiale, che a sé: anzi dimostrava il pericolo che il re di Francia, presumendo ogni dí piú per tanta pazienza de’ príncipi dello imperio, e insuperbito per tanto favore della fortuna, non indirizzasse l’animo a procurare con qualche modo indiretto che la corona imperiale ritornasse, come altre volte era stata, ne’ re di Francia; alla qualcosa arebbe il consentimento del pontefice, parte per necessitá, non potendo resistere alla potenza sua, parte per la cupiditá che aveva della grandezza del figliuolo.
Le quali cose furono cagione che il re, incerto che fine avessino ad avere queste pratiche, differisse ad altro tempo i pensieri della guerra di Napoli: e perciò, non essendo occupate ad altra impresa le genti sue, fu contento, benché non senza molta difficoltá e dubitazione, di concedere le genti dimandate da’ fiorentini per la recuperazione di Pisa e di Pietrasanta, perché in contrario faceano instanza grande i pisani, e insieme con loro i genovesi i sanesi e i lucchesi, offerendo pagare al re al presente centomila ducati in caso che Pisa Pietrasanta e Montepulciano rimanessino libere dalle molestie de’ fiorentini, e aggiugnerne cinquantamila in perpetuo ciascuno anno se per l’autoritá sua conseguivano i pisani le fortezze del porto di Livorno e tutto il contado di Pisa. Alle quali cose pareva che, per la cupiditá de’ danari, fusse inclinato non poco l’animo del re; nondimeno, come era solito di fare nelle cose gravi, rimesse al cardinale di Roano, che era a Milano, questa deliberazione: appresso al quale, oltre a’ sopradetti, intercedevano per i pisani Gianiacopo da Triulzi e Gianluigi dal Fiesco, desideroso ciascuno di farsi signore di Pisa, offerendo di pagare al re, perché lo permettesse, non piccola somma di danari, e dimostrando appartenere alla sicurtá sua tenere deboli, quando n’avea l’occasione, i fiorentini e gli altri potentati d’Italia. Ma nel cardinale potette piú il rispetto della fede del re e i meriti freschi de’ fiorentini, i quali aveano aiutato il re prontamente nella recuperazione del ducato di Milano, convertendo a sua richiesta le genti, le quali in tal caso erano obligati di dargli, in pagamento di danari. Però fu deliberato che a’ fiorentini si dessino per la recuperazione di Pisa, e con promissione del cardinale che nel passare restituirebbono Pietrasanta e Mutrone, secento lancie pagate dal re, e a spese loro proprie cinquemila svizzeri sotto il baglí di Digiuno, e certo numero di guasconi, e tutta l’artiglieria e le munizioni necessarie a quella impresa; e vi si aggiunsono, contro alla volontá del re e de’ fiorentini, secondo il costume loro, dumila altri svizzeri. Delle quali genti deputò capitano Beumonte, dimandatogli da’ fiorentini, perché per essere stato pronto a restituire loro Livorno confidavano molto in lui, non considerando che nel capitano dell’esercito, se bene è necessaria la fede è necessaria l’autoritá e la perizia delle cose belliche: benché il re, con piú sano e piú utile consiglio, avesse destinato Allegri, capitano molto piú perito nella guerra, e al quale, per essere di sangue piú nobile e di maggiore riputazione, sarebbe stata piú pronta l’ubbidienza dello esercito.
Ma si cominciorono prestamente a scoprire le molestie e le difficoltá che accompagnavano gli aiuti de’ franzesi: perché, essendo cominciato a correre il pagamento de’ fanti il primo dí di maggio, dimororno tutto il mese in Lombardia per gli interessi propri del re, desideroso, con l’occasione del transito di questo esercito, di trarre danari dal marchese di Mantova e da’ signori di Carpi, di Coreggio e della Mirandola, per pena degli aiuti dati a Lodovico Sforza; in modo che i fiorentini, cominciati a insospettire di questo indugio, e parendo oltre a ciò darsi a’ pisani troppo tempo di ripararsi e provedersi, ebbono inclinazione di abbandonare la impresa. Pure, pretermettendo malvolentieri tale occasione, data la seconda paga, attendevano a sollecitare il farsi innanzi. Finalmente, essendosi signori di Carpi, della Mirandola e di Coreggio, intercedendo per loro il duca di Ferrara, composti di pagare ventimila ducati, né potendo perdere tempo a sforzare il marchese di Mantova, il quale da una parte si fortificava, da altra, allegando la impotenza di pagare danari, mandati imbasciadori al re, lo supplicava della venia, andorno a campo a Montechierucoli, castello de’ Torelli in parmigiano, i quali aveano aiutato Lodovico Sforza; non tanto mossi dal desiderio di punire loro quanto per minacciare, con lo approssimarsi a Bologna, Giovanni Bentivogli, per i favori similmente prestati a Lodovico Sforza: il quale, per fuggire il pericolo, compose di pagare quarantamila ducati; e il re l’accettò di nuovo nella sua protezione insieme con la cittá di Bologna, ma con espressa limitazione di non pregiudicare alle ragioni che vi aveva la Chiesa. Accordata Bologna e preso per forza Montechierucoli, tornorno le genti indietro a passare l’Apennino per la via di Pontriemoli; ed entrati in Lunigiana, avendo piú rispetto agli appetiti e comodi loro che all’onesto, tolseno, a instanza de’ Fregosi, ad Alberigo Malaspina raccomandato de’ fiorentini il castello di Massa e l’altre terre sue. E passati piú innanzi, i lucchesi (benché reclamando la plebe, ne fussino tra se stessi in gravi tumulti) consegnorono a Beumonte Pietrasanta, in nome del re; il quale, lasciata guardia nella fortezza, non rimosse della terra gli ufficiali loro, perché il cardinale di Roano, disprezzando in questo le promesse fatte a’ fiorentini, ricevuta da’ lucchesi certa quantitá di danari, gli avea accettati nella protezione del re, convenendo che il re tenesse Pietrasanta in diposito insino a tanto che ’l re avesse dichiarato a chi di ragione si appartenesse.
Ma in questo tempo i pisani, ostinati a difendersi, avevano avuto da Vitellozzo, col quale erano per l’inimicizia comune co’ fiorentini in grandissima congiunzione, alcuni ingegneri per indirizzare le loro fortificazioni; alle quali lavoravano popolarmente gli uomini e le donne. E nondimeno, non pretermettendo di intrattenere con le solite arti i franzesi, avevano nel consiglio di tutto il popolo sottomessa la cittá al re; della quale dedizione mandorono instrumenti publici non solo a Beumonte ma eziandio a Filippo di Ravesten, governatore regio in Genova, che temerariamente l’accettò in nome del re. E avendo Beumonte mandato in Pisa uno araldo a dimandare la terra, gli risposono non avere maggiore desiderio che vivere sudditi del re di Francia, e però essere paratissimi a darsegli, pure che promettesse di non gli mettere sotto il dominio de’ fiorentini; sforzandosi, e con le lagrime delle donne e con ogni arte, di fare impressione all’araldo di essere osservantissimi e divotissimi della corona di Francia dalla quale aveano ricevuta la libertá. Ma Beumonte, avendo esclusi gli imbasciadori pisani mandati a lui con la medesima offerta, pose il penultimo dí di giugno il campo a quella cittá, tra la porta alle Piagge e la porta Calcesana, dirimpetto al cantone detto il Barbagianni; e avendo la notte medesima battuto con grande impeto, e continuato di battere insino alla maggiore parte del dí seguente, gittorono in terra, per la bontá dell’artiglieria loro, circa sessanta braccia della muraglia. E come ebbono cessato di tirare, corsono subito i fanti e i cavalli, mescolati senza ordine o disciplina alcuna, per dare la battaglia; non avendo pensato in che modo avessino a superare uno fosso profondo, fatto da’ pisani tra il muro battuto e il riparo che era lavorato di dentro; di maniera che, come lo scopersono, spaventati dalla sua larghezza e profonditá, consumorono il resto del dí piú presto spettatori della difficoltá che assaltatori. Dopo il quale dí diminuí sempre la speranza della vittoria: parte perché avevano i franzesi, per la qualitá de’ ripari e per l’ostinazione de’ difensori perduto l’ardire; parte perché, per le arti usate, si era ridesta l’antica inclinazione avuta da quella nazione a’ pisani, in modo che, cominciando a parlare e a dimesticarsi con quegli di dentro, che continuavano la medesima offerta di darsi al re, pure che non ritornassino sotto il giogo de’ fiorentini, ed entrando sicuramente molti di loro in Pisa e uscendone come di terra d’amici, difendevano per tutto il campo e appresso a’ capitani la causa de’ pisani; confortandogli similmente molti di loro a difendersi. E a questo, oltre a’ franzesi, detteno animo assai Francesco da Triulzi luogotenente della compagnia di Gianiacopo e Galeazzo Palavicino che con la compagnia sua era nel campo franzese. Con l’occasione de’ quali disordini entrò in Pisa, dalla parte di verso il mare, permettendolo quegli di fuori, Tarlatino da Cittá di Castello insieme con alcuni soldati esperimentati alla guerra, mandato da Vitellozzo in aiuto de’ pisani; uomo allora non conosciuto ma che dipoi, fatto capitano da loro, perseverò insino all’ultimo con non piccola lode nella difesa di quella cittá. A queste inclinazioni, comuni cosí a’ fanti come a’ cavalli, succederono molti disordini, perché, desiderando di avere occasione di levarsi dalla impresa, cominciorono a saccheggiare le vettovaglie che si conducevano al campo; a’ quali disordini non bastando a provedere l’autoritá del capitano, moltiplicorno ogni dí tanto che finalmente i fanti guasconi tumultuosamente si partirno dall’esercito; l’esempio de’ quali seguitorno tutti gli altri. E nel partirsi, alcuni fanti tedeschi, venuti per ordine del re da Roma, feciono prigione Luca degli Albizi commissario fiorentino, con allegare che altra volta, stati in servigio de’ fiorentini a Livorno, non erano stati pagati. Partironsi subito i svizzeri e gli altri fanti, ma le genti d’arme si fermorono propinque a Pisa, dove soprastate pochi dí, non aspettato di intendere la volontá del re, se ne tornorono in Lombardia: lasciato in grave disordine le cose de’ fiorentini, perché, per potere supplire al pagamento de’ svizzeri e de’ guasconi, avevano licenziato tutti i loro fanti. La quale occasione conoscendo i pisani andorono a campo a Librafatta, la quale facilmente espugnorno, non meno per l’imprudenza degli inimici che per le forze proprie; perché dandovi la battaglia, ed essendo concorsi dove si combatteva tutti i fanti che vi erano dentro, alcuni di quelli di fuora salirno con le scale nel piú alto luogo della fortezza che non era guardata, da che spaventati i fanti si arrenderono; e dipoi subitamente accampatisi al bastione della Ventura, mentre vi davano la battaglia, i fanti, o per viltá o per fraude di San Brandano conestabile de’ fiorentini, di nazione lucchese, che vi era dentro, s’arrenderono. L’acquisto de’ quali luoghi fu molto utile a’ pisani, perché rimasono allargati e liberi dalla parte di verso Lucca.
Turbò questo successo delle cose di Pisa piú che non sarebbe credibile l’animo del re, conoscendo quanto ne rimanesse diminuita la riputazione del suo esercito, né potendo tollerare che all’armi de’ franzesi, che avevano con tanto spavento d’ognuno corso per tutta Italia, avesse fatto resistenza una cittá sola, non difesa da altri che dal popolo proprio e ove non era alcuno capitano di guerra famoso; e come spesso fanno gli uomini nelle cose che sono loro moleste, si ingegnava, ingannando se stesso, di credere che il non avere i fiorentini fatte le debite provisioni di vettovaglie di guastatori e di munizioni, come affermavano i suoi per scarico proprio, fusse stato causa che e’ non avessino ottenuta la vittoria, e che all’esercito fusse mancata ogn’altra cosa che la virtú: lamentandosi oltre a ciò che dall’avergli fatto instanza imprudentemente i fiorentini che mandasse le genti piú tosto sotto Beumonte che sotto Allegri erano proceduti molti disordini. E da altra parte, desiderando di recuperare l’estimazione perduta, mandò Corcú suo cameriere a Firenze non tanto per informarsi se le cose referite da’ capitani erano vere quanto per ricercare i fiorentini che, non perdendo la speranza d’avere per l’avvenire migliore successo, consentissino che le sue genti d’arme ritornassino ad alloggiare nel contado di Pisa, per tenere la vernata seguente infestata continuamente quella cittá, e con intenzione, come apparisse la primavera, di ritornare con esercito giusto e meglio ordinato di capitani e di ubbidienza a oppugnarla; la quale offerta fu rifiutata da’ fiorentini, disperati di potere coll’armi de’ franzesi ottenere migliori effetti; onde diventorno continuamente peggiori le condizioni loro, perché, divulgandosi il re essere alienato da essi, cominciorno i genovesi i sanesi e i lucchesi a sovvenire i pisani scopertamente con genti e con danari e a pigliare animo qualunque desiderava di offendergli. Onde crescevano eziandio in Firenze le divisioni de’ cittadini, in modo che non solo non erano bastanti a ricuperare le cose perdute ma né anche provedevano a’ disordini del loro dominio; perché essendosi levate in arme in Pistoia le parti Panciatica e Cancelliera, e procedendo tra loro nella cittá e nel contado a grandissimi incendi e uccisioni, quasi a modo di guerra ordinata e con aiuti forestieri, non vi facevano alcuna provisione, con ignominia grande della republica.