Storia d'Italia/Libro III/Capitolo XII
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XII
Maggiori pericoli si dimostravano in questo tempo in Lombardia per i movimenti de’ franzesi, assicurati per allora da’ minacci degli spagnuoli, perché essendo stati tra loro piú tosto leggieri assalti e dimostrazioni di guerra che alcuna cosa notabile, eccetto che da’ franzesi fu presa in brevissimo tempo e abbruciata la terra di Sals, si era introdotta tra quei re pratica di concordia; e per dare maggiore facilitá a trattarla, levate tra loro l’offese per due mesi. Per la quale occasione Carlo, potendo attendere piú speditamente alle cose di Genova e di Savona, avendo mandato in Asti insino al numero di mille lancie e tremila svizzeri e numero pari di guasconi, commesse al Triulzio, luogotenente suo in Italia, che aiutasse Batistino e il Vincola; disegnando oltre a questi mandare dietro con grosso esercito il duca d’Orliens a fare in nome proprio l’impresa del ducato di Milano: e per facilitare quella di Genova mandò a’ fiorentini Ottaviano Fregoso a ricercargli che nel tempo medesimo assaltassino la Lunigiana e la riviera di levante, e ordinò che Pol Batista Fregoso con sei galee turbasse la riviera di ponente.
Cominciò questo movimento con tanto terrore del duca di Milano, il quale da se stesso non era preparato abbastanza, né aveva ancora gli aiuti che gli avevano promessi i viniziani, che se fusse stato continuato co’ mezzi debiti arebbe partorito qualche effetto importante; e piú facilmente nel ducato di Milano che a Genova, perché a Genova, essendosi per opera di Lodovico riconciliati Gianluigi dal Fiesco e gli Adorni, avevano soldati molti fanti e messa in ordine un’armata per mare, a spese de’ viniziani e di Lodovico: con la quale si congiunseno sei galee mandate da Federigo, perché il pontefice, ritenendo il nome di confederato piú ne’ consigli e nelle dimostrazioni che nelle opere, non volle in questi pericoli concorrere a spesa alcuna, né per terra né per mare. I progressi di questa espedizione furono che Batistino e con lui il Triulzio andorno a Novi, della quale terra Batistino, statone prima spogliato dal duca di Milano, riteneva la fortezza; per la venuta de’ quali il conte di Gaiazzo, che vi era a guardia con sessanta uomini d’arme dugento cavalli leggieri e cinquecento fanti, diffidandosi poterla difendere si ritirò a Serravalle. Per l’acquisto di Novi si augumentò non poco la riputazione de’ fuorusciti, perché oltre a essere terra capace di molta gente impedisce il transito da Milano a Genova; e per il sito nel quale è posta è molto opportuna a offendere i luoghi circostanti. Occupò dipoi Batistino altre terre vicine a Novi; e nel tempo medesimo il cardinale con dugento lancie e tremila fanti, presa Ventimiglia, s’accostò a Savona, ma non facendo quegli di dentro movimento alcuno, e inteso che Giovanni Adorno s’approssimava con molti fanti, si ritirò allo Altare, terra del marchese di Monferrato, distante otto miglia da Savona. Di maggiore momento fu il principio che si fece per il Triulzio. Il quale, desideroso di dare occasione che la guerra si accendesse nel ducato di Milano, ancora che la commissione del re fusse che prima s’attendesse alle cose di Genova e di Savona, prese il Bosco, castello importante nel contado d’Alessandria, sotto pretesto che, per sicurtá delle genti che erano andate nella riviera, fusse necessario impedire a quegli del duca di Milano la facoltá di condursi da Alessandria in quello di Genova; e nondimeno, per non contrafare manifestamente al comandamento del re, non procedé piú avanti, perdendo grandissima occasione; perché il paese circostante era tutto, per l’occupazione del Bosco, in grandissima sollevazione, altri per timore altri per cupiditá di cose nuove, non essendo per il duca da quella parte piú di cinquecento uomini d’arme e seimila fanti, e cominciando Galeazzo Sanseverino, il quale era in Alessandria, [dove] medesimamente si ritirò il conte di Gaiazzo, a diffidarsi di poterla difendere senza maggiori forze: e giá Lodovico, non manco timido in questa avversitá che per natura fusse in tutte l’altre, ricercava il duca di Ferrara che interponesse tra il re di Francia e lui qualche concordia. Ma il soprasedere del Triulzio tra ’l Bosco e Novi dette tempo a Lodovico di provedersi, e a’ viniziani, i quali concorrendo prontissimamente alla sua difesa avevano prima mandato a Genova mille cinquecento fanti, di mandare in Alessandria molti uomini d’arme e cavalli leggieri; e ultimatamente commessono al conte di Pitigliano, capo delle loro genti, perché il marchese di Mantova si era rimosso dagli stipendi veneti, che con la maggiore parte andasse in aiuto di quello stato. Cosí raffreddando le cose cominciate con grande speranza, Batistino, non fatto a Genova frutto alcuno, perché la cittá per le provisioni fatte stette quieta, ritornò a unirsi col Triulzio, allegando essere riusciti vani i disegni suoi perché da’ fiorentini non era stata assaltata la riviera di levante; i quali non avevano giudicato prudente consiglio lo implicarsi nella guerra se prima le cose de’ franzesi non si dimostravano piú prospere e piú potenti. Andò medesimamente il Vincola a unirsi col Triulzio, non avendo fatto altro che prese alcune terre del marchese del Finale, perché si era scoperto alla difesa di Savona. Unite le genti franzesi feceno alcune scorrerie verso il Castellaccio, terra vicina al Bosco, stata giá fortificata da’ capitani del duca; e augumentandosi continuamente l’esercito de’ collegati che faceva la massa ad Alessandria, e per contrario cominciando a mancare a’ franzesi danari e vettovaglie, né essendo gli altri capitani bene pazienti a ubbidire al Triulzio, fu costretto, lasciata guardia in Novi e nel Bosco, a ritirarsi con l’esercito appresso ad Asti.
Credesi che a questa impresa nocesse, come si vede molte volte intervenire, la divisione fatta delle genti in piú parti, e che se tutti si fussino nel principio dirizzati a Genova arebbono forse avuto migliore successo; perché, oltre alla inclinazione delle fazioni e lo sdegno nato per causa di Pietrasanta, parte de’ cavalli e de’ fanti tedeschi che il duca di Milano v’aveva mandati, soprastativi pochi dí, se ne erano tornati all’improviso in Germania. Può essere ancora che da quegli medesimi ministri da’ quali, l’anno dinanzi, era stata impedita la passata del re in Italia e il soccorso del regno di Napoli, fussino usate l’arti medesime di impedire la impresa presente con la difficoltá delle provisioni; e tanto piú che era fama che ’l duca di Milano, il quale a’ sudditi suoi faceva gravi esazioni, donasse assai al duca di Borbone e ad altri di quegli che potevano appresso al re: la quale infamia si distendeva non meno al cardinale di San Malò. Ma come si sia, certo è che il duca d’Orliens, destinato a passare in Asti e sollecitatone molto dal re, fece tutte le preparazioni necessarie a tale andata ma ritardò, o perché non confidasse nelle provisioni che si facevano o perché, come molti interpretavano, partisse malvolentieri del regno di Francia, essendo il re continuamente indisposto della persona, e in caso della sua morte senza figliuoli appartenendo a lui la successione della corona.
Ma il re, non gli essendo riuscita la speranza della mutazione di Genova e di Savona, ristrinse le pratiche cominciate co’ re di Spagna, ritardate per una sola difficoltá: che il re di Francia, desiderando di restare espedito alle imprese di qua da’ monti, recusava che nella tregua che si trattava si comprendessino le cose d’Italia; e i re di Spagna, dimostrando di non fare difficoltá di consentire alla sua volontá per altro che per rispetto del loro onore, facevano instanza che vi si comprendessino, perché, essendo la intenzione comune fare la tregua perché con maggiore facilitá si trattasse la pace, potrebbono con maggiore onestá partirsi dalla confederazione che avevano con gli italiani. Alla qual cosa, poiché furono andati dall’una parte all’altra piú volte imbasciadori, prevalendo finalmente, come quasi sempre, l’arti spagnuole, contrassono tregua per sé e per i sudditi e dependenti suoi, e per quegli ancora che qualunque d’essi nominasse; la quale tregua, cominciando tra loro il quinto dí di marzo ma tra i nominati cinquanta dí poi, durasse per tutto il mese d’ottobre prossimo. Nominò ciascuno di essi quegli potentati e stati italiani che erano confederati e aderenti suoi, e i re di Spagna nominorno di piú il re Federigo e i pisani. Convenneno oltre a questo di mandare a Mompolieri uomini propri per trattare la pace dove potessino intervenire gli oratori degli altri collegati; e in questa pratica davano i re di Spagna speranza di potere con qualche giustificata occasione congiugnersi col re di Francia contro agli italiani, proponendo, insino allora, partiti di dividersi il regno di Napoli. La quale tregua benché fatta senza partecipazione de’ collegati d’Italia fu nondimeno grata a tutti, e specialmente al duca di Milano, desiderosissimo che la guerra si rimovesse del suo dominio.
Ma essendo restata libera in Italia la facoltá dell’offendersi insino al vigesimo quinto dí di aprile, il Triulzio e Batistino, e con loro Serenon, ritornati con cinquemila uomini nella riviera di ponente, assaltorono la terra d’Albinga, la quale benché avessino al primo assalto quasi tutta occupata, nondimeno disordinatisi nell’entrarvi ne furno cacciati da poco numero degli inimici. Entrorno dipoi nel marchesato del Finale per dare cagione all’esercito italiano d’andare a soccorrerlo, sperando d’avere occasione di condurgli alla giornata; il che non succedendo non feceno piú cosa di momento, essendo massime accresciuta la discordia de’ capitani e mancando ogni dí piú, per la tregua fatta, i pagamenti. Nel qual tempo i collegati avevano, da Novi in fuora, recuperato le terre prima perdute; e Novi finalmente, con tutto che il conte di Gaiazzo andatovi a campo ne fusse stato ributtato, ottenneno per accordo: né restò, de’ luoghi acquistati, in potere de’ franzesi altro che alcune piccole terre prese nel marchesato del Finale. Ne’ quali travagli il duca di Savoia, infestato da tutte le parti con offerte grandi, e il marchese di Monferrato, il governo del quale era stato dal re de’ romani confermato in Costantino di Macedonia, non si dichiarorono né per il re di Francia né per i confederati.
Non si era in questo anno fatta cosa di momento tra i fiorentini e i pisani, benché continuamente si proseguisse la guerra, se non che essendo andati i pisani, sotto Giampaolo Manfrone con quattrocento cavalli leggieri e con mille cinquecento fanti, per ricuperare il bastione fatto da loro al Ponte a Stagno, il quale avevano perduto quando Cesare si partí da Livorno, il conte Renuccio avutone notizia andò con molti cavalli a soccorrerlo, per la via di Livorno, non pensando i pisani dovere essere assaltati se non per la via del Pontadera; e avendogli sopragiunti che giá combattevano il bastione, gli messe in fuga facilmente, pigliandone molti. Ma si posorono, per la tregua fatta, similmente l’armi tra loro; benché malvolentieri fusse accettata da’ fiorentini, perché giudicavano essere inutile alle cose loro il dare spazio a’ pisani di respirare, e perché, non ostante la tregua, per sospetto di Piero de’ Medici che continuamente qualche cosa macchinava, e per il timore delle genti viniziane che erano in Pisa, la necessitá gli costrigneva a continuare le spese medesime.