Sotto la tenda/Prefazione
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PREFAZIONE.
Come mi è nata l’idea di un viaggio al Marocco?
Ero ad Algesiras attaché alla famosa Conferenza internazionale nella mia consueta qualità di corrispondente del Corriere della Sera, e laggiù, dopo avere per dei mesi sentito ripetere dai diplomatici (ed avere trasmesso telegraficamente) le più disparate opinioni sul Marocco, dopo aver raccolto su quel paese tanto discusso le più varie opinioni, ho finito per sentire il legittimo desiderio di sapere che cosa è veramente il Marocco. Le montagne della costa marocchina, così vicine e alte sul mare di Algesiras, m’invitavano e mi allettavano più di tutte le Conferenze internazionali. Il desiderio divenne presto tentazione, e un bel giorno abbandonai Algesiras e diplomatici, passai lo Stretto, e da Tangeri informai il mio giornale e i miei lettori della fuga con una lettera che riproduco qui, in parte, perchè essa mi appare ora come la migliore prefazione a questo volume sul mio viaggio marocchino.
«Iersera mi sono deciso alla partenza — scrivevo. — Stamani all’alba sono sceso sul molo. I fanali erano ancora accesi per le strade deserte, penetrate appena dalla prima luce livida d’una giornata tempestosa; le casette bianche, arrampicate su per le viuzze scoscese, dormivano ancora profondamente e pareva si stringessero l’un l’altra per aver meno freddo e per non cadere, come fanno le pecore nel sonno. Sulle loro faccie pallide le persiane chiuse sembravano degli occhiali verdi, i quali conferivano loro un’aria veneranda ma triste. Dal mare veniva un vento terribile che urlava negli angiporti con mille voci lamentose, alle quali il profondo e ampio muggito dei marosi contro le scogliere dell’Isla Verte faceva da accompagnamento. Una mattinata da romanzo, con tutti gli elementi indispensabili ad una fuga classica».
«Una barca mi aspettava vicino alla gettata e con quella ho preso il largo per andare incontro al piroscafo Rabat proveniente da Gibilterra e diretto a Tangeri. I battellieri hanno preteso il doppio del prezzo stabilito a causa della tempesta, ed io ho pagato di buona grazia tutto quello che hanno voluto perchè ero felice. Felice di fuggirmene, felice di non dover più galoppare da una delegazione all’altra ad ascoltare parole inutili e noiose, e correre a telegrafarle per tutti i fili e per tutti i cavi; felice di non dover più trascorrere ore eterne nel grigio patio del Palacio Concistorial aspettando di veder uscire molti solenni personaggi col cappello a cilindro pieno di misteri; felice di non aver più conciliaboli, appuntamenti con diplomatici che non dicono quasi niente, ma lo dicono con circospezione; di non avere più interviste banali che se non le telegrafate vi creano la fama di inabile e se le telegrafate vi creano quella d’indelicato; felice di non trovarmi più nel salone del famoso Hotel Reina Cristina a fare una caccia a fermo ai delegati delle potenze per studiare la «fisionomia della situazione» con la più grande noia reciproca; felice di liberarmi da un servizio gravoso e vano che, se è ben fatto, ha troppi punti di contatto con i servizi di polizia politica per essere piacevole».
«Il bravo corrispondente di una Conferenza diplomatica deve avere tutte le qualità di un agente segreto; deve saper tacere e saper parlare, prendere le vittime di sorpresa come un giudice d’istruzione, dare delle notizie false per averne delle vere, nascondere le sue fonti d’informazione, non disdegnare la cooperazione dei camerieri e dei portieri, dissimulare il suo pensiero. Tutti diffidano di chi dice quello che pensa, e soprattutto se quello che pensa rassomiglia, per caso, alla verità».
«E la verità in certe questioni che interessano la politica del proprio paese, cioè la sua vita, è spesso dannosa. La voce di un umile corrispondente ha un’eco troppo vasta, essa concorre troppo a plasmare l’opinione pubblica, a rendere la nazione ostile o favorevole ad una idea o ad una politica, perchè egli non si senta a poco a poco paralizzato dalle possibili conseguenze dei suoi errori di giudizio. Chi può esser sicuro di vedere giusto, di conoscere tutta la portata delle questioni che si dibattono? Un giornalista si forma una opinione immediata sul piccolo fatto del giorno, sulla frase udita allora, su quello che vede, ed egli, per dovere professionale, deve comunicare a milioni di connazionali questa sua opinione che può essere spesso il prodotto di una miopia fatale. La politica estera d’un paese segue un tracciato lungo, come la rotta d’una nave; chi è a bordo della nave non può giudicare semplicemente guardando le coste e gli scogli vicini; bisognerebbe conoscere l’ampia visione che è nella mente del pilota».
«Una Conferenza è un monumento di chiacchiere, un torneo di intrighi; per farsene un’opinione sulle questioni bisogna sempre credere sulla parola a qualcuno, che forse non è chi ha più ragione, ma chi ha più abilità. Si giudica sovente, come il pubblico d’un processo, la eloquenza degli avvocati e non il fatto e si finisce con l’applaudire l’assassino. Chi dice la verità ad Algesiras?»
«La risposta è su quest’altra sponda dello Stretto; è al Marocco. Ecco perche sono venuto. Tutti i Libri Gialli e i Libri Bianchi del mondo non vi dicono della questione marocchina quello che vi rivela una sola occhiata alla folla del Soko di Tangeri».
«Il Marocco è forse oggi il paese più interessante del mondo; l’anarchia che lo dilania ha scomposto le sue forze come il prisma scompone la luce e le offre all’esame dell’osservatore».
«Questa anarchia non è tanto uno scatenamento di odi e di selvagge ambizioni, quanto uno scatenamento di cupidigie; il Marocco divora se stesso. Da cinquecento anni questo impero imputridisce e si sfascia, ma l’Europa non se n’è accorta; essa è accorsa solo quando ha udito il gridìo del saccheggio, quando le è giunto un odore di preda. Eccola alla caccia. Le potenze sono abbastanza civili da comprendere che bisogna fare le cose con ordine per non nuocersi troppo a vicenda; non si deve sbranare e divorare il Marocco, ma soltanto succhiarlo e occorre mettere una disciplina alla utile operazione: questo si chiama «applicare le riforme».
«Lo stesso giuoco è fallito in Cina. Riuscirà al Marocco? L’Estremo Occidente sarà più docile allo sfruttamento dell’Estremo Oriente? Anche qui il popolo è orgoglioso delle sue origini, fiero della sua religione, chiuso nelle sue antiche usanze come nel candido selham tradizionale che veste da dieci secoli; anche qui disprezza gli stranieri, ed è pronto a sollevarsi contro la dinastia che li accoglie. E per di più è un popolo guerriero che parla ancora delle sue lontane conquiste, che dice sua la moschea di Cordova, che conserva fra i tesori di molte famiglie le chiavi delle case abitate dagli avi a Granata e a Siviglia, che mostra con orgoglio alberi genealogici le cui radici si piantarono nel cuore dell’Europa».
«Cosa faranno i boxers del Marocco?»
«Ad Algesiras le parole, qui i fatti. Io li preferisco: ingannano meno».
«Organizzerò subito una carovana per affrontare un lungo viaggio nell’interno; Tangeri non è che la porta del Marocco — e meno aperta di quello che si crede. Bisogna passare la soglia per vedere, ed io la passerò».
«E spero di trovare cose più interessanti del five o’clock tea dell’Hotel Reina Cristina, condito da tutti i se e tutti i ma della diplomazia internazionale».
Luigi Barzini.