Sotto il velame/Il passaggio dell'Acheronte/V
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Il passaggio dell'Acheronte - IV | Le tre fiere - I | ► |
V.
E Dante si trova di là e discende nel cieco mondo. Virgilio gli è di guida per l’oscura contrada che a lui è pur troppo nota. All’entrare nel vestibolo Dante ha bisogno di conforto, chè sospetta e invilisce. All’entrare nel limbo, smuore, Virgilio. Non è tema, è pietà: pure può sentirsi per tema. Nel fatto, Dante mancava, nella selva, di libero volere, come se lume non avesse avuto, e Virgilio, nella sua vita lontana, quel lume non aveva avuto, e perciò non libero volere, non ragione di meritare.
Ora Dante aveva mortificato la sua viltà all’entrare nell’inferno e nel passare tra i vili, e aveva racquistato intero il lume, morendo della morte mistica che è una seconda natività. Misticamente egli ha subito la morte di Gesù. La terra trema per lui, come tremò per il figlio di Dio. Come il figlio di Dio, discende. Il legno della croce fu a lui veicolo, come al Possente. Egli vive, per il fatto che è morto. Virgilio invece, corporalmente morto e non più che ombra o spirito, attraversando l’Acheronte non faceva se non quello che aveva già fatto la prima volta, quando lasciò il suo corpo a Brandizio: non faceva se non morire della seconda morte. Onde la sua angoscia, per sè e per gli altri.
Or noi dobbiamo fermare nel pensiero questo fatto. Dante morendo della morte mistica, per cui si acquista il lume e il libero volere, viene a trovarsi tra quelli che di quella morte mistica non vollero (ma quasi involontariamente, poveri bimbi, miseri spiriti magni!) non vollero morire, e perciò morirono poi della seconda morte. Dante, dunque, muore la morte, o vogliam dire mortifica in sè, la morte dei dannati che visita. Ciò almeno nel primo cerchio; e anche nel vestibolo, dove mortifica la viltà, che è quella mezza vita e mezza morte de’ non mai vivi e disperati di morire.
Ciò almeno nel vestibolo e nel limbo. O sempre? per tutto l’inferno? Pensiamo alla grande divisione: tenebra, ombra della carne, veleno.
Il lume che non è lume, anzi è tenebra, è per certo il fuoco che non impedisce che il luogo ove raggia, non sia di tenebre; è la sapienza e scienza, qual fu di Aristotile e di Plato e di molti altri, che non adorarono Dio debitamente; sapienza e scienza che non venivano dal sereno, e non erano perciò luce, ma tenebra. E l’ombra della carne è l’oscurarsi di quel lume per via della concupiscenza. E il veleno è il corrompersi di quel lume, in modo che volga al male chi lo ha, invece di dirigerlo al bene: ed è la malizia.
Ora noi vediamo che Dante con aperte parole dice di morire anche avanti la concupiscenza e anche avanti la malizia; di morire di quella morte che è un rivivere, e che quindi non sapremmo dire se sia vita o morte. Non sapremmo dir noi, nè sa dir esso, il poeta. Chè avanti il simbolo più comprensivo della malizia, avanti a Dite che è il re della citta roggia, la quale è il regno della malizia,1 Dante dice:2
Io non morii e non rimasi vivo:
pensa oramai per te, s’hai fior d’ingegno,
qual io divenni, d’uno e d’altro privo.
Resta la concupiscenza. Ebbene nel cerchio di essa, il quale punisce la forma più lieve ma più, diremo, caratteristica di essa; nel cerchio della lussuria, Dante muore3. Egli dice:
di pietade
io venni meno sì com’io morisse
e caddi, come corpo morto cade.
E si noti che con un processo tanto solito in Dante quanto inavvertito dagli interpreti, il poeta compie a mano a mano il suo pensiero e a grande distanza, sì che la parola ultima di quello che, se noi non attendiamo, resterebbe un enigma forte, è pronunziata molto tempo dopo la prima. Della morte alla tenebra parla come d’uno svenimento. Della morte alla concupiscenza dice, sì, che era come una morte. La prima volta cadde come uomo cui sonno piglia; la seconda, cade come corpo morto. Morte dunque o non morte?
Ed egli solve l’enigma solo parlando della terza volta, di quando morì la morte che è morte al veleno o alla malizia, e dice che quella non era morte e non era vita; cioè che era morte e vita nel tempo stesso: morte al peccato e vita a Dio. Ma, per essere più precisi, forse sola quella dell’alto passo, fu morte; morte generica al peccato generico. Le altre sono “sepultura„. Invero, dopo quella morte, come Gesù morì e discese agl’inferi, così Dante agl’inferi discende. E gl’inferi sono, come egli dice, la tomba; e v’è in essa un vermo reo, più vermi, e aura morta e sucidume e notte.4 Ora dice S. Ambrogio, riportato da quello che egli convertì:5 “Noi vediamo come è la morte mistica: ora consideriamo come ha da essere la sepultura. Chè non basta che muoiano i vizi, se non marcisce la lussuria del corpo e non si dissolve la compagine di tutti i vincoli carnali. C’è, dopo la morte al peccato e la natività a Dio, ancor da fare: dobbiamo prima di tutto dissolvere, distruggere la concupiscenza„.6 E invero vediamo che Dante cade come corpo morto nel cerchio della lussuria, a breve distanza della prima morte mistica.
E quel cadere simboleggia ciò che S. Ambrogio dice, seppellire il peccato, dopo averlo mortificato.
Ma questo mortificare è un vivificare. Bene S. Agostino comenta7 le parole di Anna profetessa. “Il Signore mortifica e vivifica, conduce giù agl’inferi e riconduce su„; le comenta coi profondi concetti di S. Paolo. Mortifica, come mortificò il figlio; vivifica, come vivificò il figlio. Perciò lo scendere agl’inferi Dante narra, come un tornare alla vita per via della morte; morte alla tenebra, alla concupiscenza, alla malizia. Non ascende, come dice lo Apostolo delle genti, su tutti i cieli chi non discende negli ultimi abissi;8 cioè Gesù ascende perchè discese. E come lui, ogni uomo che farà quel ch’esso fece. E come lui, Dante; che ora discende per ascendere; e muore per vivere; e visita l’inferno per vedere il paradiso.
Il velame comincia a sollevarsi.
Note
- ↑ Inf. XI 16 segg.
dentro da cotesti sassi
. . . . . . . son tre cerchietti . . . .
D’ogni malizia etc.Cfr. 73 segg.
- ↑ Inf. XXXIV 25 segg.
- ↑ Inf. V 140 segg.
- ↑ Inf. XXXIV 108, VI 22.
- ↑ Aug. contra Iul. Pel. II 14.
- ↑ Aug. ib. VI 42.
- ↑ Aug. de civ. Dei XVII 5, 5.
- ↑ ad Eph. 4, 9 e 10.