Sorrisi di gioventù/Figure femminili
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Figure femminili.
All’alba dei miei ricordi, bella, rosea, bionda immagine di costante giovinezza, arride la mia, nonna dolce. Dico la nonna da parte di padre; che l’altra non l’ho conosciuta, essendo ella morta prima ch’io venissi alla luce. Intorno al quale evento modesto sarà bene che io dica qui il mio pensiero ima volta per tutte. È stata una buona cosa il capitare da queste parti, per le belle curiosità che il mio spirito ha potuto appagare, per le utili lezioni che il mio intelletto ha potuto ricevere, e per la calma serena con cui l’anima mia. è disposta a vedere un altro pianeta, ora che è stata sufficientemente istruita di questo. Io sono dunque riconoscente del dono, quantunque non ne abbia fatto il miglior uso del mondo; specie negli anni più giovani. Ma questo succede il più delle volte dei doni ottenuti, che subito lavoriamo a sciuparli, per la inconcepibile manìa del vederci dentro. Ma queste sono inezie, da non guastarcisi più il sangue, oramai. Non solamente son grato al babbo e alla mamma, che mi han fatto quel dono; ma ancora alla nonna, che me ne ha confermato il possesso, in un brutto quarto d’ora, e me ne ha reso il godimento più ameno. Com’era buona, la nonna! Babbo e mamma mi sgridavano qualche volta; lei non mi sgridava mai, me le passava, tutte, non riuscendo con quelle care luminose pupille azzurrine a. farmi gli occhiacci. Mamma e babbo mi stavano sempre addosso per farmi studiare; lei non mi pose mai un libro tra le mani. Provvida, forse! Ma fors’anche è da credere che non lo facesse lei, perchè a questo ci pensavano gli altri. A buon conto, poichè da bambino dormivo nella sua camera bella, era lei che mi faceva ogni mattina star su di buonora. Ma questo lo faceva con una frottola in versi, mezzo italiani e mezzo genovesi; ond’io, per virtù sua, incominciavo sempre le mie giornate ridendo.
L’amavo molto, vi ho detto, anzi, per confessarvi ogni cosa, l’amavo sul principio anche più della mamma. Ancora non sapevo che il dar vita costasse dolori. Per sentito dire, io ero venuto dall’India e stato ritrovato al piè d’un olivo: gran fatica, farmi prendere in collo da una levatrice e portare a casa per erede del trono! Sapevo invece che un anno dopo il mio arrivo dall’India, la mia piccola vita era stata in pericolo grande, e che dal pericolo mi aveva scampato la norma. Questo si ricordava ad ogni tanto in famiglia; ed era anzi questa la ragione per cui la mia mamma lasciava correre spesso e volentieri qualche parola acerba della nonna. Si sa, nelle famiglie, tra suocera e nuora tempesta e gragnuola; ma in casa nostra non erano altro che scosse di pioggia; le nubi, così facili a sorgere sull’orizzonte domestico, erano ancor più facilmente dissipate dal grato episodio della mia salvazione miracolosa. Sicuro, accanto al sostantivo c’era sempre l’epiteto.
Figuratevi, ero stato messo a balia, contrariamente ai precetti di Gian Giacomo; e mi avevano mandato a vivere nell’alta valle di Albisola, un po’ più su del convento della Pace, in una casa colonica detta la Vedrera, piantata assai pittorescamente, ma non troppo saldamente, tra la via della Stella è il torrente Riobasco. La mia balia era, bellissima, per quanto ne ho udito dire più tardi (allora, per ragioni facili ad intendersi, ad onta di tutta la confidenza che ci avevo, non feci attenzione alla cosa); ma era anche giovanissima, e sbadata parecchio. Mi trascurava, a quanto pare, lasciandomi solo per oro ed ore di seguite, a strillare in una cesta da cavoli; per giunta, dopo qualche mese di pensione, prese a darmi il latte cattivo.
La nonna capitava spesso lassù; da principio per sincerarsi che non pericolasse la casa, così fuor di squadra come era; poi per vedere se fossi ben governato. Una volta, giungendo fuor d’ora, mi aveva trovato solo a strillare; e la balia, tutta confusa, quando final mente arrivò, aveva balbettata una scusa. Ma di questi casi ne seguirono parecchi; e le scuse, sempre tutte d’un colore, contentavano poco la nonna. S’aggiunse il latte cattivo; ma di questo non si sospettò a tutta prima, attribuendosi il mio deperimento a tante piccole cause passeggiere, ora al caldo, ora ai bachi, ora allo sforzo del primo dente. Per altro, il primo dente non accennava a spuntare; non potevo avere i bachi ogni settimana; il mio sfiorire così a vista d’occhio non poteva essere effetto del caldo. La nonna ebbe presto un sospetto del vero, e corse tosto agli estremi rimedii; capitò una mattina con la vettura, fino all’ingresso della Vedrera; mi fece prendere in collo dalla balia, e mi portò di volo a Savona, nella, nostra villetta del Bricco, sulla rocca di Lègino, consegnandomi al seno meglio provveduto di una. nostra massaia; donna matura, che aveva avuta una tarda ripresa di maternità, e che, svezzato di quei giorni il suo ultimo rampollo, aveva ancor latte per un succedaneo.
Passavo da una ventenne a una quadragenaria; tanto per cambiare, ma anche per cavar profitto di una differenza ohe non pensavo a studiare. Lauretta Sambarino, che tale era il nome della mia nuova balia, lavorò di buzzo buono a ristorarmi; e prima di tutto mi fece rialzare la testa, una gran testa, Dio santo! che già cominciava a spenzolare come un fico brogiotto quando è maturo, e il pic ciuolo vizzo non basta, più a reggerlo. Ma essa non mi rimise in gambe egualmente; anche levato da balia e ricondotto in città, ne strascicavo una, toccando terra con la noce del piede; tanto che si temette non avessi a restarne storpio per tutta la vita. Sia lode al cielo, che non si è avverato il presagio, e respirino le ombre di lord Byron e di Walter Scott. Ma c’è scattato di poco, che quei due zoppi non avessero un famoso rivale.
Questi sono ricordi, per così dire, di mattonella. I miei proprii, quelli che mi danno la sensazione della cosa veduta, sono dell’età di due anni e mezzo. Mi ricordo ancor oggi, come ero allora, sul lastrico della piazza del Duomo, tenuto per le falde di una buona donna., chiamata Angelina, il cui nome, e più il vezzeggiativo, si adattava male alla sua gran mole carnosa. Era alta come un corazziere, e stentava, a piegarsi nella vita; grossa, tonda di fianchi come un’orca olandese; e si dondolava sulle anche, facendomi muovere davanti a sè, come un povero burattino dallo gambe cedevoli. Ma aveva un bel sorriso, quella barcaccia di donna; ed anche una bella voce, di buon metallo, non estesa di registro, ma pastosa e flessibile, quasi lisciata, inumidita da quell’ammasso di sugna ond’era costretta ad uscire, e in cui mi pareva sempre di affondare, quando ero stanco di ciampicare e l’orca olandese m’issava benignamente in coperta. Davanti a me, camminando a ritroso coPagina:Barrili - Sorrisi di Gioventù, Treves, 1912.djvu/18 Pagina:Barrili - Sorrisi di Gioventù, Treves, 1912.djvu/19 Pagina:Barrili - Sorrisi di Gioventù, Treves, 1912.djvu/20 Pagina:Barrili - Sorrisi di Gioventù, Treves, 1912.djvu/21 Pagina:Barrili - Sorrisi di Gioventù, Treves, 1912.djvu/22 Pagina:Barrili - Sorrisi di Gioventù, Treves, 1912.djvu/23 Pagina:Barrili - Sorrisi di Gioventù, Treves, 1912.djvu/24 Pagina:Barrili - Sorrisi di Gioventù, Treves, 1912.djvu/25 Pagina:Barrili - Sorrisi di Gioventù, Treves, 1912.djvu/26 Pagina:Barrili - Sorrisi di Gioventù, Treves, 1912.djvu/27 Pagina:Barrili - Sorrisi di Gioventù, Treves, 1912.djvu/28 Pagina:Barrili - Sorrisi di Gioventù, Treves, 1912.djvu/29