Lodovico Sforza figliuolo del duca Francesco, se non avesse con tirannica scelleratezza occupato ingiustamente lo stato al nipote, potrebbe per molte parti parer degno di molta lode; ma l’animo ambizioso e non contento di avere il governo del ducato di Milano, con titolo di tutor del popolo, molto lo rese odioso a’ principi della cristianità e agli amatori della giustizia e del dovere. Costui, morto il nipote, operò in modo co’ suoi fautori ch’esclamandosi per le contrade di Milano, qualmente la città non aveva bisogno d’esser governata da teneri bambini, ma da uomini prudenti, e d’inveterata esperienza, fu dato assolutamente a lui tutto il governo dello stato, benché prima l’avesse, e fu gridato duca. Parve a lui d’aver fatto male a chiamar come detto i Francesi in Italia, perciocché non ebbe cara la tanta lor felicità nel regno di Napoli; e però co’ Veniziani s’oppose a esso re Carlo nel ritorno del regno; e fu commesso il fatto d’arme del Taro, nel quale fu detto che Lodovico ordinò secretamente a’ suoi che non combattessero perciocché non vedeva molto volontieri ingrandirsi i Veneziani; la vicinanza de’ quali aveva sospetta. Passò dunque il re Carlo verso Francia, di che molto venne a gloriarsi il Moro, il quale uso a governarsi in tutte l’imprese con simulazione e dissimulazione si vantava d’esser figliuolo della fortuna. Perciò gloriandosi d’aver condotto in Italia, e poi d’averne cacciato il re di Francia, attribuiva al suo sapere, che Pietro dei Medici fosse stato levato del governo di Fiorenza, gli Aragonesi del regno di Napoli e i Fiorentini del dominio di Pisa, che per consiglio ed autorità sua molti principi si fossero collegati insieme contra i Francesi, il re Ferdinando fosse tornato nel regno e che fino i capitani francesi piuttosto avessero ubbidito a lui che al proprio re loro. Maritò la nipote in Massimiliano imperatore, dandole in dote quattrocento mila scudi, con patto che l’imperatore gli desse titolo di duca e l’investisse di quello stato: perciocché Lodovico scellerato in un medesimo tempo contra il padre e contra il fratel maggiore, diceva che non avendo suo padre né suo fratello ottenuta l’investitura da alcun supremo principe di quel ducato, non erano stati legittimi duchi; e con questo veniva a ricoprir la sua ambizione e scelleratezza d’aver usurpato il dominio al nipote; adducendo che se non ci era corsa alcuna investitura, non v’era anco legittimazione al ducato. Oltra di ciò con l’esempio d’Artaserse e di Ciro affermava che a lui apparteneva quel titolo e stato, e non al fratello: perciocché esso era nato quando Francesco Sforza suo padre era duca di Milano, dove il fratello era nato per avanti; e che però egli solo era nato a quella successione. Ora venuto a morte Carlo VIII re di Francia e in suo luogo successo Lodovico XII, il Moro si sbigottì fieramente sapendo ch’era suo nemico, e fu sopraggiunto da tanto terrore che quasi ebbe per fatale, che fosse giunta l’ultima sua ruina, e a fatica teneva coperto il suo timore. Il re di Francia subito asceso al regno si collegò con papa Alessandro VI e co’ Veneziani, e mosse guerra allo Sforza: ed egli spinto dalla necessità ricorse con veramente crudel consiglio a Bajazzette signor de’ Turchi, acciocché movesse guerra a’ Veneziani, disperandosi d’aver soccorso dall’imperatore, molestato allora dall’armi degli Svizzeri per opera de’ Francesi. Fu in ultimo costretto con grosso tributo a comperar la pace dal re suo nemico, acciocché a lui ed a’ suoi figliuoli solamente lasciasse il possesso dello stato paterno: a che il re; dato da principio orecchio, non volle acconsentir poi, avendo apparecchiato da ogni parte insidie e violenze contra gli Sforzeschi. Mandò dunque eserciti contra il Moro, il qual in tal maniera ci rimase oppresso che se ne fuggì di Milano con monsignor Ascanio suo fratello e andò in Alemagna a trovar l’imperatore. Trovandosi prima a Bolzano ebbe nuova che Bernardino di Corte, a cui aveva raccomandato il castello di Milano, avaramente l’aveva tradito in mano de’ Francesi, che Cremona era stata presa dai Veneziani e che il castello di quella città per tradimento di Battaglione era similmente stato dato loro. Tornò poi a tentare il suo ritorno avendo inteso che i popoli, desiderando il dominio Sforzesco aveano grandemente in odio i Francesi. Fu dunque lietamente ricevuto in Milano, e consumando molti giorni in combatter Novara, fu tradito dagli Svizzeri che erano al suo stipendio, i quali corrotti da’ Francesi, lo diedero in mano di Mons. della Tramoglia che lo mandò prigione in Francia: dove stette cinque anni miseramente nella torre di Loches1, privo fin della consolazion di poter scrivere; finché essendosegli sparso il fiele per la vita, colla morte pose fine alla sua infelice miseria. Fu di bella e generosa presenza di volto e di corpo; umanissimo e facilissimo in dare udienza ad ognuno, e nelle sue risposte pieno di gravità e di giustizia, ma tanto accorto che denegando le grazie a chi le domandava, pareva che facesse la metà della grazia, tanto sapeva egli gentilmente negare e dar ripulsa. Amò di governare piuttosto col consiglio che con le armi, ma fu doppio, astuto e solenne simulatore, siccome colui che voleva fortificar tutta la sua prudenza coll’astuzia e colla simulazione, usando a tempo eloquenza e dolcezza di parole piene di sottigliezza naturale. Nacque egli ai 3 d’agosto del 1450, tiranneggiò solo anni 5 e mesi 6. Fu cacciato dello stato l’anno 1499, e cinque anni visse in prigione: tal che verrebbe a esser morto in età di 54 anni2. Vedi il Bembo e il Sabellico.
Note
- ↑ Alcuni scrittori dicono dieci, altri otto anni, ed asseriscono che non morì nel castello di Loches, ma sibbene nella città di Lourdes, da un potente veleno fattogli somministrare da Lodovico XII.
Nacque in Vigevano nel 1450; fu relegato dal fratello in Francia, e ripatriò alla sua morte. Tentò in Milano una sommossa; preso e dichiarato ribelle venne confinato in Pisa. Ebbe corrispondenza con Antonio Trassino, uomo di vili natali, ed amante di Madonna Bona. Con questo mezzo ottenne di restituirsi a Milano e vi giunse nel 1479; prese egli la reggenza dello Stato nel 1481; scacciò il Trassino, che andò a Venezia, portando seco un tesoro di gioje e di denaro. Madonna Bona che volea uscire dagli Stati venne arrestata in Abbiategrasso, ove morì nel 1494.
L’epoca di Lodovico il Moro è delle più illustri di Milano. Sotto il suo regno vediamo innalzarsi il Lazzaretto fuori di porta Orientale; il magnifico santuario della Madonna di S. Celso, la cupola delle Grazie, il grandioso chiostro di S. Ambrogio; la condotta del naviglio della Martesana dalla Cassina dei Pomi entro Milano per unirlo col naviglio grande: chiamò a sé Bramante da Urbino e Leonardo da Vinci. Fiorirono eziandio: Demetrio Calcondila, Giorgio Merula, Alessandro Minuziano, Bartolomeo Calchi e Tomaso Grassi che aprirono scuole pubbliche, Tomaso Piatti, che istituì cattedre di astronomia, di geometria, ecc. Nella storia avevamo Tristano Calchi e Bernardino Corio e Caspario presiedeva al primo conservatorio di musica che si erigesse in Italia. Da Leonardo e da Bramante soprattutto uscirono discepoli che illustrarono altamente le belle arti di Lombardia. Lodovico il Moro si sposò a Beatrice d’Este, che morì di parto nel 1497. Di Lodovico e di sua moglie abbiamo due bellissimi monumenti nella Certosa di Pavia. Ebbe sei figli: quattro naturali e due legittimi: i due legittimi furono Massimiliano e Francesco che si succedettero nel ducato di Milano.
- ↑ Quasi tutti gli storici vogliono che la pace d’Italia sia stata turbata da Lodovico Sforza quando chiamò i Francesi nella penisola. E egli poi vero? Riferirò qui su tale proposito una sensata postilla di un autore moderno: "Non potrebbesi dire che i Fiorentini aveano chiamato, gran tempo innanzi, i Francesi contro Giovanni Galeazzo I? E lo stesso Visconti non fu già egli, che accordò diritti, e consegnò in certo qual modo la chiave della porta magna di questa provincia, dando in isposa al duca d’Orlean, Valentina, sua figliuola, con città e castelli in Piemonte, e col diritto di successione allo Stato di Milano? E in epoche ancora più lontane, nei secoli nono e decimo, non furono gli stati diversi formati in Italia che chiamarono gli stranieri per sostenere contro i vicini le loro ragioni o la loro ambizione? Abati, arcivescovi, pontefici, marchesi, conti e baroni italiani invitavano a venire fra loro principi Sassoni, Provenzali e Borgognoni, Francesi e Tedeschi; li decoravano con una o con due corone, dell’italica e dell’imperiale, e gli aizzavano infine gli uni contro gli altri, quasiché gl’italiani non potessero estendere o consolidare il loro potere senz’essere, come dice Liutprando, dominati da due sovrani stranieri, e posti in continua guerra fra loro. Prosperavano in vero in queste belle contrade Firenze e Pisa, Milano, Venezia e Genova ed altre città; ma le une erano nemiche delle altre, e andavano a gara; fra loro per mendicarsi la grazia e l’appoggio degli stranieri, tenendo sempre oscillante la sorte del loro paese. Quest’era la politica di quei tempi, imitata nei secoli appresso dai repubblicani milanesi, collegandosi essi perfino col loro più gran nemico Federico Barbarossa, per tiranneggiare Lodi, Pavia, Como ed altre città, e imitata pure dai signori Torriani, dai Visconti, e da tutti i principi d’Italia per sostenere la loro ambizione. Non si dica adunque che Lodovico il Moro sia stata la causa della rovina d’Italia. Carlo VIII avea già l’intenzione di venirvi. Se lo Sforza si fosse opposto a’ suoi disegni, non era difficile al re francese di avere genti e denari dagli Aragonesi di Napoli e dai Fiorentini, già grandi nemici del reggente di Milano, per assaltare questo ducato in nome degli Orleans, e aprirsi così una via più larga e più sicura all’esecuzione de’ suoi disegni. Nei principi d’allora prevaleva più l’odio e l’interesse privato che la considerazione del pubblico bene o di un male avvenire. Non se ne ha quindi ad accusare piuttosto i Fiorentini che i Milanesi, o i Veneziani, o il Papa, o il re di Napoli i quali diedero forse occasione più volte agli stranieri di discendere in Italia. La causa d’ogni rovina era riposta nell’indole; nella politica e nella gelosia delle città e dei principi di questo paese. Gl’Italiani non forti abbastanza per vincere da soli i loro vicini, né abbastanza saggi da cedere il primato ad alcuno di loro, chiamarono a gara le armate straniere. Sempre inquieti e pieni di boria, ma senza un centro comune e senza spirito di nazione, tutti ne volevan sapere più del dovere, tutti volevan avere un dominio, nessuno volea servire. Era l’Italia d’allora come un’opulenta e grossa famiglia, senza capo, i di cui membri tutti pieni d’ingegno, tutti amanti del potere, tutti persuasi di avere la scienza esclusiva, operavano tutti a loro modo.
Delle ricchezze ammassate dal padre e dall’avo si servirono tutti, impiegandole secondo i loro fini particolari; ma non pensarono mai a farne una massa comune. Crescevano intanto intorno a questa famiglia altre famiglie, che meno potenti ma più ordinate, più docili alla voce del comando, più affezionate al ben essere comune e dirette da un sol capo, rivolsero a loro profitto tutte le spese male applicate di quella che sembrava affettare l’universale dominio, e l’indussero infine a l’estrema indigenza. Tale a un dipresso era la condizione in cui trovavasi l’Italia sotto Lodovico il Moro; gli stranieri dopo varie vicende, poco dissimili da quelle dell’Italia stessa, divenivano intanto più assennati, e pensarono a fortificarsi e a unirsi nel loro paese; ne estesero a poco a poco i confini col’acquisto di nuove provincie; e lasciandosi vincere, e qualche volta dispotizzare da un solo monarca, divennero formidabili alle altre nazioni. Gli stranieri che gl’Italiani volevano espellere dal loro suolo, se ne impadronirono e fecero poi sentire agli Italiani il torto di averli chiamati Barbari. I Barbari, che così venivano designati gli Alemanni, i Francesi e gli Spagnuoli, salirono tant’alto, chi nel sapere, chi nella morale, e chi nel vero essere di nazione, che si lasciarono sotto questo rapporto molto al di sotto la bella e troppo orgoliosa Italia, la quale se ne andava intanto e va forse pur ora gridando d’essere stata la prima nazione e la maestra del mondo. Credendosi gl’Italiani col pensiero sempre là dov’erano un tempo, divennero di fatto più forestieri a loro medesimi, di quello che fossero i Milanesi cogli Spagnuoli, i Piemontesi con i Francesi, ecc., desiderando gli Spagnuoli quando avevano i Francesi, e desiderando i Francesi quando avevano gli Spagnuoli o gli Alemanni".