Galeazzo Maria Sforza, figliuol primogenito di Francesco Sforza, si trovava in Francia quando suo padre venne a morte, perciocché egli v’ea stato mandato con alcuni soldati vecchi, parte perché facesse i suoií primi principj della milizia in quelle guerre, e parte perché desse soccorso al re Lodovico XI oppresso da gravissima ribellione de’ baroni francesi. Come dunque per le lettere della madre egli ebbe intesa la morte del padre, subito travestito da mercante se ne venne con prestezza a Milano, dove entrato ai 20 di marzo, essendo egli in età
di 22 anni, vi fu ricevuto come duca, e cominciò insieme colla madre a governar temperatamente lo stato. Diede soccorso a’ Fiorentini a’ quali era stata mossa guerra da Bartolomeo Coglione general de’ Veneziani di commission del Senato, e a questo soccorso e impresa si trovò anco Alfonso duca di Calabria, talché il Coglione fu costretto a partirsi di Toscana. Ajutò similmente Guglielmo marchese di Monferrato che con guerra era molestato da Filippo fratel del duca di Savoja. Fermata poi la pace fra Ferdinando re di Napoli e i Veneziani e Galeazzo, egli tolse per moglie Bona di Savoja, sorella della moglie di Lodovico re di Francia, e figliuola di Filiberto duca di Savoia. Nacque appresso grave discordia fra esso Galeazzo e sua madre, che con lui governava lo stato, e ciò per suggestion di alcuni maligni, onde il duca la privò d’ogni amministrazione, tutto che ella con molta modestia sempre avesse governato. Perché sdegnata, risolse d’andarsene alla sua città di Cremona, che le fu concessa in dote, con animo, quando il figliuol l’avesse voluto disturbare, d’aver ricorso al Senato Veneziano. Galeazzo avendo di ciò qualche sospetto, le impedì l’andata facendole (come fu detto) dare il veleno, onde se ne morì in Marignano, e il duca la fece con grande onor seppellire a lato al padre. Andò poi Galeazzo insieme colla moglie a Fiorenza l’anno 1471 con tanta comitiva e pompa. che superò quella de’ grandissimi re, dove con non punto minor solennità fu ricevuto da quella repubblica; il che similmente fecero i Lucchesi ricevendolo in Lucca 1 Di qui passò a Genova, ove i Genovesi Fecero un parato di valuta di dodici mila ducati per raccettarlo. Maritò Caterina sua figliuola naturale2 a Girolamo Riario signor di Forlì, nipote di papa Sisto IV e ricevé superbamente in Milano il cardinal Riario
fratel d’esso Girolamo, avendogli fatti preziosissimi doni, e perché considerava che l’amicizia de’ Veneziani, per essergli vicini, molto tornava a proposito per lo stato suo; però non guardando al parentado fatto col re di Napoli nemico al Senato Veneziano, volle con quella repubblica fermar lega ed amicizia, amando egli più la pace che la guerra: e così la concluse per 25 anni, da che fra lui e il re di Napoli nacque nemicizia. Fece similmente lega col re di Francia e diede ajuto a Filiberto duca di Savoja suo suocero, molestato con guerra dal Vescovo di Ginevra alla quale intervenne in persona. Tornato a Milano, fu da alcuni congiurati ammazzato perciocché essendo il duca tutto rivolto ai diletti amorosi e spesse volte con disonesti mezzi si provocò la nimicizia di molti. I congiurati furono Andrea Lampugnano, Carlo Visconti e Girolamo Olgiato, i quali in chiesa di S. Stefano ove si celebrava la festa di detto Santo, ed esso v’era per udir messa, l’ammazzarono crudelmente l’anno 1476 essendo egli in età di 33 anni, ed avendo dominato 10 anni 9 mesi e 19 giorni 3. Fu principe liberale e magnifico, intanto che agguagliava la superbia reale. Tratteneva fanterie e cavallerie del fior di tutta Italia con grossi stipendj, e la cavalleria passava due mila uomini d’arme: ma così bella e onorata che non si poteva vedere spettacolo più magnifico. Manteneva ogni sorta d’animali e d’uccelli per cacciare e uccellare, ma con tanti ornamenti e spese, che fino le stanghe sopra le quali stavano gli uccelli, erano coperte con tele di seta. ricamate con oro e argento, e i getti e i sonagli erano d’argento, e i cappelletti eran tutti forniti con gioje e con perle. Dilettossi di giuocare al pallone, e per ciò fece molti edificj in Milano, in Pavia e altrove. Fu amator dell’onesto e del dovere, osservando la giustizia fino alla severità: e molto si dilettò di mantener l’abbondanza delle vettovaglie in tutto il suo stato, il quale purgò d’ogni sorte di malfattori e perciò travestito spesse volte in abito di semplice viandante, andava per lo stato incognito a ragionar con uomini bassi per intender ciò che di lui si ragionava, e sollecitava talora i guardiani de’ porti sopra i fiumi a passarlo co’ burchielli senza contrassegno, promettendo denari, e ciò per castigare i delinquenti e per premiare chi osservava gli ordini. Dilettavasi della pittura e fu letterato, e molto nel suo parlare elegante, usando a tempo fra i suoi domestici facezie e motti arguti. Della musica ebbe tanto gusto che da diverse parti con grossi stipendj condusse musici eccellentissimi. Ma queste tante sue virtù ebbero contrappeso d’alcuni vizj che furono cagion potissima della sua morte; perciocché egli fu molto sottoposto alla libidine sporca e disonesta, e perciò i sudditi ne venivano molto aggravati, perocché egli poi accumulata l’ingiuria, sottoponeva le donne a’ suoi familiari, non si ricordando che a’ popoli non si fa alcuna ingiuria maggior di quella ch’è commessa contra l’onor delle donne. Fu crudele e fece morir di fame un sacerdote che gli aveva predetto, come egli non sarebbe arrivato agli undici anni del suo imperio. Altri fece serrar vivi nelle case, e seppellir sotto terra come morti, ed ad altri usò altre crudeltà; di maniera che n acquistò mala fama 4. Trovasi che alcune volte anco vendé la giustizia liberando molti delinquenti per denari, essendo egli molto vago d’accumular tesoro; da che ne seguì, che impose ai sudditi molte gravezze, e questi vizj macchiaron molto la sua grandezza e il desiderio ch’egli aveva di gloria. Lasciò di Bona sua moglie due figliuoli maschi e due femmine, e il suo corpo con onorate esequie fu sepolto nella chies Cattedrale di Milano. Vedi il Corio e il Suola.
Note
- ↑ Nel Viaggio che fece Galeazzo a Firenze l’anno 1475 condusse egli un tal corredo, che oggidì nessuno dei monarchi d’Europa penserebbe nemmeno a simile teatrale rappresentazione. Il Verri la descrive tratta dal Corio, io la riproduco per dare un’idea de’ costumi di que’ tempi.
"I principali feudatarj del duca ed i consiglieri gli fecero corte, accompagnandolo nel viaggio con vestiti carichi d’oro e d’argento; ciascuno di essi aveva un buon numero di domestici splendidamente ornati. Gli stipendiar] ducali tutti erano coperti di velluti. Quaranta camerieri erano decorati con superbe collane d’oro. Altri camerieri avevano gli abiti ricamati; gli statuari del duca aveano la livrea di seta ornata d’argento; cinquanta corsieri con sella di drappo d’oro e staffe dorate; cento uomini darmi, ciascuno con tale magnificenza come se fosse capitano; cinquecento scelti soldati a piedi; cento mule coperte di ricchissimi drappi d’oro ricamati; cinquanta paggi pomposamente vestiti; dodici carri coperti di superbi drappi d’oro e d’argento; duemila altri cavalli e duecento muli, coperti uniformemente di damasco per l’equipaggio dei cortigiani. Tutta questa strabocchevole pompa andava in seguito del duca; ed acciocché non rimanesse nulla da bramare, v’erano persino cinquecento paja di cani da caccia; v’erano sparvieri, falconi, trombettieri, musici ed istrioni... Questa superba comitiva, nell’accostarsi a Firenze, venne accolta con somma festa ed onore dalla Signoria. I nobili ed i primarj della città si affacciarono i primi; indi molte compagnie di giovani in varie fogge uscirono ad incontrare il duca; poi comparvero le matrone; poi le giovani donzelle cantando versi in laude dello eccellentissimo principe. Indi accostandosi alla città, ricevette gli ossequi dei magistrati. Finalmente lo accolse il Senato, che presentò al duca le chiavi della città, e Galeazzo entrò come in trionfo, e venne collocato nel palazzo di Pietro de’ Medici".
- ↑ Questa Caterina fu donna, al dire del Litta, oltre ogni credere bella e coraggiosa, si sposò a Giacomo Riario, signore di Forlì, per la difesa della qual città, diede prova di somma intrepidezza. Imperocché allorquando i pontificj eserciti ne assediarono la rocca (1488) e portarono sotto le mura i di lei figli per trucidarli, se non fosse venuta alla resa, ella schernendo gli assedianti, alzò le gonne, dicendo che aveva le forme per stamparne degli altri. Fu poscia vittima delle armi del duca Valentino, quando s’impossessò di tutta la Romagna. Venne tradotta prigioniera con catene d’oro a Roma, e morì a Firenze nel 1509.
- ↑ Chi preparò questa congiura fu un tale per nome Cola Montano, bolognese, che abitava sotto la parrocchia di S. Raffaele. Portatosi egli a Milano, viveva, come dice il Verri, col mestiere delle lettere, ed era un rinomato maestro, alla scuola di cui vai giovani nobili andavano per istruirsi. Taluno, assai versato negli aneddoti, mi asserì, continua il sullodato autore, che questo Cola Montano fosse stato dileggiato dal duca Galeazzo Maria. Concordemente la storia c’insegna che Montano ne’ suoi precetti sempre instillava nel cuore de’ suoi nobili alunni l’odio contro la tirannia, la gloria delle azioni ardite, la immortalità che ottiene chi rompe i ferri alla patria, e la renda libera e felice. Egli animava gli alunni suoi a mostrare una virile fermezza, ad amare la vigorosa virtù, a cercar fama con fatti preclari. Poiché co’ discorsi o cogli esempj della virtù romana ebbe trasfuso il fanatismo nelle vene bollenti degli scolari egli coglieva l’occasione che il duca colla pompa accostumata passasse davanti la scuola; e trascegliendo i più ardenti ed audaci, mostrava loro un Tarquinio nel duca, ed una mandra di schiavi, buffoni effeminati ne’ suoi magnifici cortigiani, veri sostegni della tirannia e pubblici nemici. Confrontavali co’ Cartaginesi, co’ Greci, co’ Metelli, co’ Scipioni romani. Giunti al grado del fervore al quale cercò ridurli, collocò alcuni di essi al mestiere delle armi sotto Bartolomeo Coglione acciocché imparassero a conoscere i pericoli, ad affrontarli, a ravvisare le proprie loro forze. Condotta la trama al suo termine, finalmente furono trascelti quelli che egli giudicò più adattati, e furono appunto Giovanni Andrea Lampugnano, Girolamo Olgiato e Carlo Visconti. Si pensò con un colpo ardito di liberare la patria, mostrando quanto sarebbe facile l’impresa, purché i cittadini si ricordassero soltanto d’essere uomini. Avanti la statua di S. Ambrogio venne congiurata la morte di Galeazzo Maria, usurpatore del trono, oppressore della libertà, che pure godevasi ventisei anni prima, nemico della patria, impoverita con enormi gabelle, ed insultata col lusso di un principe malvagio. Così formossi segretamente la trama, che scoppiò prima che alcuno ne sospettasse. Giovanni Andrea Lampugnano appena fatto il colpo cadde poco lontano dal duca, ucciso da un domestico ducale, Girolamo Olgiato che avea 25 anni, si sottrasse col favore della confusione, e ricoveratosi presso di un buon prete, aspettava di ascoltare per le vie della città gli applausi della libertà ottenuta, ed impaziente attendeva il momento di mostrarsi come liberatore della patria. Ma udendo in vece gli urli e lo schiamazzo della plebe, che ignominiosamente trascinava per le strade il cadavere del Lampugnano, s’avvide troppo tardi dell’error suo, perdé ogni lusinga e venne imprigionato. Dal processo che se gli fece, si seppe la trama. Non mi è noto qual fosse il fine di Cola Montano. L’Olgiato morì dalle mani del carnefice con sommo coraggio pronunziando questo motto alla maniera di Bruto: Stabit retus memoria facti. (Eterna vivrà la fama di sì gloriosa impresa) - Verri. Storia di Milano, cap. XVIII.
- ↑ Ecco qualche altro saggio delle crudeltà di Galeazzo. - Per gelosia fece tagliar le mani a Pietro da Castello, calunniandolo come falsificatore di lettere; fece inchiodare vivo, entro di una cassa, Pietro Drego, e così venne seppellito. Scherzava con un giovine veronese, suo favorito, e lo scherzo giunse a tale da farlo mutilare. Un contadino che avea ucciso un lepre contro il divieto della caccia, venne costretto ad inghiottirlo crudo colla pelle, onde miseramente morì. Travaglino, barbiere del duca, soffrì quattro tratti di corda per di lui comando. e dopo continuò a farsi radere dal medesimo. Egli avea un orrendo piacere mirando nei sepolcri i cadaveri.