Senz'amore/Psicologia comparata
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PSICOLOGIA COMPARATA.
Il pollaiolo fece entrare il cuoco di casa Trestelle nella retrobottega, a vedere il suo nuovo apparecchio per l’ingrassamento meccanico dei volatili. Lo aveva fatto venire da Parigi; una riduzione di quello inventato da Odile Martin; costava cinquecento lire. Era una grande stìa, o piuttosto un piccolo carcere cellulare di forma cilindrica. I polli avevano una cella per ciascuno; erano incatenati pei piedi al fondo; non si potevano muovere, nè vedevano nulla a destra nè a manca. Udivano gli altri prigionieri gorgogliare qualche cocò-cocò, o mandare una specie di rantolo; e sporgevano il capo curiosamente dal vano dinanzi della stìa; ma non vedevano che la penombra vuota della stanzaccia, che era quasi una cantina, perchè si dovevano scendere parecchi scalini per arrivarci, ed era debolmente rischiarata da due fori aperti nell’alto della parete.
Dagli occhi di quei polli sì vedeva che erano tutti impensieriti. Rispondevano cocò-cocò sullo stesso tono sommesso, poi tornavano a sporgere il capo colle pupille lucenti come fiammelle, ed il loro sguardo, ed il movere inquieto del collo parevano dire:
— Dove sono quegli altri?
Quella stìa di nuovo genere non aveva nè beccatoio nè beverino.
— E il becchime? domandò il cuoco di casa Trestelle.
— Il becchime non ingrassa, sentenziò il pollaiolo coll’aria di chi la sa lunga. State a vedere qual è il mangime che fa la fortuna dei polli e la nostra.
Prese colla destra un tubo di gomma infisso in una caldaia dove c’era una miscela di latte e farina d’orzo; afferrò colla sinistra il becco d’una gallina, e v’introdusse il bocchino del tubo; poi, premendo col piede un pedale, mise in moto una pompa, che mandò la razione voluta dalla caldaia nello stomaco della bestia.
— Ecco, disse togliendo il tubo e passando ad operare il pollo della cella seguente. Per otto ore questa gallina è provveduta.
— Non mangerà altro? domandò il cuoco stupefatto.
— Ha avuta la sua misura rispose il pollaiolo. Guardate; «Centilitri venticinque»; ed accennò una lastra di latta con quella cifra incisa, infissa sulla parete esterna della cella. Ogni pollo aveva la sua razione indicata a quel modo, come la dieta dei malati sui letti dell’ospedale.
Ce n’erano di grassissimi, immersi in una specie di sonnolenza ebete, come ghiottoni assorti nella beatitudine del chilo. Soltanto quando la macchina girava sul perno, ciondolavano stupidamente sulle gambe, sproporzionate al peso del corpo, socchiudevano gli occhi un momento, poi ricadevano nel loro sopore.
C’erano dei capponi dagli occhi ardenti come brace, che si scotevano tutti in uno sforzo supremo per tirar su una gamba sotto l’ala. Ma la catena era ben salda, ed i due piedi dovevano rimanere immobili sul fondo della prigione; ed i capponi gorgogliavano una specie d’imprecazione e gli occhi fosforescenti mandavano lampi.
La gallina invece, la pollastrella ch’era stata cibata per la prima, aveva la testina fine, i movimenti del collo ondulati, le penne lucenti, ed il suo corpo, floridamente arrotondato dall’assoluto riposo e dalla nutrizione conveniente, non era ancora deformato dalla pinguedine.
Appena il pollaiolo ebbe finito di nutrirla, diede una scossettina al capo, allungò il collo per ingollare del tutto il latte a la farina d’orzo che le avevano messo in corpo, poi guardò in giù avidamente come cercando qualche cosa da beccare.
Ma era ad un piano alto; c’erano molte celle sotto la sua, per cui il pavimento rimaneva lontano, ed in quella semi-oscurità non le riusciva di vederlo. Dubitando forse de’ suoi occhi, sperando nel buio, spinse due o tre volte il becco in giù, più in giù, quanto glielo permise la legatura dei piedi; ma non toccò nulla, e si ritrasse.
Il cuoco si fece più accosto, e guardò nella cella. La gallina s’era accovacciata, e rimaneva immobile cogli occhi chiusi come se dormisse. Ma, traverso le palpebre sottili, l’occhio si moveva, ed un pigolìo sommesso e lieto accompagnava il suo respiro.
Tratto tratto apriva gli occhi, poi li richiudeva in fretta, come premurosa di ripigliare il filo d’un sogno caro. Forse, nell’ardore del desiderio giovanile, si figurava di razzolare nello spazio sterminato d’un’aia; sognava, in quel beato dormiveglia, la vita rumorosa d’un cortile rustico; una ressa di tacchini, di anatre, di oche, di polli che s’incrociavano, si urtavano, vociavano alto, e le liti dei galli, che facevano accorrere ed ammutolivano di sgomento, la folla del pollame.
Due o tre volte le sfuggì una voce gongolante, un ohhh! gutturale e prolungato, e mostrò un momento gli occhi ridenti di gioia. Chi sa che non rivedesse colla fantasia da gallina, gli sciami di piccioni bianchi, turchini, violetti, i bei polli volanti nell’aria, che scendono nei cortili a narrare le vastità azzurre dell’orizzonte, devastano in fretta e in furia il becchime e ripartono a volo. E le aiuole verdi, e la delizia di aprirsi un varco nella frescura dell’insalata ancora bianca, del prezzemolo tenerello, delle fragole bagnate di rugiada, nei labirinti d'una foresta, e l'emozione viva d'affrontare la granata dell'ortolana, o di scansarla dietro i cavoli grandi!.. Solo chi è nato per vivere all'aperto, nell'infinita libertà dei campi, può immaginare che visioni di verde, d'azzurro, di sole, potevano balenare a quegli occhi chiusi! Ed il galletto innamorato che segue la gallina colla testa alta, e la cresta rosseggiante, che le si pianta dinanzi con una gambina alzata, assorto in ammirazione fissandola cogli occhi sanguigni...
Ad un tratto s'udì sorgere dal cortile d'un pollaiolo accanto la voce giuliva d'un galletto libero:
— Chicchirichi!!!
La gallina si rizzò d'un balzo; le penne le si gonfiarono intorno, la cresta si fece scarlatta, e, tutta fremente di gioia, sporse il capino dalla cella, e voltando il collo a scatti di qua e di là, guardò nel vuoto cogli occhi dilatati, come se vedesse gli orti, l'aia, il gallo; e, dal fondo del cuore, mise fuori anch'essa una voce acuta, giubilante come una risata:
— Chicchirichìiiii!!!
— «Gallina che canta da gallo, temporale o disgrazia» disse il cuoco, il quale, malgrado i suoi vent'anni di vita cittadina, non aveva dimenticati i proverbi del basso Novarese dov'era nato; e se ne andò canticchiando fra i denti una vecchia canzone burlesca:
«Senza galletto, la mia gallina O poverina — come farà...»
Ma le dava un'intonazione malinconica, allentava le cadenze, pareva che cantasse il Miserere; e finì la strofetta con un sospiro, poi camminò a lungo in silenzio, borbottando solo di tratto in tratto:
Poveretta!
Giunto a casa, depose le provviste in cucina, poi salì finchè c'erano scale, alle soffitte dove i padroni gli avevano assegnata una camera.
C'erano parecchi usci sul pianerottolo, ed uno era socchiuso. Prima di aprire il suo, il cuoco spinse quello, ed entrò. Era una camera lunga e stretta, coll'ingresso ad un capo ed una finestrella all'altro.
Pareva un omnibus. Contro la parete destra, accanto all'uscio, c'era un lettuccio poco più largo appunto del sedile di un omnibus; nella parete di contro c'era il camino, ed ai due lati del camino, un cassettone ed un armadio nel muro per le stoviglie, la pentola, il secchio, la mestola e tutti gli arnesi da cucina. Ai piedi del letto si rizzava l'asta d'un attaccapanni mobile, le cui gruccie scomparivano sotto un carico di vestiti, coperti tutt'in giro da una vecchia gonnella scolorita, stretta in alto da un cordone passato in una guaina, e ricadente giù molle come un ombrello senza stecche, che dava a quel mobile economico un'apparenza misteriosa. Sembrava un trabicolo, sembrava una incubatrice per i bachi, e, pel momento, la sua rotondità ricordò al cuoco la macchina per ingrassare i polli, e gli strappò ancora un sospiro.
— Sempre malinconico, signor Battista? — gli disse la sua vicina di soffitta, con un sorriso amichevole, alzando gli occhi dal tombolo sul quale stava rammendando una trina di Honiton.
Era una giovane sui vent'anni, ma così mingherlina, pallida e bassina di statura, che ne dimostrava sedici, a dir molto. Non aveva altri parenti che la madre; ed anche con quella non viveva insieme, sebbene abitassero nello stesso casamento.
La madre serviva una zitellona sola ed inferma giù nei mezzanini; un servizio pesante, perchè doveva fare da cuoca, da cameriera, ed anche da infermiera, di giorno e di notte, dormendo accanto alla padrona, e spesso vegliandola. Questa la pagava pochino, e la manteneva a stecchetto cogli avanzi del suo mangiare da malata, ed in compenso esigeva di molto, e guai se la serva l'abbandonava un dieci minuti per salire dalla figliola. Ma aveva l'astuzia di farle balenare la speranza d'un buon legato, e la povera donna si sacrificava e sopportava tutto, pensando le due belle camerine che avrebbero poi mobigliate lei e la sua Teresa con quel denaro, e che vita tranquilla avrebbero passata insieme, lavorando senza ammazzarcisi.
Per questo la Teresa rimaneva sola nella soffitta, ma la madre le teneva gli occhi sopra, e badava chi saliva e scendeva. Del resto, erano precauzioni superflue; la Teresa era una buona figliola, tranquilla, e la sua giornata era così occupata che non aveva tempo di badare ad altro che al suo lavoro. Dall'alba alla sera era sempre là sotto la finestrella alta, col tombolo in grembo, puntando e ripuntando nei fori delle trine degli eserciti di spilli, colla maestria d'un generale che dirige una manovra.
Era una buona operaia. Le signore se l'erano raccomandata l'una all'altra e le affidavano trine di molto prezzo. Quel lavoro le fruttava a sufficienza per i suoi modesti bisogni; ma era faticoso, difficile; e doveva eseguirlo rapidamente per non ritenere a lungo quegli oggetti di valore. Per accontentare tutte le sue pratiche, doveva lavorare di giorno e di sera, assiduamente, anche la festa, sempre con quel tombolo sulle ginocchia, sempre sotto quella finestrella, per raccogliere quanta più luce poteva sulla trina in riparazione. L'inverno ce n'era poca della luce là dentro; ma quando veniva l'aprile, giù dal finestrino cadeva una striscia chiara, rosseggiante nelle ore meridiane ch'era una delizia. Sovente la Teresa alzava il capo dal tombolo e rimaneva cogli occhi fissi su quel quadrato turchino di cielo che vedeva traverso la finestra, e ne pensava la vastità, e l'infinito paese che ricopriva. Era come un paesaggio che Michetti avesse dipinto per lei, ed essa ci vedeva tutto il mondo, come un infermo, che ammira le bellezze della natura in una marina appesa alla parete di contro al suo letto, e s'imbarca su quelle navi minuscole, e traversa gli oceani, e sfida pericoli immaginarii.
— Sempre malinconico, signor Battista? — Aveva detto la fanciulla che, nella serenità confidente de' suoi vent'anni, sorrideva spesso delle tristezze incomprensibili del vecchio. Ed allora Battista le aveva detto della macchina per l'ingrassamento meccanico dei volatili.
— Una barbarie! Tenere quelle bestie al buio senza mangiare nè bere; perchè non si poteva dir mangiare il ricevere tre volte al giorno un nutrimento nello stomaco senza averne sentito il gusto.
La Teresa lo ascoltava stupefatta. «Sì; era crudele. Povere bestie!
Farle vivacchiare a quel modo prive d'aria e di luce, toglier loro la libertà di starnazzare, e d'appollaiarsi, condannarle a non gustar mai le delizie del greppo, contrariare tutti gli istinti della loro natura! e perchè? Per il vantaggio di pochi signori che al loro greppo troveranno un bocconcino più saporito.... Povere bestie!
Povere bestie!»
E la fanciulla, che passava la vita rinchiusa in quella stanzetta, colle mani e gli occhi forzatamente intenti sul tombolo, s'inteneriva sulla sorte crudele dei polli prigionieri.
— È così bella la libertà! diceva. E correre per la campagna verde...
— Come la conosce la campagna, lei che non esce mai da questa stanza?
domandò il cuoco.
— Ci sono stata una volta, quando andavo a scuola ad imparare il mestiere. La maestra, pel suo onomastico, ci condusse tutte a pranzare a Sesto. Allora ne ho visti dei polli felici. C'era una covata di pulcini che beccava pigolando beatamente sopra un letamaio; ed avevano l'aria soddisfatta e ghiottona come tanti bimbi intorno alla vetrina d'un confettiere.
Continuò a lavorare in silenzio, sorridendo alle sue memorie, poi riprese:
— È tutto bello per loro quando si trovano nel loro ambiente rustico.
C'era un'enorme scrofa, disfatta dalla eccessiva pinguedine, che sonnecchiava grugnendo ai piedi del letamaio al quale si addossava, colla pancia stesa e tremolante come una vescica piena d'acqua o una pelle di olio. Ed i pulcini, beccando e pigolando, scesero giù l'uno dopo l'altro su quella vasta superficie nerastra; e passeggiavano come sopra una piazza, cacciando il becco fra i crini, e comunicandosi a vicenda le loro impressioni con dei pi pi pi pieni di meraviglia. Ce ne fu uno che imprese un viaggio d'esplorazione nei labirinti d'un orecchio; ma la scrofa, sentendosi solleticata, diede uno scossone che lo fece cadere a terra con tutti i suoi compagni. E che pigolìo allora, che chiocciare della mamma spaurita, che batter d'ali, che vocio per tutto il cortile!...
Smosse parecchi spilli, intrecciò i capi di filo facendo risuonare i fusi innumerevoli che si urtavano, poi, sorridendo sempre alle sue immagini serene, tornò a dire:
— Com'è bella la campagna!
— E neppure oggi non esce? domandò il cuoco. Se vedesse che giornata, che sole!
— Che! Non ho tempo neppure di farmi la minestra. Non so quando mi potrò muovere; ho un lavoro straordinario. Le signore hanno bisogno delle trine per le bagnature; s'io vado a spasso chi le prepara? Debbo star qui tutto il giorno e tutta la sera chi sa fin quando; e la mamma pure ha bisogno che lavori per darle un po' di quattrini....
Il cuoco ridiscese alla sua cucina più malinconico di prima, strascicando ancora più lentamente le cadenze della sua canzone:
«Senza galletto, la mia gallina O poverina — come farà....»
E la Teresa continuò ad armeggiare cogli spilli e coi fusi. Tratto tratto alzava il capo e lo spingeva indietro girandolo da destra a sinistra per isgranchirsi il collo indolorito dal lungo star curvo.
Più volte si coperse gli occhi con una mano, e li tenne stretti per riposarli. Poi ripigliava con maggior lena il lavoro; ed intanto ripensava la miseria di quei polli: «Quanto dovevano essere infelici!
Certo non cantavano più là dentro; dovevano morire di malinconia.»
Sull'imbrunire, mentre la Teresa si curvava cogli occhi fin sul tombolo per profittare dell'ultimo barlume di giorno, s'udì una voce d'uomo, giovane ed alta che cantava:
«Morettina dove vai?
Vado a Monza sul tranvai.»
La Teresa stette un momento a sentire, poi posò il tombolo, salì in piedi sulla sedia, e s'affacciò al finestrino che metteva sul tetto.
Guardò quella distesa sterminata di tetti e comignoli e gronde e grondaie e cupole di chiese e campanili, e più lontano, come una fascia verde, le cime degli ippocastani dei bastioni; poi l'azzurro, l'azzurro chiaro, infinito, come se dopo i bastioni ci fosse il mare.
E le parve di vedere la campagna de' suoi ricordi; le parve d'esser laggiù, non più bambina con la maestra trinaia, in un'osteria di Sesto, ma giovinetta innamorata della libertà, dell'aria pura, della natura bella, e di camminare, di camminare sotto i viali verdi, sull'erba umida e fresca.
«Morettina dove vai?
Vado a Monza sul tranvai....»
ripeteva un po' in falsetto quella voce di tenore.
E la Teresa pensava d'andare a Monza sul tranvai, col suo vestito da festa; e quel giovane che cantava, quello o un altro, era là sulla panchetta del tranvai che l'aspettava. Andavano insieme; lui la guardava negli occhi e lei si sentiva arrosire. Non parlavano, ma erano felici, felici in silenzio, finchè scendevano alla stazione, si pigliavano a braccetto, e via pel viale fin giù nel parco, dove sedevano accanto, sull'erba verde, sotto il cielo turchino...
Le balzava il cuore di commozione, le brillavano gli occhi guardando nell'ombra che era scesa tutt'intorno sulla città, e lei pure colla voce tremante si mise a cantare:
«Morettina dove vai?
Vado a Monza sul tranvai Vado a Monza sul tranvai...»
Il cuoco, che stava rigovernando giù in fondo al cortile presso la finestra della cucina, alzò il capo verso il tetto che non vedeva, ed esclamò malinconicamente:
— Com'è bella la gioventù!