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Dagli occhi di quei polli sì vedeva che erano tutti impensieriti. Rispondevano cocò-cocò sullo stesso tono sommesso, poi tornavano a sporgere il capo colle pupille lucenti come fiammelle, ed il loro sguardo, ed il movere inquieto del collo parevano dire:
— Dove sono quegli altri?
Quella stìa di nuovo genere non aveva nè beccatoio nè beverino.
— E il becchime? domandò il cuoco di casa Trestelle.
— Il becchime non ingrassa, sentenziò il pollaiolo coll’aria di chi la sa lunga. State a vedere qual è il mangime che fa la fortuna dei polli e la nostra.
Prese colla destra un tubo di gomma infisso in una caldaia dove c’era una miscela di latte e farina d’orzo; afferrò colla sinistra il becco d’una gallina, e v’introdusse il bocchino del tubo; poi, premendo col piede un pedale, mise in moto una pompa, che mandò la razione voluta dalla caldaia nello stomaco della bestia.
— Ecco, disse togliendo il tubo e passando ad operare il pollo della cella seguente. Per otto ore questa gallina è provveduta.
— Non mangerà altro? domandò il cuoco stupefatto.
— Ha avuta la sua misura rispose il pollaiolo. Guardate; «Centilitri venticinque»; ed accennò una lastra di latta con quella cifra incisa, infissa sulla parete esterna della cella.