Scritti vari (Ardigò)/Polemiche/La psicologia positiva e i problemi della filosofia/Dialogo VI

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La psicologia come scienza positiva e i problemi della filosofia.


Dialogo VI. - Il filosofo e un ignorante1


Ignorante — È tanto che sento parlare di morale, ed ignorante come sono, mi è venuto voglia di imparare anch’io qualche cosa, essendo necessario che anche gli ignoranti siano morali, cioè, secondo me, onesti, giusti, galantuomini. [p. 126 modifica]Filosofo — Certamente! E per ciò ben volentieri mi presto ad istruirvi, perchè finora, nella passata filosofia il problema morale è stato insolubile (pag. 318), cioè nessuno ne ha capito nulla.

Ignorante — Che fortuna che siate comparso voi in questo felicissimo secolo! Ah siano grazie a barba Giove, dirò anch’io come quell’antico, che mi ha fatto nascere sotto questo bel cielo italiano, e a tempo opportuno per essere da un così grande uomo trasformato da ignorante in un filosofo positivista. Avanti.

Filosofo — Attento. «Per gli uni l’atto morale è il prodotto di tre fattori distinti, diversi e nel loro essere separati; la volontà libera, l’idealità regolatrice, e l’affetto movente».

Ignorante — Adagio, per poter masticar bene prima questo boccone. Volontà libera! Se non c’è libertà, non c’è nè bene, nè male, non si merita nè premio nè pena.

Filosofo — Così si diceva una volta.

Ignorante — E adesso no? Andiamo avanti: l'idealità regolatrice! Se non m’inganno, avete voluto dire la legge. E anche questa è necessaria: perchè una azione in tanto è buona o cattiva, in quanto è conforme o difforme dalla regola, ossia dalla legge.

Filosofo — Così si diceva una volta.

Ignorante — E adesso no? Basta; andiamo avanti: l’affetto movente! Certo! quel che si fa, si fa sempre per qualche motivo, e questo è o buono o cattivo, e così è buona o cattiva l’azione. Mi pare che tutto cammini su quattro gambe.

Filosofo — Nemmeno con una! «La filosofia positiva ha distrutto questa trinità fittizia».

Ignorante — Oh bella! Se questo è vero, io sono proprio un ignorante; ma se non è vero, l’ignorante siete voi. Ma siccome ad un filosofo non si può dar dell’ignorante, così bisognerà dire che siete un...

Filosofo — Che cosa vorreste dire? [p. 127 modifica]Ignorante — Niente, niente. Che cosa è dunque secondo Voi questa volontà libera?

Filosofo — Essa è «l’atto esecutivo, ossia la traduzione di una disposizione organica centrale in un movimento periferico».

Ignorante — Periferico! Che parola da filosofo! Ho inteso spiegare dal professore di matematica agli alunni dell’Asilo la parola periferia. Dunque periferico vorrà significare circolare, e movimento periferico sarà come la trottola, giuochetto gradito ai fanciulli. Dunque la volontà libera è una trottola, che gira, o una qualunque ruota, che si avvolge sul suo perno. Scoperta degna della filosofia positiva. E la legge?

Filosofo — L’idealità regolatrice, si deve dire: e questa è «la rappresentazione mentale regolatrice, ossia l’effetto delle cose esterne sui sensi».

Ignorante — Questa è un poco più chiara. Io veggo p. e. il vostro orologio; l’effetto della sua impressione sui miei sensi si è che mi piace, lo bramo, e cerco di averlo: l’idealità regolatrice mi dice: prendilo, e me ne suggerisce anche il modo. E così io opero in perfetta conformità coll’idealità regolatrice. Mi pare che con questa morale i più morali abbiano ad essere i ladri, e che in questo processo c’entri già anche l’affetto movente.

Filosofo — Certamente, perchè questo non è che «la relazione fra la volontà libera e l’idealità regolatrice, per cui un movimento si converte nell’altro, come nel telegrafo elettrico l’atto di scrivere in una stazione, pel filo, diventa alla stazione opposta l’atto di essere scritto».

Ignorante — Quindi l’atto di vedere l’orologio nel ladro si converte nell’atto che fa la mano di prenderlo; e così è spiegata la moralità delle azioni. Ma a questi conti bisognerà chiamare morale anche l’atto del gatto, che ruba l’arrosto al cuoco.

Filosofo — Sentite, e non ve ne scandalizzate, come faranno certi altri ignoranti che si credono sapienti. «La manifestazione morale non è un fenomeno che apparisca [p. 128 modifica]solo nell’uomo, e che sia l’effetto di facoltà esclusivamente umana».

Ignorante — Ma io ho sempre sentito dire che l’uomo solo è capace di far bene e male, di meritar premio o castigo.

Filosofo — Ecco l’errore: «Ma si sa esservi una gradazione insensibilmente crescente, dall’infimo degli animali all’uomo; e nell’uomo stesso cresce col crescere dell’età, e di nuovo diminuisce di conserva colle forze fisiche».

Ignorante — In quanto all’uomo ho capito; esso non è responsabile delle sue azioni, che quando ha la ragione perfetta. Bambino o pazzo non lo è. Quel che mi riesce nuovo è che anche gli animali siano capaci di moralità, in proporzione della loro malizia; dal che risulta che il gatto che ruba la carne, essendo il più malizioso, farà più grave peccato e dovrà confessarsene!

Filosofo — Oh! che mi tirate fuori la confessione!

Ignorante — Scusate! ma si parla di uomini in piccolo, in fotografia; perchè credo che nella vostra scala il cane e il gatto tengono il primo gradino al di sotto dell’uomo, e quindi la loro moralità sia poco inferiore a quella dell’uomo. Però se non sono obbligati a confessarsi una volta all’anno, si potranno giustamente punire quando fanno male.

Filosofo — E così pure si fa. «Non si può non ammettere una certa semimoralità nelle azioni degli animali più vicini all’uomo».

Ignorante — Senza dubbio si formeranno de’ canoni penitenziali un po’ più miti per gli animali, e non potendosi imporre loro dei rosarii da recitare, si sferzeranno o si faranno digiunare. Ecco un nuovo trattato di morale da studiare pei confessori.

Filosofo — E voi sempre interrompete con baje. «Il contegno di ogni uomo coi detti animali lo esige assolutamente... Se la libertà appartenesse esclusivamente [p. 129 modifica]all’uomo2, come si spiega allora il fatto dell’apprezzamento morale applicato agli altri animali? ».

Ignorante — Siete voi che ne fate un tale apprezzamento. Io non ho mai inteso che il gatto rubando l’arrosto faccia peccato.

Filosofo — «Chi negherà che un uomo non pregiudicato, spassionatamente trattando cogli altri animali, non faccia uso ne suoi giudizii sulle azioni loro dì un criterio analogo a quello, onde fa stima delle umane? »

Ignorante — Ah! ah! ah! Ho sentito dal mio curato che i confessori studiano il trattato de actibus humanis; ma in seguito dovranno aggiungere anche quello de actibus gattorum, cavallorum, ed anche asinorum. Ah! ah! ah!

Filosofo — Sono gli sciocchi che ridono.

Ignorante — Grazie.

Filosofo — «Ma l’ira e l’amore nell’uomo non si sviluppano soltanto in occasione dei così detti atti liberi dell’uomo, ma pur anco per quelli dei bruti, e per fino per le cose inanimate. Quindi uno strumento, che non serve bene in un’opera, per isdegno lo si spezza. Il bruto fa altrettanto: esso si vendica contro un altro bruto, contro la pietra che gli è scagliata contro».

Ignorante — E così il giudice che condanna l’assassino, il cuoco che batte il gatto ladro, l’iracondo che spezza l’istrumento che non serve bene, il cane che morde il sasso, fanno tutti un giudizio morale fondato sulla moralità dell’assassino, del gatto, del cane, e perfino della penna che non getta bene. Oh che stupenda filosofia! E dire che prima di voi non se ne sapeva nulla! Ho però bisogno ancora di una spiegazione. L’assassino uccide il viandante, e il gatto il topo. Ha mo’ il gatto quei rimorsi di coscienza, che prova senza dubbio, almeno qualche volta, l’assassino, ripensando al delitto commesso? [p. 130 modifica]Filosofo — No, perchè i suoi organi sono meno perfetti di quelli dell’uomo. Però dovete notare che la coscienza s’inganna, quando giudica che un’azione sia libera, cioè che provenga da una deliberazione spontanea, non legata e dipendente da movimenti fisiologici precedenti, poichè non se ne avvede, non s’accorge del nesso causale che esiste tra pensiero e pensiero. «Sorge nella mente un pensiero buono a dominare gli altri? È un genio buono, che lo ha ispirato. Sorge invece un pensiero malvagio? L’inspirazione viene da un genio cattivo (pag. 337)».

Ignorante — E non è mica vero? Oh! il diavolo vi renderà molte grazie, signor filosofo, poichè così lo sottraete a tante calunnie, di cui ogni giorno, poverino, è ingiustamente aggravato, quasichè non facesse altro che tentare gli uomini al male. Oh! se qualcuno mi dirà in seguito, come Eva: il diavolo mi ha sedotto; calunniatore, gli dirò: tu sei quegli che ha peccato. Il diavolo è innocente come un bambino di latte. Ma a quanto mi dite, pare che sia innocente anche la volontà.

Filosofo — Ecco come tutto si spiega. «Non conoscendosi la semplice legge della associazione delle idee, e il numero infinito delle combinazioni loro, si attribuisce all’intervento della volontà, che si compiaccia di fare quella distribuzione, ciò che dipende da quella legge e che produce l’azione creduta libera»

Ignorante — Tutto effetto di quella benedetta ignoranza! Ma come va che non ostante questa vostra bella dottrina, io sento in me di volere e non volere, ma proprio io, e dopo pure tutte quelle combinazioni che voi avete scoperto?

Filosofo — Procurerò di farmi meglio capire, «Ogni rappresentazione psichica ha una propria impulsività volontaria... Aggiungendo il motivo, che non è poi altro se non che una seconda rappresentazione, si hanno due impulsività, invece di una; le quali sommate insieme, [p. 131 modifica]valgono appunto l’atto della determinazione, che ne emerge».

Ignorante — Ho inteso: veggo su d’una tavola una borsa di danaro, che stuzzica l’appetito: ecco la prima impulsività; mi viene in mente che mi può fare di molti servigi, e la prendo: ecco la seconda impulsività. Quindi il furto è una cosa morale, moralissima: è una forza che si converte, come dite voi, e niente più, come a dire un giuoco di bussolotti. Ma è poi volontario?

Filosofo — Certamente: «Ogni rappresentazione psichica ha una impulsività volontaria: cioè non c’è bisogno di ricorrere ad altro per dar ragione dell’atto volontario: la ragione dell’atto è la stessa impulsività dell’idea».

Ignorante — Io darei l’appetito; e quindi quanto maggiore sarà l’appetito di una cosa, tanto più volontario e morale sarà l’atto.

Filosofo — Non dite male, e quindi «la più forte impulsività è quella della sensazione attualmente impressa... E ciò spiega come l’appetito sensitivo, come dicevano gli antichi, eserciti sulla volontà un impero immensamente maggiore, che non l’appetito intellettivo» ossia ragionevole.

Ignorante — La qual cosa quei rigidi antichi moralisti deploravano come un disordine, ma voi colle vostre nuove teorie la trovate perfettamente conforme all’umana natura, ed anche a quella dei bruti, e quindi morale, moralissima.

Ed io recapitolando alla meglio, come può fare un ignorante, le vostre dottrine, considerando che avete formata una morale, che non ha una norma, una legge cui si debba uniformare; che avete tolta all’uomo la volontà, riducendo tutte le sue operazioni ad un giuoco più o meno complicato di sensazioni; che attribuite tutte le determinazioni della volontà alla spinta che danno gli oggetti e le sensazioni all’uomo per produrne i suoi atti, che così sono involontari e necessarii: considerando come sia pur troppo vero che l’appetito sensitivo ha tanta forza sull’uomo, senza che perciò esso ne sia, secondo voi, [p. 132 modifica]responsabile, ho pensato che la vostra morale debba piacere molto ai ladri, ai birbi, ai mariuoli, ai lenoni e a tutta la rispettabile loro compagnia, assolvendoli essa tutti da colpa: perlochè dovrebbesi aprire tutte le prigioni, abolire i codici penali, risparmiar le spese dei tribunali, licenziare la famiglia del criminale e così voltar faccia al mondo, il quale finora ha vissuto nelle tenebre e nella barbarie. Riformato esso così, diverrebbe, in grazia della filosofia psicologico-positivista, un bel gregge d’Epicuro, o piuttosto una selva di bestie feroci, e qualche cosa ancora di peggio, se pur vi ha.

E così noi mettiamo fine, o lettore, a questi nostri dialoghi, ritenendo di averne detto abbastanza per far conoscere quanto sia poggiata sul falso, e come sia indegna di qualunque uomo che non abbia rinunciato ad ogni onesto sentimento, alla coscienza, al pudore, una filosofia, che rovescia non solo la metafisica, ma l’etica, ed ogni legge morde, ed apre così la via ai più turpi disordini, a tutte le iniquità. Non si adiri l’autore da noi mai nominato, benchè più volte ci abbia stuzzicati ne’ pubblici fogli, non si sdegni, se portiamo della sua filosofia questo in apparenza severo giudizio. Saremmo pronti a sostenerlo, quando ei si accingesse a rispondere, non con celie, piuttosto che con ragioni, come ha fatto altre volte, ma con sodi argomenti. Guardi piuttosto alle tristi conseguenze che ne verrebbero alle famiglie, alla società, a quella gioventù, che gli è affidata da istruire, se le sue dottrine fossero accolte e sviluppate praticamente nelle loro facili conseguenze. Che se questi dialoghi a nulla serviranno per lui, come fortemente temiamo, servano almeno ai genitori ad illuminarli affinchè preservino i loro figliuoli da tali funeste dottrine, lasciando noi loro la cura di trovarne il modo per non suscitare col suggerirlo spiacevoli animosità.

(Dal n. 31. 1 dicembre 1872, del giornale Il Vessillo Cattolico).

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Ancora una per monsignor Rota.


L’Ignorante del Vessillo Cattolico taceva già, in seguito alla mia ultima risposta, da due mesi, ed io lo credeva morto. Quando l’altro ieri vien fuori a farsi sentire di nuovo. Ma solo, pare, per fare testamento. Poiché dice nella conclusione: E così mettiamo fine, o lettore, a questi nostri dialoghi.

Nella stessa conclusione sono ammirabili le parole seguenti: Saremmo pronti a sostenerlo quando ei s’accingesse a rispondere, non con celie, piuttosto che con ragioni, come ha fatto altre volte, ma con sodi argomenti. Leggendole, mi è tornata alla mente una scena di una commedia molto nota al nostro popolo, nella quale un personaggio ridicolo, dopo avere ricevuto al bujo tre buone bastonate esclamò: fuggiamo inosservati.

Monsignor Rota (L’Ignorante del Vessillo Cattolico), col dire che, se cessa, è però pronto a rispondermi, e ciò dopo che in tutta la polemica precorsa non è stato buono di ribattere mai neanche il più piccolo dei miei argomenti e, in faccia ad essi, ha usato la mariuoleria di fare il sordo e di cambiare discorso, fa proprio la figura di Gioppino, che, dopo averne prese tre sulle spalle, dice: fuggiamo inosservati.

Eh! lo sa bene Monsignore, che il suo forte nel combattere la scienza e quelli che ne fanno professione non è nei ragionamenti, ma bensì in altri mezzi tutt’altro che scientifici. E lo confessa egli stesso colle seguenti ultime notevolissime parole del suo articolo: Lasciando noi loro la cura di trovarne il modo per non suscitare col suggerirlo spiacevoli animosità. Pensi però monsignor Rota che un positivista può non solo aver ragione in faccia alla verità, ma anche avere il coraggio di dare la sua vita per difenderla, contro i suoi nemici. [p. 134 modifica]Il meschino Ignorante suddetto argomentando nel dialogo-testamento in discorso contro la mia etica positiva e contro il mio principio, che è l’idealità schietta e disinteressata che conferisce il vero suo carattere distintivo all’azione umana e morale, come tale, che sempre, se anche il più delle volte debolissimamente (anche se come semplice protesta contro la deliberazione antiideale) concorre alla produzione dell’atto (vedi Ps. pos. pag. 329, 330) per combatterlo, mette fra le idealità morali anche il rubare, e mi fa dire che il rubare io lo legittimo e lo lodo, e che per esser logico dovrei essere un ladro anch’io. Oh! ingegno fino di Monsignore! Così per argomentare contro uno scrittore d’arte e contro il suo principio, che è inspirandosi alle idealità estetiche che si arriva a produrre il bello, egli, seguendo la medesima logica, metterà fra le idealità estetiche tutte quante le cose brutte, per cavarne la conclusione che quello scrittore lavora a danno dell’arte.

Ma, se non la scienza, sarà però almeno la morale il forte di monsignore. E sono invero molto commoventi le riflessioni della conclusione già citata, relativa alla morale mia. Eccole: La filosofia positiva rovescia... l’etica ed ogni legge morale, ed apre così la via ai più turpi disordini, a tutte le iniquità... Guardi (l’autore della Psicologia Positiva) alle tristi conseguenze che ne verrebbero alle famiglie, alla società, a quella gioventù, che gli è affidata da istruire, se le sue dottrine fossero accolte e sviluppate praticamente nelle loro fatali conseguenze. Che se questi dialoghi a nulla serviranno per lui, come fortemente temiamo, servano almeno ai genitori ad illuminarli affinchè preservino i loro figliuoli da tali funeste dottrine, lasciando noi loro la cura di trovarne il modo per non suscitare col suggerirlo spiacevoli animosità!

Ma perchè sia decisa tra me e lui la questione della moralità, è contento Monsignore che si faccia appello all’autorità del Vangelo? Ivi si legge che la regola per giudicare della bontà della dottrina morale di uno è di [p. 135 modifica]guardare quello che fa. — Li conoscerete dai loro frutti — dice il testo evangelico, come monsignore avrà letto qualche volta.

Or bene prendiamo per termine di confronto il contegno mio e di lui nella presente polemica, della quale ognuno può avere davanti a sè gli estremi precisi e compiuti. Quale fu il mio, quale quello di monsignor Rota nella detta polemica?

Egli (come più volte gli ho dimostrato, e non ha potuto negarlo) ha mentito; ed io no.

Egli ha calunniato; ed io no.

Egli, facendo il sordo alle mie argomentazioni e cambiando discorso per cavarsela, fu sleale nella discussione: ed io no, mentre ho sempre risposto ad hominem.

Egli, sentendosi perdente nelle argomentazioni, consiglia, a danno di chi sente che ha ragione, altri mezzi per impedire che sia detto il vero; ed io no.

E fermiamoci qui, chè basta al mio discorso.

Chi fu dunque più morale di noi due? Lui ovvero io?

E di chi è giusto che si desideri, che si richieda, che si aspetti la conversione? Di lui o di me?

E di chi gli insegnamenti teorico-pratici sono più da temere per la società, per la famiglia, per l’individuo? I sillabici rotiani o i positivi miei?

Per la decisione, io positivista mi rimetto puramente e semplicemente al criterio evangelico: — Li conoscerete dai loro frutti. — Sto a vedere se il vescovo ha nel vangelo la stessa fiducia che vi ho io.

Prof. Roberto Ardigò

(La Provincia del 3 dicembre 1872).

Note

  1. Si veggano i nn. 14, 16, 18, 21, 23 del nostro giornale.
  2. Notate, lettori, che il filosofo nostro regalando la libertà anche ai bruti, infine la toglie all’uomo.