Scritti giovanili inediti/La città ignota

La città ignota. Saggio (da una leggenda popolare russa)

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La città ignota. Saggio (da una leggenda popolare russa)
La morte di un veliero

La seconda novella fu scritta a Berlino fra il 7 e il 9 novembre 1922. Anch'essa reca la firma dell'autore: Leone Ginzburg. Accanto al titolo, «La città ignota», si legge un verso famoso tratto dal canto XXVI dell'Inferno di Dante: «Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto».


Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto.
Dante


Lontano lontano dal mondo, in una pianura verde come il mare, in una bella e calda giornata d'agosto e infinita e interminabile come il cielo sereno, interrotta, e quasi tagliata, solamente da dei pioppi alti e dritti, piantati da tempo immemorabile, c'è un lago calmo e tranquillo.

Tanto calmo e tanto tranquillo, che a volte sembra perdere il suo colore, e le sue calme acque senz'onde diventano ancora più chiare e, da azzurre che sono, tendono all'argenteo e quasi al bianco. L'unico colore che rompe l'uniformità di quelle acque è il verde scuro di un pioppo, che, più vicino degli altri alla riva, riflette nel lago il suo cappello di foglie.

Nella pianura tranquilla che sembra sognare piacevolmente e placidamente, l'unico rumore, che si ripete ogni tanto, è quello del vento che fa stormire disordinatamente il fogliame dei pochi alberi. Solo verso il meriggio, delle volte vicino ad una piccola insenatura del lago, sotto la breve ombra del pioppo che si specchia nelle acque tranquille, si vedono delle forme umane.

Sono dei viaggiatori che si fermano lì per rifocillarsi e per bere, e che d'estate si rinfrescano nel lago.

Pochi o nessuno hanno passato in quel posto tranquillo e sereno non solo la notte, ma l'ora del tramonto.

E invece quella è l'ora più bella.

Il cielo, che prima era turchino, a poco a poco si fa azzurro, con dei riflessi dorati e rosa.

Il pallido colore delle acque si vivifica e nel lago si riflettono le grandi nuvole rosse e grigie che passano velocemente all'orizzonte, come mostri che si rincorrono cercando battaglia.

E se la battaglia incomincia nel cielo, lo specchio acqueo la riproduce fedelmente nei suoi minimi particolari.

Ecco un nuvolone rosso infocato prende di mira una nuvola grigia, dai riflessi d'oro e di rosa.

I due mostri celesti si rincorrono, si assaltano, si confondono, si accavallano, lottano, e uno assimila l'altro, oppure ognuno di essi riprende la sua strada separatamente, con diversa velocità e a volte diversa direzione, in cerca di nuove avventure.

E l'acqua riproduce, e un duplicato di questi giganti combatte pure la sua lotta, ma in una atmosfera più varia, dove alla calma del cielo si aggiungono le piccole agitazioni delle acque e dei loro abitanti. La terra intorno, da calma che era, si fa ancora più calma.

Anche gl'insetti, che allegramente cicalavano nell'erba alta e selvaggia, vanno a riposare col sole.

Non c'è che il vento che rompe ogni tanto la calma che sembra debba essere eterna, con il mormorio delle foglie dei pioppi, mosse da folate ineguali.

Poi tutto si fa scuro, uniforme, uguale.

La terra, il cielo, le acque dormono. Solamente le stelle, che sono uscite a poco a poco dal loro nascondiglio diurno, guardano con curiosità la terra, il suo sonno e la sua vita notturna.

E in una di quelle calme, pittoresche e meravigliose serate, un giovane e povero viaggiatore si era trovato sulle rive del lago.

Non poteva proseguire perché, andando a bagnarsi nelle fresche acque immobili, era stato punto da una spina.

Il dolore era stato grande. Il piede ferito, un bel piede di vent'anni, forte e ben fatto, si era gonfiato orribilmente, impedendo persino al giovane di montare a cavallo e di partire.

La sua cavalcatura, un bel morello già un po' vecchiotto, faceva tranquillamente il suo pasto serale, non allontanandosi troppo dal padrone, che giaceva supino sull'erba e guardava le stelle.

Sorse la luna. Sorse presto, quasi ad un tratto, come se fosse uscita dal seno della pianura sconfinata.

Era rossa, gioviale, quasi allegra e contrastava molto coll'aspetto misterioso del lago e della pianura, che, prima silenziosa d'un silenzio quasi sepolcrale, ora si riempiva di tutti i misteriosi, multiformi, strani e variati rumori notturni.

Il cavallo, libero forse per la prima volta in vita sua, guardava con curiosità un pioppo dalle foglie d'argento, che vieppiù risaltavano in un pallido e ancor malsicuro raggio di luna.

Il giovane disteso osservava i mondi lontani, e in quell'occupazione gli sembrava di sentir meno il suo male.

Era tanto assorto in questa sua contemplazione, che non si accorse neanche come la luna accarezzava il suo bel viso con uno dei suoi raggi più dolci e più calmi.

Ad un tratto gli parve di udire, attraverso gli appena percettibili rumori notturni, un rumore lontano, somigliante al suono di molte campanelle d'argento, che in certi momenti si faceva più forte, più severo, quasi irato, e sembrava quello di una moltitudine clamante.

Chi ha passato molte ore nel silenzio più perfetto, senza vedere o sentire nulla, eccettuato il proprio cavallo e il quieto rumore di acque tranquille, sa come allora si sia assetati di rumore, di vita umana, di movimento.

Il giovane tese l'orecchio.

Il rumore ora era un po' più distinto: sembrava essere il suono di sonore, ma argentine campane. Era lontano, ma, come per uno strano effetto acustico, sembrava venire dalle profondità del lago, che dicevano molto profondo, ma che nessuno aveva mai misurato.

Il giovane si avvicinò più che poté al lago, carponi.

Quando riuscì a vedere le acque del lago, gli sembrò di vedervi un biancore strano. Allora si sovvenne di una novella che le nonne del suo paese si compiacevano di raccontare nelle lunghe veglie d'inverno, filando la lana bianca in fili sottili e fini, quando il fuoco crepitava e le scintille salivano a cento a cento su per il camino nero e i ragazzi, ben coperti nei loro rozzi panni, facevano cerchio e ascoltavano con grande interesse e in silenzio, rotto ogni tanto da esclamazioni di gioia o di terrore.

Le nonne raccontavano che, lontano lontano dal mondo abitato, in una pianura verde e infinita come il mare, c'è un lago. E nelle sue acque c'è un'antica città, ignota e sommersa, che vive di una vita sua propria, e che si rivela al viaggiatore solo di notte...

Il giovane non poté ricordare di più: lo spettacolo era troppo meraviglioso, troppo strano, troppo originale per non goderlo in tutta la sua pienezza, in tutta la sua grandiosità, in tutta la sua bellezza. La città ignota e misteriosa era lì, sotto i suoi occhi, con le sue torri che ormai si disegnavano distintamente nelle acque scure e appena rischiarate in un angolo dalla luna; con le sue campane che suonavano a stormo, e ora ben distintamente, coi suoi palazzi dai tetti d'oro e d'argento, con le sue cupole larghe e ardite, che parevano di smeraldo.

Si vedevano brillare dei lumi sott'acqua, tutto era splendido, vivo, ma una cosa sola mancava: non si vedevano esseri viventi sulle mura bianche, sulle torri austere e pittoresche, sui terrazzi larghi e spaziosi.

Tutto era in vita, ma mancava il personaggio principale di quella mirifica rappresentazione: l'uomo.

Ma il giovane, tutto preso dalla magnificenza, dalla grazia, dalla potenza, dall'originalità della città ignota, e quasi ignorata, non trovava che il tempo di estasiarsi.

E rimase così a lungo, molto a lungo, disteso carponi sull'erba fresca del fresco della notte, a contemplare...

Dopo alcuni giorni dei viaggiatori che passavano per la grande pianura che si stende intorno alle rive del lago, trovarono, non lontano dall'acqua, il cadavere di un giovane.

Non lontano, un vecchio morello aspettava il risveglio del padrone... Ma, se i viaggiatori non l'avessero preso con sé e portato via, avrebbe dovuto aspettare a lungo, molto a lungo, fino alla morte...

Perché le nonne, filando la lana bianca accanto al fuoco crepitante e scoppiettante, finivano così il loro racconto ai ragazzi dagli occhi attoniti: «...E mai nessuno, dopo aver visto la città ignota, ritornò più fra gli uomini...».

Berlino, 7-9/XI-22
Leone Ginzburg