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Iscrizioni e poesia - L'Anniversario della Nascita

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Iscrizioni e poesia - Iscrizione IV Iscrizioni e poesia - L'Immortalità

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L’ANNIVERSARIO DELLA NASCITA


― 1833 ―


      Un altr’anno di vita è già spento,
    E tremando lo conta il pensiero;
    Del passato non resta un momento,
    Il futuro è velato di nero;
    Il passato è un romore trascorso,
    Un ricordo dolente, un rimorso.

      Come nudo sepolcro s’innalza
    Nella mente deserta il passato,
    Dove il meglio dell’anima incalza
    Ogni giorno la spinta del Fato,
    Dove tacita giace e sepolta
    La Virtù, che fioriva una volta.

      O miei giovani giorni, che invano
    Mi passaste sul capo, tornate
    Al desio, che vi tende la mano;
    La speranza con voi riportate;
    La Speranza per l’anima è il Sole,
    Quando l’alma caduta si duole.

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      O miei giovani giorni, leggieri
    Ritornate sull’orme già fatte;
    Rinfrescate coi primi pensieri
    Queste rughe, che il cuore ha contratte;
    Ritornate, o miei giorni ridenti,
    E al partirvi movete più lenti.

      Io non vissi, – in un soffio la curva
    Divorai della vita dell’alma;
    Un destino, un demonio m’incurva
    Anzi tempo alla stupida calma
    Della tomba; – potente è la voce,
    Che una morte m’impone precoce.

      O miei giovani giorni, io dispersi
    Un tesoro che Dio non ridona,
    Che non può ridonare; – io sommersi
    Della vita la gaia corona
    Nell’oblio; – questo serto, ch’or piango,
    Sparpagliai neghittoso nel fango.

      Io non vissi, e son vecchio: – e qual orma
    Nel sentier d’una grande passione
    Ho stampato? E di gloria qual forma
    Mi sorrise? – e la santa missione
    Adempia, che Natura ci grida,
    Che il dolore di un secolo affida?

      E il dolore, che cuopre con l’ale
    Tutto un secol, me pure percosse;
    E il dolore fa grande il mortale;
    E se un’alma dal fango si scosse,
    Le convenne di farsi più pura
    Nel battesimo della sventura.

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      E il dolor mi fe’ grande? – Mi geme
    Da gran tempo un lamento nel petto,
    Ma è una tacita stilla; e non freme,
    Non prorompe in faville d’affetto,
    Non risuona in terribili accenti
    Come tromba che scuota i giacenti.

      Ma qual ira fatale riarse
    La freschezza dell’alma sì presto?
    Perchè il riso sì ratto scomparse?
    E perchè sulla fronte un sì mesto
    Velo stese la cura sì amara,
    Come il manto che cuopre la bara?

      Fanciulletto alla scuola del mondo
    Venni; – e il mondo una coppa funesta
    Mi accostava alle labbra; – un profondo
    Sorso bevvi, – e una morte fu questa: –
    Ahi! letale del mondo è la scienza!
    È la morte del cuor l’esperienza!

      L’avvoltoio del dubbio mi rose
    Ogni fibra vitale, ogni forza;
    Mi recise le candide rose
    Della speme, e il suo fiato, che ammorza
    Ogni tinta più vaga e serena,
    Come sangue mi corse ogni vena.

      Io ricinsi d’un funebre velo,
    Vel tramato a tristissima scuola,
    La magnifica faccia del cielo
    Che allo spirito è sì calda parola,
    Quando vive lo spirito immerso
    Nel calor di un amore universo.

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      Io non vidi nel mondo, che un moto
    Alternato di vita e di morte;
    Un destino di ferro, che ignoto
    Tutto stringe in ignote ritorte;
    Esclamai: – muore l’alma! – e al desire
    Chiusi l’ale, e negai l’avvenire.

      E guatando la Storia, – un volume
    Dove scrive col sangue il Delitto,
    Dove scorre qual onda in un fiume
    Delle schiatte il veloce tragitto, –
    Uno spazio guatai di dolore,
    Dove geme chi nasce e chi muore.

      E la gloria un’immagine muta
    A me parve, – una stella cadente, –
    Una voce fra breve perduta
    Nell’immenso silenzio del niente:
     – A che muoversi? – io dissi; e mi tacqui,
    E in un ozio codardo mi giacqui.

      E rimasi nel vuoto; – e la vita
    Mi pesò come un grave martiro;
    E se amai, fu passione smarrita
    Nel deserto, – un solingo sospiro
    Fu l’amor; – nelle tenebre incerto
    Brancolai bestemmiando il deserto.

      Ho voluto il deserto, – e di pietra
    Mi son fatto un guanciale, – e la fossa
    Ho scavato al mio cuor; – nè s’arretra
    L’alma omai dal cammin dove ha mossa
    L’orma; – indarno la innalzo alle sfere,
    Nelle tenebre è morto il pensiere.

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      E la Patria? – Una Patria mi resta,
    Ma prostrata così, che non spira
    Altra vita nel cor della mesta
    Che un dolor muto, cupo; – e rimira,
    Nuova Niobe impietrita dal duolo,
    Ogn’istante cadere un figliuolo.

      Perchè vivi tu dunque? Un acciaro,
    Un veleno non hai? Perchè tremi
    A spezzare quel calice amaro?
    Che ti fai del letargo in che gemi?
    Perchè vivi? Un incanto t’ha vinto?
     – Io nol so; – forse vivo d’istinto. –

      La mia pallida pallida stella
    È al tramonto d’un triste viaggio;
    Chi le infonde una vita novella?
    Chi le rende l’allegro suo raggio?
    A quest’anima morta chi dice:
     – Su, rinasci, novella Fenice? –

      O miei giovani giorni, potete
    Rimontar la corrente? – Venite,
    Anche nudi di gioia, – adducete
    Solo il pianto; – è una gioia più mite;
    E se il cielo un’ammenda ha pensato
    Al dolore, la lacrima ha dato.

      Ma un altr’anno di vita è già spento,
    E tremando lo conta il pensiero;
    Del passato non torna un momento,
    Il futuro è velato di nero;
    Il passato è un rumore trascorso.
    Un ricordo dolente, un rimorso.

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      Qual fragranza dal fiore degli anni
    Ho spremuto? – Il mio cielo natio
    L’agitava con tepidi vanni,
    Gli vestiva dell’iride il brio,
    Lo drizzava gentile all’amore,
    Educava alla Patria quel fiore.

      Ma quel fiore mal crebbe; e le foglie,
    E l’umor gli corrose un veleno;
    Dissipate le pallide spoglie
    Son fuggite dei venti nel seno;
    La rugiada d’un placido cielo
    Più non bagna che un arido stelo.