Capitolo settimo - Malattia e medicina mal riuscita

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Petronio Arbitro - Satire (I secolo)
Traduzione dal latino di Vincenzo Lancetti (1863)
Capitolo settimo - Malattia e medicina mal riuscita
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CAPITOLO SETTIMO

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malattia e medicina mal riuscita.



Intanto che scucita la veste ne tiravamo l’oro, udimmo alcuno chiedere al locandiere che razza di gente fosse testè entrata in locanda.

Io di tal dimanda spaventatomi, quando colui fu sortito, discesi per saper cosa fosse, e seppi che il littor del pretore, che avea cura di scrivere sui pubblici registri i nomi de’ forestieri, avendo visto due stranieri entrare nell’albergo, i cui nomi ancor non aveva negli atti, vi era perciò venuto a cercare della lor patria ed impiego.

Così ragguagliavami l’oste, ma con tal flemma, che mi svegliò sospetto che noi fussimo mal sicuri; laonde per non ingannarci scegliemmo di escire, e di non tornar che la notte; e così partendoci ordinammo a Gitone che prendesse pensier della cena.

Siccome nostro consiglio fu di evitare le strade [p. 26 modifica]popolose, così ce ne andammo pe’ luoghi solitari della città, in uno de’ quali, essendo già sera, incontrammo due leggiadre femmine col velo,1 cui pian pianino tennimo dietro sino ad una cappella, nella quale entrarono, dove udimmo un susurro insolito, come di voci che uscissero dal seno di una caverna. La curiosità ci spinse ad entrar nel tempietto; e vi scorgemmo più donne a foggia di baccanti, che stringevano nella mano destra de’ rigogliosi priapi: ma non potemmo nient’altro osservare, perchè avendoci esse veduto, alzarono sì gran rumore, che ne tremò la volta del tempio, e tentarono di attrapparci. Ma noi scappammo velocemente all’albergo.

Appena ci sentivamo soddisfatti della cena, fattaci dalla attenzion di Gitone disporre, che udimmo battere con sonori colpi la porta; impalliditi chiedemmo chi fosse, e ci fu risposto: apri e il saprai. In questo mezzo, il chiavistello schiodatosi cadde, e così la porta diè accesso alla persona chiedente senz’altro ritardo. Ella era una donna col capo coperto, quella cioè che poc’anzi stavasi col villano, e voi, ci disse, voi vi credeste di farvi gioco di me. Ma cameriera di Quartilla son io, i cui riti, nella Grotta2 voi testè disturbaste. Ora qui ella stessa è venuta e cerca di potervi parlare. Non datevi pena però. Ella non vuole nè accusar nè punire la vostra insolenza; al contrario ella è sorpresa, nè sa qual Dio abbia in questa sua contrada portato sì amabili giovinotti.

Nulla erasi ancora per noi risposto, incerti del parere cui attenerci, quando colei accompagnata da una fanciulla entrò, e sedutasi sul mio letto pianse per un buon pezzo. Nè parola alcuna allor pure dicemmo, ma sorpresi attendevamo la fin delle lagrime, che tanto dolore manifestavano. Come quel torrente di pianto cessò, alzò il velo del maestoso suo viso, e congiunte le mani sino a farne iscrosciar le nocca: che ardire è codesto, diss’ella, e chi v’insegnò quelle menzogne e [p. 27 modifica]quei furti? propriamente io ho pietà di voi, perchè nessun vide giammai cose da non vedersi, il qual non ne andasse punito. Sappiate che qui abitano tanti Numi ch’egli è più facile trovarci un Dio, che un uomo.3 Ma non crediate, ch’io qui venga per amor di vendetta; più all’età vostra, che alla mia ingiuria ho riguardo, persuasa che voi per imprudenza abbiate commesso un sì grave peccato.

Io parimenti stanotte mi trovai agitata e presa da sì terribile intirizzimento, che ebbi timor di un accesso di febbre terzana; e così cercando al sonno un rimedio, mi sentii ispirata di venire in traccia di voi, e all’impeto del mio mal sottile4 trovar sollievo. Pure non è del rimedio, che io mi prenda maggior cura; ciò che più mi tormenta, sino a ridurmi all’angoscia, egli è il timore che voi spinti da giovenil baldanza divulghiate quanto nella cappella di Priapo vedeste, e ciarliate tra ’l volgo de’ misteri degli Iddii. Sino ai vostri ginocchi alzo adunque le mani, e prego e supplico che quei notturni riti non facciate oggetto dell’altrui scherno, nè vogliate scoprire questi sì antichi arcani che non tutti i Misti5 hanno pur conosciuto.

Dopo questa prece di nuovo sgorgaron le lagrime, e da gran gemiti abbattuta, colla faccia e col petto il mio letticciuolo premea. Allora io di pietà e di timore commosso presi a confortarla e assicurarla che nessuno avrebbe le cose sacre divulgato, e che se il Nume le additava alcun altro rimedio alla terzana, noi avremmo secondata la celeste ispirazione, a costo ancor di pericolo.

Rallegratasi a questa promessa la donna, molti baci mi diede, e dal pianto passando al riso, coi diti a guisa di pettine mi ricompose i capegli che lungo le orecchie scendevanmi, dicendo: io faccio tregua con voi, e rinuncio alla lite intimatavi. Che se a codesto rimedio, cui aspiro, voi non assentivate, già vi era gente disposta, che dimani l’ingiuria mia e il mio onor vendicasse.


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Fa il disprezzo vergogna,
    E il poter comandar mette in orgoglio:
    3Io, quanto a me, sol voglio
    Andarmene e venir quando bisogna;
    Degli altrui scherni il vero saggio ride,
    6E vittoria ha colui, che non uccide.


Battendosi poi palma a palma scoppiò ad un tratto in tanto ridere, che noi ce ne spaventammo; così fece dal canto suo la cameriera, che era prima venuta, così la fanciulla che l’accompagnava; tutto rimbombava di un riso teatrale. Intanto che noi, ignari del motivo di così improvviso cangiamento, or ci guardavamo l’un l’altro, or quelle donne, Quartilla disse: insomma io ho proibito che oggi si accetti chicchessia in questa locanda, onde avermi da voi senza interrompimento il rimedio alla mia terzana.

A queste parole Ascilto restò alquanto stupito, ed io fatto più freddo dei ghiacci del settentrione, non seppi profferire motto: e se nessun male io temea, n’era cagione la compagnia; poichè, se qualche fatto volesser tentare, ell’erano tre deboli donnicciuole; noi all’incontro, quando anche ogni altro viril soccorso mancasse, eravamo pur maschi. Difatti stavamcene di già bene in armi; anzi io avea già disposte le coppie, in modo, che se a combatter si avesse, io mi affrontassi con Quartilla, Ascilto colla cameriera, Gitone colla fanciulla.

Mentre io volgea in mente queste cose, mi si accostò Quartilla, ond’essere medicata della terzana: ma non riescitomi il colpo, ella sortì furiosa, e tornatasi un momento dipoi ci fe’ prendere da gente sconosciuta, e in magnifico palazzo trasferire.



Note

  1. [p. 291 modifica]L’ortolana che accompagnò Encolpo, e la donna venuta poco sopra col villano, e queste, ed altre in seguito, sono sempre descritte aver la testa velata. Fu diffatti costante uso delle donne romane di non sortire giammai senza velo o pannolino sul capo, come in tutti i tempi e quasi in tutte le nazioni le femmine hanno praticato, e spesso per un precetto di religione.
  2. [p. 291 modifica]Il signor Ignarra in una sua nota a pag. 187 della citata opera avverte esistere tuttavia codesta Grotta in vicinanza di Napoli, e cita in proposito questo passo di Petronio.
  3. [p. 291 modifica]Est dignus Roma locus quo Deus omnis eat.
  4. [p. 291 modifica]Così mi è sembrato poter tradurre le parole monstrata subtilitate per alludere ad una maniera di dire italiana, colla quale per indicare malattia etica, o all’etisia tendente, per disordini giovanili, o per debolezza di petto, suol dirsi mal sottile.
  5. [p. 291 modifica]Misti, forse derivazione dalla voce mysterium, erano detti i sacerdoti che ad un tempo stesso servivano al culto di Bacco e di Priapo. Nelle cerimonie relative a Priapo portavano alcune immagini dette Phalli, d’onde eran detti Phalliphori.