Satire di Tito Petronio Arbitro/5
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CAPITOLO QUINTO
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garbugli, batterie, rumori, e cose simili.
In quel frattempo Trifena, dopo avere estenuato Gitone, a me di bel nuovo si avvicinò, ma vistasi respinta cangiò in rabbia l’amore. La frasconcella incollorita scoperse il mio commercio con ambo i coniugi, e infingendosi sulla follia del marito per me, che non recava a lei danno, perseguitò i furtivi amori di Doride, e li fe’ noti a Lica; il qual vinto di gelosia pensò tosto a vendicarsene: ma Doride prevenuta dalla cameriera di Trifena sospese i trattenimenti segreti, sino che la tempesta fosse passata.
A questa notizia, indispettitomi della slealtà di Trifena e della ingratitudine di Lica, deliberai di andarmene; e favorevol mi fu la fortuna, dacchè il giorno innanzi una nave carica di merci consecrata ad Iside erasi ne’ vicini scogli inviluppata.
Consigliatomi perciò con Gitone, egli aderì volentieri, dappoichè si accorgea del cessato amor di Trifena, or che l’avea spossato. Andammo dunque a mare di buon mattino, e salimmo la nave tanto più facilmente, quanto che eravam conosciuti dai ministri di Lica, che n’eran custodi. Ma facendoci essi l’onore di corteggiarci, e perciò non lasciandoci campo a rubare, io abbandonai Gitone con essi, e dileguatomi cautamente montai sulla poppa, dov’era la statua d’Iside, la spogliai della ricca veste, e di un sistro d’argento,1 e molti ricchi mobili dalla cella del piloto levai, indi sì nascostamente per la corda discesi, che il solo Giton se ne avvide, il qual parimenti dai custodi si liberò, e di soppiatto mi tenne dietro.
Appena che il vidi, il furto gli palesai; perlocchè risolvemmo di andar tosto a raggiugnere Ascilto; ma non potemmo alla casa di Licurgo prima dell’indomani arrivare. Trovato Ascilto, in poche parole gli raccontai le rapine, e come fummo il gioco di quegli amorazzi. Egli ci consigliò di prevenir Licurgo in favor nostro, e fargli credere che le nuove licenze di Lica fossero cagione della improvvisa e occulta nostra partenza. E ciò udendo Licurgo, ei promise la sua costante assistenza contro i nemici.
Rimase ignota la fuga nostra sino a che Trifena e Doride risvegliate si alzarono; perchè avevamo costume di sederci galantemente ogni mattina, mentre si acconciavano. Mancando noi dunque contro il solito, Lica spedì esploratori, massimamente alla riva, e ben seppe che noi fummo alla nave, non però del furto, che ancora scoperto non era, perchè la poppa era verso alto mare, e il piloto assente dal vascello.
Certi finalmente della fuga nostra, Lica arrabbiatone, infuriò grandemente contra Doride, cui l’attribuì. Non dirò le ingiurie di parole e di mani, perch’io ne ignoro le particolarità: sol dirò che Trifena causa di questo guaio persuase Lica a rintracciare i fuggiaschi presso Licurgo, ove forse ci eravam rifugiati, e volle unirsi a lui, onde sopraffarci con le villanie, che ci meritavamo.
Il dì seguente partirono e giunsero al castello. Noi eravamo assenti, perchè Licurgo ci avea condotto ad una festa d’Ercole, che celebravasi in un vicin borgo; locchè intendendo avviaronsi tosto verso noi, e c’incontrarono sotto i portici del tempio.2 Assai ci turbammo vedendoli, e Lica amaramente del fuggir nostro con Licurgo lagnossi, il quale con sì alto sopracciglio, e con sì rugosa fronte lo accolse, che io fatto ardito gli rimproverai francamente le iniquità e sozzure, che ne’ suoi empiti di libidine mi aveva usato, sì in casa di Licurgo, che nella sua, nè Trifena, che mi contraddicea, risparmiai, manifestando le di lei ignominie a tutti coloro, che al romore erano accorsi, e in prova di verità additai l’estenuato Gitone, e me quasi ucciso dal suo puttanesco furore.
Confusi e malinconici rimasero gli avversarj per le risa de’ circostanti; onde partironsi meditando vendetta. E perchè si accorsero che noi l’animo di Licurgo ci avevamo acquistato, così andarono ad aspettarlo a casa, a fin di ravvederlo dell’error suo.
Per essere troppo tardi finite le solennità, non potemmo ritornare al castello, e Licurgo ci drizzò ad un villaggio posto a metà del cammino, donde il giorno dopo, lasciandoci ancor nel sonno, andossene al castel suo per ispedir sue faccende. Là trovò Lica e Trifena che lo aspettavano, e che sì accortamente gli parlarono, che lo indussero a rimetterci in mano loro. Licurgo naturalmente crudele e mancator di parola, studiando come avesse a consegnarci, suggerì a Lica di munirsi di gente, mentr’egli sarebbe venuto al villaggio per custodirci.
Venne al villaggio, e al primo incontro ci accolse, come accolti ci avrebbe Lica, poi colle man sui fianchi ci rimproverò le falsità nostre contro Lica, e fe’ chiuderci nella camera ove eravamo, toltone Ascilto, dal qual non volle le difese nostre ascoltare; e menandol seco al castello, noi in mano ai guardiani lasciò, perchè sino al suo ritorno ci custodissero.
Inutilmente Ascilto, cammin facendo, tentò cambiar l’animo di Licurgo, cui non commossero nè le preghiere, nè l'amor, nè le lagrime. Ma il buon camerata risolse di liberarci, e sdegnato della ostinazion di Licurgo ricusò di dormir seco lui, e così ebbe agio di eseguire ciò che avea meditato.
Quando tutti eran sepolti nel sonno, Ascilto incaricatosi delle nostre bisacce, e attraversando per certa rottura ch’egli avea già vista nel muro, giunse di buon mattino al villaggio, dove senza ostacolo entrò e venne alla camera nostra, che i guardiani tenevano chiusa. Non fu però difficil di aprirla, perchè dì legno era l'uscio, e con un ferro potè spalancarlo; onde al cadere del chiavistello noi ci svegliammo, giacchè ad onta dello infortunio ce ne dormivamo saporitamente.
Anche i guardiani, dopo aver molto vegliato, dormivano profondamente, di maniera che noi soli fummo i destati. Entrato Ascilto, quel che avea fatto per noi raccontò breve breve, nè vi era bisogno che dicesse di più. Intanto che in fretta ci vestivamo, mi saltò in pensiero di ammazzare i guardiani, e di saccheggiare la villa. Comunicai il progetto ad Ascilto, e gli piacque, ma ci diè modo di eseguirlo senza spargimento di sangue; perchè conoscendo egli tutti i pertugi della casa, ci condusse alla guardaroba, che egli aprì, e da cui levammo quanto eravi di più prezioso; indi partimmo, che ancora era l’alba, e lasciandoci a’ fianchi la via maestra, non ci arrestammo sino a che non ci parve di esser sicuri.
Note
- ↑ [p. 290 modifica]Il Sistro era uno stromento di metallo consagrato dagli Egizj alla dea Iside, i cui sacerdoti se ne valeano per accompagnar colla musica i loro sacrifizj, e da ciò eran detti Sistriati.
- ↑ [p. 290 modifica]Da queste parole il signor Ignarra nella sua dissertatone De Palaestra Neapolitana deduce due prove: la prima che il luogo qui citato fosse Ercolano, che ai tempi di Tito rimase sepolto sotto le lave del Vesuvio, e che ora dal portico di cui era ornato il tempio d’Ercole chiamasi Portici, ed è villeggiatura reale; la seconda che le aggiunte attribuite al signor Nodot, e che la maggior parte de’ critici rifiuta, appartengano veramente al testo originale di Petronio, e quindi abbiansi ad avere come parte integrante di quest’opera. Del che noi abbiamo abbastanza parlato nella prefazione.