Satire (Orazio)/Libro II/Satira II
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Satira II
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Quale e quanta virtù nel viver parco
Risieda, o buoni amici (e non è mio
Questo discorso, ma d’Ofello uom saggio,
Benchè rozzo villan senza dottrina)
5Non tra i gran piatti, e le sfarzose mense,
Ove abbagliato da soverchio lume
Istupidisce il guardo, e l’alma intenta
A ingannevoli obbietti il meglio aborre,
Ma qui digiuni a ricercar prendiamo.
10L’imperchè vi dirò, s’io vaglio a tanto.
Un giudice corrotto è mal disposto
A discernere il ver. Segui correndo
Lungo tratto una lepre, o i membri stanca
A cavalcare indomito cavallo,
15Oppur se avvezzo a sollazzar non puoi
Sostener cotai prove militari,
Prendi a lanciar la palla, e dolcemente
Col passatempo la fatica inganna,
O col disco ferir non ti rincresca
20La mobil aura. Dopo che la nausea
Da te cacciata avran tali esercizj,
Con lo stomaco voto allor disprezza
Le ignobili vivande, e nessun altro
Licore agogna che il Falerno misto
25Col mel d’Imetto. Allor se il dispensiero
È fuor di casa, o tempestoso il mare
Nega la pesca, un po’ di pan col sale
Sarà squisito a racchetar del ventre
I fier latrati. E donde vien mai questo?
30Da te viene il diletto, e non da’ cibi
Compri a gran prezzo: il tuo sudor comparta
Alle vivande il buon sapor. Mal puote
Recar sollazzo ad uom pallido e bolso
Per indigesto cibo ostrica o scaro
35O peregrina starna. Io tuttavolta
Non ti saprò impedir, che se un pavone
Avrai dinanzi, non piuttosto a questo
Che a una gallina la tua man distenda
Per aguzzare il gusto, e ciò sedotto
40Dalla vana sembianza delle cose.
Perocchè raro quell’augel si vende
A prezzo d’oro, e con l’occhiuta coda
Fa di se pompa, come ciò valesse
L’interno pregio a migliorarne. Forse
45Cotesta piuma, che cotanto lodi,
Da te si mangia; o quando quello è cotto,
Forse ritiene ancor la sua bellezza?
Or se non è tra l’una carne e l’altra
Notabil differenza, è ben palese
50Che la dissimil forma a te fa inganno.
Donde sai tu, che questo pesce lupo
Palpitasse nel mar, quando fu preso,
O nell’acque del Tevere, alla bocca
Di questo fiume stesso, ovver tra i ponti?
55Di tre libbre una triglia al cielo innalzi
Con pazze lodi, e pur tu dei spartirla
In piccioli frammenti. Inganno è questo
Dell’apparenza. Il veggio. E perchè aborri
I grossi lupi? Perchè grande a questi
60Mole Natura diè, piccola a quelle.
Stomaco voto raro avvien che sprezzi
Cose vulgari. Una gran triglia bramo
Distesa rimirare entro gran piatto,
Dice una gola di rapace arpìa.
65Frolle ah rendete, austri benigni, a questa
Gente le carni, perocchè fastidio
Apportale il cinghiale e il rombo fresco,
Quando al gravato stomaco fa guerra
La sazietà molesta, e quand’ei pieno
70Le rape agogna e l’acide lattughe.
Nè de’ poveri il vitto è dalle mense
De’ più ricchi signori in tutto escluso.
Perocchè l’uova, comunal vivanda,
Oggi v’han loco e le mature ulive.
75Non è gran tempo che si rese infame
Per un nuovo acipensero la mensa
Del banditor Gallonio. E che? In allora
Forse men rombi il mare in sen nutrìa?
No; ma sicuro il rombo entro sue cave
80Giaceva, e la cicogna entro suo nido;
Finchè di girne in traccia a voi maestro
Fu Rufo pretorian. Se alcun dicesse
Che son grati al palato i merghi arrosti,
La nostra gioventù docile al male
85Tosto darebbe alle sue voci assenso.
Ma tra ’l sordido e il parco trattamento
Mette Ofello medesmo il suo divario.
Perocchè indarno altri s’invola a un vizio,
Se trabocca in un altro. Avidieno,
90Che il cognome di can per giusto merto
Affisso porta, ulive di cinque anni
Mangiare ha in uso, e corniole selvagge.
Vin non attigne se non guasto; e un olio,
Che ti fa stomacar, con un cornetto
95Spruzza a stille su i cavoli, non parco
Sol di svanito aceto; e ciò quand’anche
Festeggia in bianca vesta i nuziali
E i natalizj ed altri dì solenni.
Or a qual vitto appiglierassi il saggio?
100E qual de’ due l’imiterà? Dall’una
Parte il lupo l’incalza, il can dall’altra.
Uomo pulito è chi non move a schifo
Con un sordido vitto e nelle spese
Tiensi lontan dall’uno e l’altro estremo.
105Questi co’ servi, come il vecchio Albuzio,
Crudo rigor non userà nell’atto
Che gli ufizj comparte, e neppur, come
Nevio balordo, a’ convitati l’acqua
Bisunta porgerà; fallo non lieve.
110Ascolta ora quai beni e quanti arrechi
Un frugal vitto. Primamente ei sano
Viver ti fa. Quanto nocivi all’uomo
Sieno i diversi cibi, a te ben noto
Sarà, se ti sovvien come talora
115Buon pro ti fece una vivanda sola.
Ma quando hai misto insieme arrosto e lesso,
Conchiglie e tordi, tutto ciò che è dolce
Si cangia in bile, e un’indigesta flemma
Tutto mette lo stomaco in tumulto.
120Non vedi come smorto ognun si leva
Da una cena che tien la bocca in dubbio?
Gravato il corpo da stravizzi aggrava
L’anima ancora, e tiene al suol confitta
Quella parte che abbiam d’aura divina.
125Ma l’uomo parco dopo aver le membra
Per pochi instanti ristorate e al sonno
Date in governo, vegeto vien fuori
Dal letto a ripigliar gli usati ufficj.
Pur esso anco potrà lentare il freno
130A miglior pasto o quando l’annuo giro
Ne riconduce un lieto dì solenne,
O s’ama ristorar le spente forze,
E allorchè l’egra età, crescendo gli anni,
Un trattamento vuol più dilicato.
135Ma a quella morbidezza, che ti prendi
Fuora di tempo in età salda e fresca,
Qual giunta potrai far quando cadente
Vecchiezza o dura malattìa t’incalzi?
Un rancido cinghial da’ nostri padri
140Era apprezzato non perché mancasse
A quei buon naso, ma, cred’io, per questo
Che stimavano ben così mal sano
Serbarlo a un forestier sopravvegnente
All’improvviso anzichè il sol padrone
145Per ghiottornìa sel divorasse intero.
Deh fossi al mondo io già venuto al tempo
Di questi eroi. Ma dì, se conto alcuno
Fai della fama che agli umani orecchi
Suona più grata di qualsiasi carme?
150Or i gran rombi e le gran mense grande
Recano insieme e disonore e danno.
Aggiungasi il disgusto dello zio,
De’ vicini e di te contro te stesso,
E un van desìo di morte ove danajo
155Ti mancherà fin da comprarti un laccio.
Ma tu dirai: Queste rampogne a Trasio
Ben si confanno; ma io tengo censi,
E ricchezze a tre re più che bastanti.
Or perchè dunque ciò che a te soverchia
160Non meglio impieghi? Perchè tu sì ricco
Penuriar chi non lo merta e lasci
Sfasciati rovinar gli antichi templi?
Perchè alla patria cara empio che sei
Nessuna parte fai di tua gran massa?
165Ma forse per te sol prospere andranno
Sempre le cose? Oh quale un dì sarai
Scherno a’ nemici! E qual de’ due può meglio
In se stesso fidar pe’ dubbj casi?
Quei che la mente e il rigoglioso corpo
170A più bisogni assuefece, o quei
Che contento del poco e timoroso
Dell’avvenir, come fa il saggio, in pace
Appresta quel che gli fia d’uopo in guerra?
E perchè più tel creda, io fin da’ primi
175Anni infantili miei conobbi Ofello.
Non più lauto vivea quand’era in fiore
Lo stato suo d’or ch’è ridotto al verde.
Tu lui robusto lavorante a prezzo
Nell’assegnato campicel vedresti
180Così parlare infra le mandre e i figli:
Io ne’ dì non festivi altro non ebbi
Già in uso di cibar se non erbaggi
Con un po’ di presciutto affumicato.
E se dopo gran tempo un qualche amico
185Di lontan mi veniva, o se un vicino,
Quando la pioggia interrompea il lavoro;
Buon pranzo si facea non già co’ pesci
Della città, ma con capretto e pollo.
Uva al soffitto appesa e fichi e noci
190Eran l’onor delle seconde mense.
Dopo mangiato si prendea per gioco
A maestra del ber la nostra coppa.
Porti a Cerere preghi, ond’ella fesse
Crescer alto le messi, a noi spiegata
195E piana il vin rendea la brusca fronte.
Frema e nuove procelle iniqua desti
Fortuna a’ danni miei; Che può scemarmi?
Quanto poco più scarso è il vostro, o figli,
E il vitto mio da che novel qua dentro
200Colono entrò! Poichè di queste terre
Nessun proprio padron nè me, nè lui
Nè verun altro instituì Natura.
Me quegli discacciò, lui pure o il lusso
O l’imperizia de’ forensi lacci
205O certo alfin discaccerà un erede,
Che in vita rimarrà dopo di lui.
Questo poder che pria d’Ofello, ed ora
D’Umbren si noma, di nessuno è proprio;
Ma all’uso servirà di questo e quello.
210Su dunque fate cuore, e forti petti
Recate incontro alle vicende avverse.