Sandokan alla riscossa/Capitolo IV - Il tradimento del chitmudyar

Capitolo IV - Il tradimento del chitmudyar

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Capitolo IV - Il tradimento del chitmudyar
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CAPITOLO QUARTO: IL TRADIMENTO DEL CHITMUDYAR.


Nasumbata stette un momento raccolto, forse ancora un po' dubbioso fra il parlare chiaro o cercare qualche nuovo inganno, poi si decise finalmente, temendo che Kammamuri mettesse ad effetto la minaccia fattagli.

«Giacché sono ormai completamente in vostra balìa», disse finalmente, «sarò franco, a condizione che mi promettiate salva la vita».

«Tu corri troppo, mio caro» disse la Tigre della Malesia. «Tu potrai ottenere quanto ci chiedi, solamente quando noi avremo la prova che non ci avrai ingannati. Ed ora getta fuori tutto ciò che nascondi nel tuo sacco».

«Quando vi dissi di non aver mai conosciuto il rajah bianco del lago, io ho mentito» riprese Nasumbata.

«Me l'ero immaginato» disse Sandokan. «Quando l'hai veduto?»

«Cinque mesi or sono».

«Dove?»

«Sulle rive del lago».

«È ormai vecchio?»

«Sì, ha una lunga barba grigia e la fronte assai rugosa, però mi parve assai robusto».

«È vero che ha due figli?»

«Due giovani di sangue misto, alti e forti come tori, che ebbe da una principessa dayaka del Labuk».

«Quale incarico ti aveva dato?»

«Di raggiungerti all'isola di Gaya, avendo saputo che tu eri ritornato da un lungo viaggio».

«Come aveva saputo che io ed i miei amici ci eravamo imbarcati per l'India?»

«Questo non lo so» rispose Nasumbata.

«Che cosa temeva da parte mia?» chiese Sandokan.

«Una improvvisa comparsa sulle rive del lago da parte tua e dei tuoi malesi».

«Eppure per tanti anni io l'ho lasciato tranquillo, quantunque l'idea di riconquistare il trono dei miei avi e di vendicare i miei genitori, i miei fratelli e le mie sorelle m'avesse tormentato costantemente durante il mio lungo esilio».

«Si vede, signore, che non si era ingannato, poiché tu sei qui, e suppongo che tu non sia sbarcato in questa baia per dare solamente la caccia a me».

«Come hai potuto conoscere tu i miei progetti, che non erano noti alla maggior parte dei miei uomini?»

«Una sera ho ascoltato i tuoi discorsi» rispose Nasumbata. «Tu eri insieme a Sambigliong ed a Sapagar».

«Canaglia d'uno spione!» mormorò Yanez.

«Hai avuto il tempo necessario per avvertire il rajah?» chiese Sandokan.

Nasumbata ebbe una breve esitazione, ma poi, vedendo gli occhi della Tigre della Malesia diventare minacciosi, non indugiò più oltre.

«Ho spedito un corriere» disse.

«Al rajah?»

«Sì, signore».

«Con quale incarico?»

«Con quello di avvertirlo del tuo arrivo e del tuo sbarco».

«Perché non sei partito tu per il lago?»

«Volevo sorvegliare le tue mosse».

«Credi tu che il rajah del lago abbia preso delle misure per impedirci la traversata delle grandi foreste?»

«Certamente; e non so se voi riuscirete a vedere le sponde del lago».

«Di questo rispondiamo noi pienamente!» disse Yanez. «Abbiamo rovesciato altri troni, noi, e non sarà certamente quell'uomo che ci tratterrà nella nostra marcia. Conosci la via, tu?»

«Sì, signore».

«Quanto ci vorrà a quest'uomo per guarire?» chiese a Sandokan.

«La ferita non è grave. E poi se sarà necessario, lo faremo trasportare».

«Seguitemi, amici» disse Yanez. «Certe cose quest'uomo deve per ora ignorarle».

Vuotarono un'altra bottiglia, riaccesero pipe e sigarette ed uscirono, mentre due malesi entravano per sorvegliare strettamente il prigioniero.

Sulla spiaggia i malesi e gli assamesi-indiani stavano sbarcando i pochi viveri rimasti nella stiva dell'yacht ed abbassavano le immense vele dei prahos, le rande e le controrande.

Solamente la barcaccia era ancora sotto pressione, come se dovesse, da un momento all'altro, riprendere il largo.

«Saliamo sull'yacht» disse Yanez. «Almeno nessuno saprà quello che noi progetteremo».

«Di chi diffidi?» chiese Sandokan.

«Eh!... Non si sa mai!... Da quando sono diventato il principe consorte, dubito di tutto e di tutti».

Salirono in una scialuppa e raggiunsero l'yacht, il quale si trovava ancorato a sole venti braccia dalla spiaggia, perché in quel luogo l'acqua era profondissima.

Attraversata la tolda, scesero nel quadro dove si trovava un bellissimo salotto, colle pareti coperte di seta azzurra e con due ampie finestre che si aprivano sulla poppa, a babordo ed a tribordo del timone.

Tutto intorno vi erano dei piccoli divani di velluto pure azzurro, e nel mezzo una tavola riccamente scolpita, con intarsi d'avorio e d'argento.

Dall'alto pendeva una lampada di bronzo, di stile indiano, i cui candelabri erano formati da proboscidi d'elefanti intrecciate con molto gusto.

Un indiano di alta statura, assai bruno, piuttosto magro, dagli occhi nerissimi e ardenti ed il volto incorniciato da una barba nera e leggermente increspata, tutto avvolto in un ampio dootée di percallina fiorata, stava in piedi all'estremità del salotto, come se aspettasse qualche ordine.

«Puoi andartene, Sidar» gli disse Yanez, salutandolo con un gesto della mano. «Per il momento non abbiamo bisogno di te».

«Chi è quell'uomo?» chiese Sandokan, quando l'indiano ebbe varcata la porta.

«Il nostro maggiordomo, o meglio, il nostro chitmudyar».

«Fidato?»

«Fidatissimo».

«Allora possiamo parlare. Che cos'è che volevi dirmi?»

«Volevo chiederti se tu credi di avere forze bastanti per conquistare anche tu un trono».

«In quanti eravamo quando rovesciammo il feroce rajah dell'Assam? Né di più, né di meno, anzi, forse in meno; eppure colla nostra astuzia siamo ben riusciti a dare a Surama la corona che le spettava».

«Qual è il tuo progetto dunque?»

«Di attraversare i grandi boschi, dovessi raddoppiare il cammino, raggiungere le rive del lago e sorprendere quel miserabile, che ha con me un debito di sangue così terribile».

«E ucciderlo di certo!» disse Tremal-Naik.

«Quell'uomo non potrà sperare in me grazia alcuna» rispose Sandokan, con voce cupa.

«Io conosco vagamente quella storia sanguinosa» disse Tremal-Naik.

«Vorrei però conoscerne tutti i particolari. Non partiremo già oggi, suppongo».

«Ho bisogno di assicurarmi innanzi tutto la neutralità del rajah di Labuk, per mettere al sicuro i nostri legni. Un giorno a quel piccolo principe pirata ho reso un servigio, e spero che non se lo sarà scordato. Non prenderemo terra prima di tre giorni, anche perché voglio assicurarmi delle oscure intenzioni del mio nemico. Che egli abbia già fiutato qualche cosa, ne sono sicuro: l'assalto dei dayaki ne è una prova lampante».

«Allora tu hai il tempo di narrarci la tua lugubre istoria» disse l'indiano.

«Certe volte da un particolare insignificante può scaturire una grande idea».

«E modificare un progetto» aggiunse Yanez.

Sandokan si era alzato colla fronte oscura, il viso alterato da una collera terribile, le pugna chiuse.

I suoi occhi splendidi mandavano lampi, e pareva che un fremito scuotesse tutto il suo corpo.

«Ecco la Tigre della Malesia di quindici anni fa» mormorò Yanez. «Mi pare di vederlo ancora, quando dall'alto della rupe di Mòmpracem lanciava la sua sfida al leopardo inglese. Il ruggito della Tigre della Malesia faceva allora tremare Labuan».

Sandokan si era improvvisamente fermato, vibrando sul tavolo un pugno formidabile.

«Fammi portare da bere, Yanez!...» gridò con voce rauca. «Bisogna che spenga la fiamma che mi divora il sangue!...» Kammamuri si era alzato spalancando la porta.

«Sidar!...» gridò. «Delle bottiglie e delle tazze!...» L'indiano, che stava seduto sul primo gradino della scaletta, sempre in attesa d'ordini, si alzò lestamente, e poco dopo entrava nel salotto portando quanto gli era stato chiesto.

Kammamuri sturò una bottiglia di un liquore color del rubino ed empì quattro tazze di cristallo arabescate d'oro.

Sandokan vuotò d'un colpo il bicchiere che Yanez gli porgeva, poi disse: «Sono trascorsi circa vent'anni da quell'epoca funesta e da due secoli i Sandokan, che appartenevano ad una casta guerriera del levante bornese, dominavano sul trono di Kinibalu. I miei avi avevano conquistato un vastissimo regno nel cuore della grande isola, aggregandosi tutte le tribù dei dayaki indipendenti del nord e prendendo stanza sul Kinkini, il più grande e più bel lago che qui si trovi. Mio padre, grande guerriero anche lui, aveva estese le sue conquiste fino al mare, e chi sa fino dove le avrebbe spinte senza l'improvvisa comparsa d'un uomo bianco, la razza fatale alla razza malese e di tante altre ancora. Di dove veniva costui? Io non lo seppi mai con precisione, ma ho qualche grave motivo per crederlo qualche bandito, qualche evaso da non so quale penitenziario inglese. Fu detto che era approdato nella baia di Labuk durante una notte di tempesta, e che dei dayaki costieri, invece di decapitarlo e di collocare la sua testa bianca sulla palizzata della loro kotta, l'avevano risparmiato, credendolo probabilmente, in causa della sua tinta sbiadita, un genio del mare. Vera o no questa storia, il fatto si è che quel bandito, non so con quali arti, riuscì ad accaparrarsi le simpatie d'una grossa tribù di dayaki, i quali cercavano di rendersi indipendenti. Un brutto giorno una violenta rivoluzione scoppia verso le coste, e si avanza minacciosa in direzione delle grandi foreste. Mio padre, avvertito che un uomo bianco era alla testa di numerose tribù, leva un esercito e si mette in campagna coi suoi più famosi guerrieri. Io e i miei tre fratelli l'accompagnavamo. Le grandi foreste vennero più volte insanguinate. Si lottava con furore sulle rive dei fiumi e in mezzo alle paludi, con stragi orrende da una parte e dall'altra. L'uomo bianco però esercitava una strana influenza sui nostri dayaki. Probabilmente l'oro inglese entrava in quella ribellione, poiché i nostri avversari erano armati di fucili, che prima d'allora non avevano mai posseduti, mentre i nostri guerrieri non possedevano che dei kampilang e delle sumpitam, ossia delle cerbottane. Non passava giorno che qualche drappello non disertasse e passasse al nemico, o ammaliato dalla presenza di quel miserabile, o corrotto con promesse d'armi da fuoco e di ricchi regali.

«Le sconfitte non tardarono a succedersi alle sconfitte, malgrado le terribili cariche guidate da mio padre, e una sera ci trovammo assediati nella kotta che serviva da capitale. Quattordici giorni durò la resistenza, poi una notte le palizzate furono abbattute ed i ribelli si scagliarono nel villaggio, cominciando una strage spaventosa. Mio padre si era ritirato entro una piccola cinta, insieme a mia madre, alle mie due sorelle, ai miei fratelli e ad un piccolo nucleo di guerrieri che erano armati di vecchi archibugi. Avevamo cinque capanne, una delle quali serviva da polveriera, avendo potuto, prima dell'assedio ottenere una ventina di libbre di polvere dal rajah di Labuk. La difesa fu solidamente organizzata, mentre attorno a noi i ribelli, ebbri di sangue e di stragi, aizzati dall'uomo bianco, trucidavano e decapitavano gli abitanti e incendiavano le capanne. Terminata la strage, si rivolsero contro di noi, credendo di averci facilmente in mano. Eravamo pochi, ma tutti valenti e ben risoluti a vendere cara la vita.

«Il primo assalto andò a vuoto. Accolti da un fuoco infernale, i dayaki nonostante gli incoraggiamenti e le promesse del bandito, si volsero in fuga, e per parecchi giorni non ritentarono un ritorno all'offesa. La presenza di mio padre, che aveva fama di essere il più famoso guerriero del Kinibalu, doveva aver molto ridotto il loro coraggio. Per tre settimane resistemmo valorosamente.

Anche mia madre e le mie sorelle avevano preso parte alla difesa, fucilando i miserabili che di quando in quando, specialmente alla notte, cercavano d'incendiare le palizzate del minuscolo fortino.

«Un giorno l'uomo bianco, disperando di prenderci colla forza, ci mandò un parlamentario, proponendo a mio padre di dividere il regno. Eravamo esausti da tante veglie ed i viveri e le munizioni cominciavano a mancare, e per di più una parte dei nostri guerrieri erano caduti sotto le palle degli avversari.

«Fu decisa la resa, per salvare almeno le donne, ed aprimmo le porte al vincitore per intavolare le trattative circa la divisione del regno. L'inglese maledetto c'invitò a un grande banchetto, e durante quello l'orrenda strage si compì. Eravamo alla fine, quando molti di quei guerrieri armati di kriss si precipitarono su di noi come belve feroci. Io ho veduto mio padre cadere sgozzato, poi mia madre, poi i miei fratelli e le mie sorelle, e ho veduto le loro teste sanguinanti piantate sulle punte delle lance... Mi avete capito?...

Mi avete capito?...» Un urlo selvaggio che pareva il ruggito d'una vera tigre malese aveva squarciato il petto di Sandokan, il formidabile pirata della Malesia, che per tanti anni aveva fatto tremare inglesi e olandesi e impallidire perfino il sultano di Varauni, il più potente del Borneo.

Si era curvato come una belva feroce colle braccia tese, il viso spaventosamente alterato da un odio impossibile a descriversi e con gli occhi fiammeggianti.

Pareva che volesse avventarsi contro qualche ombra che gli vagava dinanzi.

«Fratellino, che cosa fai?» disse Yanez, alzandosi rapidamente e posandogli una mano su una spalla.

Udendo quella voce, il pirata si era rialzato passandosi più volte le mani sulla fronte che era madida di sudore.

«Quale visione!» disse poi con voce rauca. «Mi pareva di vedermelo dinanzi... un giorno lo vedrò, oh, se lo vedrò!... E allora guai a lui e guai ai suoi figli!... Come è stato implacabile con mio padre, con mia madre, con le mie sorelle e coi miei fratelli, non sarà meno crudele con lui la Tigre della Malesia. Yanez, dammi da bere!... Tu ti ricordi quante notti ho passato nella nostra capanna di Mòmpracem, nel nostro nido d'aquila, dalla cui cima dominavamo tutto il mare che bagnava Labuan maledetta!... Quanto bevevo quelle notti? Era il ricordo della mia assassinata famiglia che mi tormentava!... Anni e anni sono passati, ed io sono sempre rimasto sordo all'urlo tremendo mandato da mio padre, nel momento in cui il kriss d'un miserabile dayako s'affondava, per ordine di quell'avventuriero, nel suo collo.

Ora basta!... Prima che la vecchiaia mi sorprenda, voglio vendicare la mia famiglia. Ah!... Lo spezzerò così!...» Aveva staccata dalla parete una carabina indiana e dopo aver appoggiata la canna ad un ginocchio, con uno sforzo erculeo l'aveva fatta saltare gettando i due pezzi a destra ed a sinistra con impeto rabbioso.

«Càlmati, fratellino» ripeté Yanez, con voce dolce.

Sandokan gli strappò quasi dalle mani la tazza che gli porgeva e la vuotò d'un fiato, come se fosse acqua.

Tremal-Naik e Kammamuri lo guardavano senza parlare, profondamente impressionati dalla terribile collera che avvampava nel cuore del fiero pirata.

«Continua» gli disse Yanez, quando gli parve che si fosse un po' calmato.

«Ero il più agile ed anche il più agguerrito dei miei fratelli» riprese Sandokan, dopo una lunga pausa. «Per istinto diffidavo, e avevo avvertito mio padre di tenersi in guardia e di non far partecipare a quel banchetto di sangue mia madre e le mie sorelle. Quando vidi i sicari del maledetto inglese precipitarsi, con urla feroci, verso la tavola, compresi subito quello che stava per accadere.

«Avevo portato con me il kampilang e un paio di pistole indiane. Vedendo mio padre cadere, feci fuoco contro gli assassini; poi estratta la pesante sciabola, m'aprii il passo a gran colpi, colla speranza almeno di giungere in tempo per salvare mia madre e le mie sorelle e di scannare il traditore. Era troppo tardi e poi dinanzi a me avevo una muraglia umana irta d'armi. Come riuscii a sfondarla e a guadagnare la foresta? Io non lo seppi mai.

«Non mi lasciarono perciò tranquillo: tutt'altro. A quel bandito era necessaria la vita della futura Tigre della Malesia, per non vedersi sorgere dinanzi, un giorno, un vendicatore degli assassinati. Fu una corsa furiosa attraverso le immense foreste dell'ovest, avendo io divisato di guadagnare le frontiere del Sultanato del Borneo, le sole che mi rimanevano aperte, poiché tutte le rive del lago ormai erano nelle mani dell'usurpatore, e tutto il settentrione mi era chiuso. Vissi come i maias, le nostre gigantesche scimmie dell'isola centrale, eseguendo sovente delle marce aeree fra gli alberi delle sconfinate selve, per far perdere le tracce ai cacciatori che m'inseguivano senza tregua, cibandomi di frutta e di radici e perfino di serpenti.

«Tre volte fui lì lì per cadere nelle mani di coloro che ferocemente m'inseguivano, come se io, invece d'un principe, fossi una belva feroce; poi la caccia cessò. Probabilmente credevano che io fossi morto di stenti in fondo alle foreste, ma s'ingannavano. Attraversai il Sultanato, scesi verso il mare, e dopo di essere diventato l'amico d'una turba di malesi, già dediti alla piccola pirateria, spiccai il volo per Mòmpracem, allora deserta. Il resto lo sapete».

Sandokan si era fermato. Il fuoco intenso che poco prima brillava nei suoi occhi, a poco a poco si era spento.

Solamente un fortissimo tremito scuoteva ancora le sue membra.

Vuotò un'altra tazza, poi, rivolgendosi a Yanez, gli disse con voce quasi calma: «La barcaccia è pronta a prendere il largo. Credi tu che i dayaki che ci hanno assaliti incrocino verso l'uscita della baia?»

«Mi pare che ne abbiano avuto abbastanza e che, se si fossero sentiti abbastanza in forze, sarebbero già venuti qui».

«Parrebbe anche a me» disse Tremal-Naik. «E poi la tua barcaccia, mio caro Sandokan, può sfidare alle corse qualunque praho e qualunque giong. Se i dayaki vorranno darci ancora la caccia li faremo correre e anche li bersaglieremo per bene. Le tue spingarde valgono come venti di quelle dei pirati».

«È mezzodì» disse la Tigre della Malesia, dopo aver guardato una superba pendola posata su una mensola d'ebano filettata d'oro. «Prima che il sole tramonti saremo nella baia di Labuk. Andiamo, amici; la barcaccia è sempre sotto pressione».

«Quando potremo essere di ritorno?» chiese Yanez.

«Domani sera saremo qui».

«I nostri uomini non correranno alcun pericolo? Tu mi hai detto che vi possono essere molti dayaki nelle foreste».

«Finché Sambigliong tiene la kotta, non ho alcun timore. È ben fortificata, e non si può prendere d'assalto quando trenta pirati di Mòmpracem la difendono.

Seguitemi: rispondo di tutto».