Sandokan alla riscossa/Capitolo III - Il ritorno alla costa

Capitolo III - Il ritorno alla costa

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Capitolo III - Il ritorno alla costa
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CAPITOLO TERZO: IL RITORNO ALLA COSTA.


La battaglia era durata più di un'ora, con rilevanti perdite da ambedue le parti e con molto spreco di munizioni.

Chi però aveva avuta la peggio, era stata la flottiglia dei dayaki, la quale aveva perduto due legni e ne aveva avuti altri quattro o cinque completamente rovinati.

Anche molti pirati erano caduti, e molti corpi umani si vedevano galleggiare intorno ai rottami, in attesa che i pescicani, sempre numerosissimi nelle acque della Malesia, andassero a divorarli.

Mentre i Tigrotti di Mòmpracem s'affrettavano a gettare in acqua i loro morti e a curare i loro feriti, Sandokan si era issato rapidamente sulla tolda dell'yacht, dove Yanez e Tremal-Naik lo aspettavano ansiosamente.

I tre formidabili uomini, che tante audacissime imprese avevano compiute insieme al Borneo e nell'India, si abbracciarono affettuosamente.

«Non credevo di vedervi così presto, miei cari amici» disse la Tigre della Malesia.

«E noi non ci aspettavamo di incontrarti qui» rispose Yanez. «Avevi udito dunque le nostre cannonate?»

«Ero stato avvertito fino dalla mezzanotte che qui si faceva fuoco. Tanto dunque è durato l'attacco?»

«Non è cominciato che all'alba» rispose Yanez. «Avevamo però fatto fuoco più volte durante la notte, per tener lontani alcuni prahos sospetti. Tu sai già come io conosco questi pirati costieri».

«E Surama?»

«Governa tranquillamente il suo Assam, adorata dal popolo e dai grandi. Ha provato un vivissimo dispiacere quando io, principe consorte, sono partito; ma come tu l'hai aiutata a conquistare il trono, io non potevo rimanere sordo alla tua chiamata e ti conduco quaranta guerrieri assamesi, scelti fra i migliori. Valgono quanto i tuoi malesi».

«Ne rispondo io» disse Tremal-Naik ridendo. «Io che sono ministro della guerra e generalissimo delle truppe».

«Mentre io sono, signor Sandokan, generalissimo di tutte le artiglierie assamesi» dichiarò una voce allegra, dietro di loro.

«Ah!... Kammamuri!...» esclamò Sandokan, stringendo la mano al fedele maharatto di Tremal-Naik. «Dove va il tuo padrone, ti si trova sempre».

«I terribili avvenimenti della Jungla Nera ci hanno legati per sempre, Tigre della Malesia» rispose il maharatto.

«Ah!... Spiegami una cosa» disse in quel momento Yanez, riaccendendo la sua sigaretta. «Tu ci avevi dato appuntamento all'isola di Gaya. Perché non hai atteso il nostro arrivo? Fortunatamente avevi presa la precauzione di lasciare delle istruzioni molto chiare per noi».

«Perché sono avvenute certe cose che potevano compromettere la riconquista del trono dei miei padri» rispose Sandokan. «Ne riparleremo più tardi.

Per il momento occupiamoci del nostro yacht, il quale non accenna a muoversi.

Toh!... E Darma? E sir Moreland?»

«Mia figlia si trova a Colnibo con suo marito» disse Tremal-Naik. «Ci hanno promesso di venirci a trovare alla corte d'Assam; è vero, Yanez?»

«E quel giorno darò fuoco al mio trono» rispose il portoghese ridendo.

«Ti annoia dunque?» chiese Sandokan.

«Se non amassi Surama, tornerei qui e lascerei volentieri l'Assam e tutti gli assamesi. Noi non siamo uomini da condurre una vita tranquilla. Siamo invecchiati fra le urla di guerra dei malesi e dei dayaki ed il fumo delle artiglierie, e rimpiango sempre Mòmpracem».

«Taci, fratellino!...» disse Sandokan, con voce rauca. «Taci!...» Una viva emozione si era dipinta sul suo maschio volto, ed aveva strette le pugna, mentre la sua fronte si offuscava.

«Mòmpracem!...» riprese poi, con un sordo singhiozzo. «Non riaprire la ferita che sanguina sempre!... Chissà però che un giorno non ripensi anche alla mia isola! Orsù, non ne parliamo: questo non è il momento».

Si passò due o tre volte una mano sulla fronte, come per scacciare dei lontani ricordi, quindi si curvò sulla murata di babordo, gridando: «Sapagar, è sotto pressione la macchina?»

«Sì, padrone».

«Prepara una gòmena, la più grossa che abbiamo. Fa' presto: i dayaki potrebbero tornare con dei rinforzi, e siamo quasi senza munizioni».

«Subito, padrone».

Indi rivoltosi a Yanez: «Hai fatto sondare l'acqua?»

«Non vi sono che tre piedi. È la sola prua che è incagliata: la poppa galleggia».

«Quando vi siete arenati?»

«Un'ora prima della mezzanotte».

«Hai mossa la zavorra?»

«Ne ho fatta portare almeno tre quintali a prora».

«Monta la marea?»

«Da un paio d'ore».

«Mi pare infatti che lo scafo provi qualche fremito. Ora vedremo» disse Sandokan. «Temo che quei maledetti dayaki riprendano il largo. Quei furfanti si rassegnano difficilmente alle sconfitte e sono eccessivamente vendicativi.

Proviamo».

Scese rapidamente la scala e balzò nella barcaccia, la quale sussultava poderosamente sotto i colpi precipitati degli stantuffi e dell'elica.

Una solida fune fu gettata dal cassero dell'yacht ed assicurata alla poppa della barcaccia, poi la macchina si mise a sbuffare fortemente e la trazione cominciò, dapprima lentamente, poi con grande impeto.

Yanez dall'alto del ponte osservava l'operazione in compagnia di Tremal-Naik e di Kammamuri.

La gòmena si era estremamente tesa, ma l'yacht resisteva alla trazione della barcaccia, quantunque i suoi uomini avessero spiegate le due rande per aiutare lo scagliamento.

A un tratto un grido s'alzò fra l'equipaggio della barcaccia. La macchina stava per vincere la resistenza delle sabbie. Si vide l'yacht dapprima piegarsi leggermente sul tribordo, poi scivolare dolcemente in mare. Ormai galleggiava perfettamente e poteva rimettersi alla vela.

«Vi sono falle a prora, Yanez?» gridò Sandokan.

«Nessuna» rispose il portoghese. «Prima che i dayaki mi assalissero avevo già fatto visitare la sentina».

«Fa' virare di bordo e seguici senza ritardi. Vedo laggiù, verso la spiaggia, radunarsi dei prahos».

«Ora non ci prendono più» osservò Yanez. «Il mio yacht è un veliero di prima forza, che può sfidare qualunque legno malese e dayako».

Soffiava sempre una leggera brezza da settentrione, brezza però sufficiente per un veliero che portava rande e controrande molto sviluppate.

In pochi istanti l'yacht virò di bordo e riprese la corsa, scortato a breve distanza dalla barcaccia a vapore e dai due prahos malesi.

Sandokan si era messo in osservazione insieme a Sapagar. Qualche cosa doveva succedere nei villaggi dayaki allineati lungo la costa e quasi per metà sepolti fra una superba vegetazione.

Si udivano delle grida acutissime scoppiare di quando in quando, in mezzo all'uno o all'altro gruppo di capanne, e si udivano anche dei colpi d'archibugio che dovevano essere certamente dei segnali.

In una profonda spaccatura della costa altri prahos si vedevano veleggiare lentamente, facendo delle strane evoluzioni, e non erano già quelli stati sconfitti poco prima, poiché non venivano da ponente.

«Qui sotto c'è la mano di quel maledetto inglese!» disse Sandokan. «Noi siamo stati ormai traditi, mio caro Sapagar, malgrado le precauzioni che abbiamo prese per conservare il nostro segreto. Sono più che certo che a quest'ora a Kinibalu si conosce la nostra avanzata».

«Eppure Nasumbata l'abbiamo catturato» rispose il malese.

«Forse siamo giunti troppo tardi. Prima che possiamo giungere al lago ne avremo da passare molte. Bah!... Siamo in buon numero, e le armi e le munizioni non ci mancano. Ai suoi dayaki di terra noi opporremo i nostri dayaki di mare di Tiga ed i nostri malesi in compagnia dei guerrieri di Yanez. La vedremo!...» Si sedette sulla spingarda di babordo, trasse il suo scibouk, lo riempì, e, dopo averlo acceso, si mise a fumare placidamente.

Yanez, a poppa del suo yacht, fumava dal canto suo la sua eterna sigaretta, senza preoccuparsi, a quanto pareva, dei dayaki che durante la notte gli avevano dato tanto da fare.

A mezzogiorno la barcaccia e l'yacht giungevano all'ancoraggio situato all'estremità meridionale della baia di Maludu.

Affondate le àncore e messe in mare le scialuppe, gli equipaggi sbarcarono dinanzi ad una dozzina di capanne costruite alla meglio con rami e foglie di banani e di palme.

Sandokan, Yanez, Tremal-Naik e Kammamuri andarono a occupare la più vasta, la quale era guardata da un drappello di malesi formidabilmente armati.

Nell'interno, su un mucchio di foglie secche, stava steso Nasumbata, colle mani legate e la gamba ferita accuratamente fasciata.

«Chi è quest'uomo?» chiese Yanez, osservandolo attentamente.

«Quello che mi ha tradito e che mi ha obbligato a salpare da Tiga senza attendere il tuo arrivo» rispose Sandokan.

«Come!... Vi sono dei traditori fra i tuoi uomini?»

«Non è uno dei vecchi Tigrotti di Mòmpracem».

«Infatti non l'ho mai veduto prima d'ora».

«Facciamo colazione per ora; poi ci occuperemo di quest'uomo».

In mezzo alla capanna era stata stesa una bellissima stuoia gaiamente variopinta, formata di foglioline e di fibre di rotang, con intorno alcuni cuscini di seta rossa.

Sandokan batté le mani, e Sapagar fu pronto a comparire, seguito da alcuni malesi, i quali portavano dei superbi pesci arrostiti, dei biscotti e delle bottiglie.

«Vi offro tutto ciò che in questo momento posseggo» disse la Tigre della Malesia. «Siamo a corto di viveri».

«E noi non meno di te» disse Tremal-Naik. «Il nostro viaggio è durato più di quanto credevamo. L'India non è vicina al Borneo».

«Vi siete imbarcati a Calcutta?»

«Sì, Sandokan» rispose Yanez. «E se la traversata non è stata tempestosa, però è durata molto».

«Dove avete acquistato l'yacht?»

«A Rangoon, per non destare sospetti alle autorità inglesi».

«Fate onore alla colazione. Se non è varia, è per lo meno abbondante».

Il pasto fu divorato in pochi minuti e copiosamente innaffiato con eccellenti bottiglie che erano state sbarcate dall'yacht.

Stavano accendendo le pipe e le sigarette, quando entrò Sambigliong, il vecchio Tigrotto di Mòmpracem, salutato giocondamente da Yanez, da Tremal-Naik e da Kammamuri.

«Quali nuove?» chiese Sandokan, il quale era diventato improvvisamente inquieto.

«Durante la vostra assenza sono avvenute delle cose che io non sono riuscito a spiegare».

«Ti hanno mangiato qualche mezza dozzina d'uomini?» chiese Yanez, scherzando. «Tu sai che i dayaki dell'interno, oltre ad essere dei terribili collezionisti di teste umane, non sdegnano nemmeno le bistecche dei loro nemici».

«I miei malesi non hanno veduto ancora alcun antropofago» rispose Sambigliong.

«Spiègati meglio, dunque» disse Sandokan.

«Nella foresta che si estende dietro la kotta, abbiamo udito, per ben tre volte, un rullo prolungato. Se fossi ancora nell'India, direi che delle persone suonavano qualche enorme hauk».

«È tutto qui?» chiese Yanez. «Potevi mandare a quei suonatori qualche bottiglia perché riprendessero un po' di forza».

«Vi è qualcos'altro ancora, signor Yanez».

«Hai veduto il diavolo, allora».

«Non scherzare, fratellino» disse Sandokan. «Noi non sappiamo ancora quali sorprese ci prepara quel cane d'avventuriero che da quindici anni siede sul trono dei miei avi. Continua, vecchio Sambigliong».

«Verso l'alba, quando i miei uomini, dopo d'aver disposte parecchie sentinelle sulle palizzate della kotta, si preparavano a prendere un po' di riposo, parve che un uragano violentissimo si scatenasse nella foresta. Si udivano dei fragori spaventosi, che parevano prodotti dal precipitare d'un numero infinito di piante, mentre fra le fitte reti dei rotang e dei nepentes brillavano delle luci fugaci».

«Era calmo il tempo?»

«Calmissimo, padrone: la tempesta era completamente cessata e non vi era più una nube in cielo».

«Hai udito nessun colpo di fucile?» chiese Tremal-Naik.

«Nessuno».

«E grida umane?» domandò Sandokan.

«Nemmeno».

«Era una serenata di nuovo genere» disse Yanez, riaccendendo una sigaretta ed empiendosi un bicchiere.

«I prigionieri sono rimasti tranquilli?» riprese Sandokan, dopo un breve silenzio.

«Non si sono mossi. Mi sono provato ad interrogarli e mi hanno tutti risposto di non aver udito nulla».

«Prendi con te altri venti uomini, fa' sbarcare un paio di spingarde dai nostri prahos e ritorna alla kotta» disse la Tigre della Malesia. «Quella piccola ma salda fortezza ci è assolutamente necessaria».

«E dei prigionieri che cosa ne devo fare?»

«Per ora sorvegliali strettamente, e bada che nessuno fugga, quantunque ormai sono sicuro che il rajah di Kinibalu sappia tutto. Ed ora occupiamoci di questo caro Nasumbata. Io credo, Kammamuri, che tu avrai da lavorare. Sei sempre stato famoso per costringere i prigionieri a parlare».

«Non sarei un maharatto» rispose l'indiano con un sorriso crudele.

«Ci hai date abbastanza prove in India della tua valentia» disse Yanez.

«Potrebbe dirne qualche cosa quel povero ministro assamese che abbiamo rapito».

Si erano seduti intorno a Nasumbata continuando a fumare.

Il disgraziato era rimasto silenzioso, quantunque avesse udito tutto, essendogli la lingua malese, che ormai anche Tremal-Naik e Kammamuri parlavano correntemente, non meno familiare della dayaka.

I suoi occhi però irrequieti si erano fissati con una certa angoscia sulla Tigre della Malesia.

«Sei disposto a confessare?» gli chiese Sandokan. «Ti avverto che vi è qui un uomo che ti farà parlare egualmente e che vincerà facilmente la tua ostinazione».

«Quello che sapevo te l'ho già detto, signore» rispose il dayako. «Io ho lasciato la tua isola, perché ero stato preso da un desiderio strapotente di rivedere il mio villaggio ed i miei compatrioti dell'interno».

«Me lo hai detto già, ma nemmeno ora sarò così sciocco da crederti. È ben altro quello che noi vogliamo sapere, mio caro, se non vorrai provare i morsi del fuoco o dell'acciaio, o scoppiare col ventre pieno d'acqua. Se vorrai, ti lasceremo la scelta».

«Come vedi il mio amico Sandokan è generoso» disse Yanez ironicamente.

«Orsù, snoda la lingua, prima di farci perdere la pazienza».

«Io non ho mai veduto il rajah del lago» dichiarò il ferito. «Ve lo giuro su tutte le divinità delle foreste».

«Allora avrai veduto qualche suo messo» disse Sandokan.

«No, nemmeno quello».

«Kammamuri, quest'uomo non vuole sciogliere la lingua. Lo mettiamo nelle tue mani».

«Padrone» osservò il maharatto rivolgendosi a Tremal-Naik. «Ti ricordi di Manciàdi, quello che abbiamo fatto urlare nella Jungla Nera? Anche quello non voleva decidersi a parlare, eppure come urlava quando il fuoco arrosolava i suoi piedi!...»

«Fa' come vuoi!» rispose l'indiano.

Il maharatto afferrò il ferito per le braccia, e lo trascinò in un angolo della capanna coprendogli i piedi di foglie secche.

«Che cosa fate?» chiese il disgraziato, il quale faceva degli sforzi prodigiosi per soffocare il dolore causatogli dalla ferita.

«Ti brucio le gambe!» rispose freddamente il maharatto. «Così la tua ferita si rimarginerà più presto».

Aveva già acceso uno zolfanello e si preparava a dar fuoco alle foglie, quando il dayako con un grido lo trattenne.

«No!... No!...» esclamò poi. «Mi rovinereste per tutta la vita».

«Parlerai dunque?» gli chiese Sandokan.

«Sì, signore».

«E confesserai tutto?»

«Tutto».

«È dunque il rajah del lago che ti ha pagato per tradire i miei segreti?»

«Non lo nego più».

«Kammamuri, versagli un bicchiere di gin perché prenda un po' di forza».

Il maharatto gettò via lo zolfanello e fu pronto ad obbedire.

Quando Nasumbata lo ebbe vuotato, si fece appoggiare contro la parete della capanna, mentre Sandokan e i suoi compagni tornavano a circondarlo, per non perdere una sola parola della sua confessione.