Saggio sulla rivoluzione/Testamento politico di Carlo Pisacane
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TESTAMENTO POLITICO
DI
CARLO PISACANE
Nel momento d’imprendere un’arrischiata impresa, voglio manifestare al paese le mie opinioni, onde rimbeccare la critica del volgo, corrivo sempre ad applaudire i fortunati e maledire i vinti.
I miei principî politici sono abbastanza noti; io credo che il solo socialismo, ma non già i sistemi francesi informati tutti da quell’idea monarchica e dispotica che predomina nella nazione, ma il socialismo espresso dalla formola: Libertà ed Associazione, sia il solo avvenire non lontano dell’Italia, e forse dell’Europa: questa mia idea l’ho espressa in due volumi, frutti di circa sei anni di studio; non condotti a forbitura di stile per mancanza di tempo, ma se qualche mio amico volesse supplire a questo difetto e pubblicarli, gliene sarei gratissimo. Sono convinto che le ferrovie, i telegrafi, il miglioramento dell’industria, la facilità del commercio, le macchine ecc. ecc., per una legge economica e fatale, finchè il riparto del prodotto è fatto dalla concorrenza, accrescono questo prodotto, ma l’accumulano sempre in ristrettissime mani, ed immiseriscono la moltitudine; epperciò questo vantato progresso non è che regresso: e se vuole considerarsi come progresso, lo si deve nel senso che accrescendo i mali della plebe, la sospingerà ad una terribile rivoluzione, la quale, cangiando d’un tratto tutti gli ordinamenti sociali, volgerà a profitto di tutti, quello che ora è volto a profitto di pochi. Sono convinto che l’Italia sarà libera e grande oppure schiava: sono convinto che i rimedii necessari come il reggimento costituzionale, la Lombardia, il Piemonte, ecc., ben lungi dall’avvicinarla al suo risorgimento, ne l’allontanano; per me, non farei il menomo sacrificio per cangiare un Ministro, per ottenere una costituzione, nemmeno per cacciare gli Austriaci dalla Lombardia ed accrescere il regno Sardo: per me dominio di Casa Savoia e dominio di Casa d’Austria è precisamente lo stesso. Credo eziandio che il reggimento costituzionale del Piemonte sia più dannoso all’Italia che la tirannide di Ferdinando II. Credo fermamente che se il Piemonte fosse stato retto nella guisa medesima degli altri stati italiani, la rivoluzione sarebbe fatta. Questo mio convincimento emerge dall’altro che la propaganda dell’idea è una chimera, che l’educazione del popolo è un assurdo. Le idee risultano dai fatti, non questi da quelle, ed il popolo non sarà libero quando sarà educato, ma sarà educato quando sarà libero. Che la sola opera che può fare un cittadino per giovare al paese è quella di cooperare alla rivoluzione materiale, epperò cospirazioni, congiure, tentativi, ecc. sono quella serie di fatti attraverso cui l’Italia procede verso la sua meta. Il lampo della baionetta di Milano fu una propaganda più efficace di mille volumi scritti dai dotrinarì, che sono la vera peste del nostro, come di ogni paese.
Alcuni dicono che la rivoluzione deve farla il paese: ciò è incontestabile. Ma il paese è composto d’individui, e poniamo il caso che tutti aspettassero questo giorno senza congiurare, la rivoluzione non scoppierebbe mai; invece se tutti dicessero: la rivoluzione dee farla il paese, di cui io sono una particella infinitesimale, epperò ho anche la mia parte infinitesimale da compiere, e la compio, la rivoluzione sarebbe immediatamente gigante. Si potrà dissentire dal modo, dal luogo, dal tempo di una congiura, ma dissentire dal principio è assurdo, è ipocrisia, è nascondere un basso egoismo. Stimo colui che approva il congiurare e non congiura egli stesso: ma non sento che disprezzo per coloro i quali non solo non vogliono far nulla, ma si compiacciono nel biasimare e maledire coloro che fanno. Cotali principii avrei creduto mancare ad un sacro dovere, se vedendo la possibilità di tentare un colpo in un punto, in un luogo, in un tempo opportunissimo, non avessi impiegato tutta l’opera mia per mandarlo ad effetto. Io non ispero, come alcuni oziosi mi dicono per schermirsi, di essere il salvatore della patria. No: io sono convinto che nel Sud la rivoluzione morale esista: sono convinto che un impulso gagliardo può sospingerli al moto, epperò il mio scopo, i miei sforzi sonosi rivolti a mandare a compimento una congiura la quale dia un tale impulso: giunto al luogo dello sbarco, che sarà Sapri nel principato citeriore, per me è la vittoria dovessi anche perire sul patibolo. Io individuo, con la cooperazione di tanti generosi, non posso che far questo e lo faccio: il resto dipende dal paese e non da me. Non ho che i miei affetti e la mia vita da sagrificare a tale scopo e non dubito di farlo. Sono persuaso che se l’impresa riesce, avrò il plauso universale: se fallisce il biasimo di tutti: mi diranno stolto, ambizioso, turbolento, e molti, che mai nulla fanno e passano la vita censurando gli altri, esamineranno minutamente la cosa, porranno a nudo i miei errori, mi daranno la colpa di non essere riuscito per difetto di mente, di cuore, di energia... ma costoro sappiano che io li credo non solo incapaci di far quello che io ho tentato, ma incapaci di pensarlo. A coloro poi che diranno l’impresa impossibile, perchè non è riuscita, rispondo, che simili imprese se avessero l’approvazione universale non sarebbero che volgari. Fu detto folle colui che fece in America il primo battello a vapore; si dimostrava più tardi l’impossibilità di traversare l’Atlantico con essi. Era folle il nostro Colombo prima di scoprire l’America, ed il volgo avrebbe detto stolti ed incapaci Annibale e Napoleone, se fossero periti nel viaggio, o l’uno fosse stato battuto alla Trebbia, e l’altro a Marengo.
Non voglio paragonare la mia impresa a quelle, ma essa ha un testo comune con esse; la disapprovazione universale prima di riuscire e dopo il disastro, e l’ammirazione dopo un felice risultamento. Se Napoleone, prima di partire dall’Elba per isbarcare a Frèjus con 50 granatieri, avesse chiesto consiglio altrui, tutti avrebbero disapprovato una tale idea. Napoleone aveva il prestigio del suo nome; io porto sulla bandiera quanti affetti e quante speranze ha con sè la rivoluzione italiana; combattono a mio favore tutti i dolori e tutte le miserie della nazione italiana.
Riassumo: se non riesco, dispregio profondamente l’ignobile volgo che mi condanna, ed apprezzo poco il suo plauso in caso di riuscita. Tutta la mia ambizione, tutto il mio premio lo trovo nel fondo della mia coscienza, e nel cuore di quei cari e generosi amici che hanno cooperato e diviso i miei palpiti e le mie speranze; e se mai nessun bene frutterà all’Italia il nostro sagrificio, sarà sempre una gloria trovar gente che volonterosa s’immola al suo avvenire.
- Genova, 24 Giugno 1857.
Sottoscritto, Carlo Pisacane.