Saggio di racconti/XI/VII
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ossia l’Adolescenza d’un Artista nel secolo XVI
Una sollevazione
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Nel tempo che i giovani artefici quetamente si adoperavano per divenire abili nelle loro professioni, il popolo fiorentino correva nuovi e gravi pericoli. La repubblica era vicina a perdere la sua libertà; e le arti dovevano riportarne tanto nocumento, da rimaner trattenute nei loro progressi, e da ridursi a poco per volta in istato umile e servile.
I Medici, odiati dalla maggior parte dei cittadini, si studiavano sempre più di corrompere con l’oro e con gli artifizi i partiti contrarj, di aumentare le discordie, di spargere la diffidenza, di valersi degli aiuti stranieri per reggersi nel potere ormai vacillante; e le universali condizioni dell’Italia divennero a un tratto tanto infelici, da far temere prossime le calamità che poi le cagionarono tanto danno. Tutti vivevano in angustie e in sospetti; erano riaccesi gli sdegni; chi macchinava in segreto, chi minacciava apertamente; e tanto i cittadini più autorevoli quanto i magistrati, vedevano imminente il pericolo, e non erano d’accordo sui modi di rimediarvi.
Due eserciti, uno amico e l’altro nemico, ma ambedue temibili1, composti nella maggior parte di gente straniera e prezzolata, più avida di predare le ricche terre d’Italia che di combattere per giuste ragioni, ogni dì minacciavano gli estremi guai di una guerra disperata.
Quand’ecco il 26 d’Aprile 1527 correr voce, i due giovani Medici insieme col Cardinal Passerini di Cortona, lasciato da Clemente VII come loro tutore e governator di Firenze in nome suo, essere improvvisamente fuggiti per timore dalla città. E infatti erano andati a Castello nella villa di Cosimo, benchè per motivo di verso; ma una volta sparsasi quella voce, il popolo non ebbe più alcun ritegno. Si levò a rumore e corse fuora coll’arme; le compagnie degli artigiani si adunarono sotto i loro gonfaloni; furono chiuse le botteghe; i giovani più arditi si spinsero innanzi; tutti corsero tumultuosamente in piazza; e gridando popolo e libertà, presero subito senza contrasto il palazzo dei Signori. V’erano dugento archibusieri comandati da Bernardino da Montauto per guardare il palazzo a’ Medici, e avevano già abbassati gli archibusi contro la moltitudine; ma Niccolò Capponi, autorevole cittadino, impose loro di rialzarli, ed essi, che ben sapevano esser vano ogni sforzo contro la furia del popolo, subito gli rialzarono e pensarono come più poterono a salvarsi la vita.
Il palazzo era già pieno di cittadini e in mano del popolo; la Signoria, benchè tutta dalla parte dei Medici, dovè obbedire ai voleri della moltitudine; dichiarar tosto ribelli i Medici, e per la terza volta bandirli. Furono aperte le carceri ai prigionieri di stato; richiamati i fuorusciti; e suonando a distesa la campana del popolo, fu proclamato il ristabilimento della repubblica.
Saputo il fatto improvviso dai Medici e dai loro aderenti, si apparecchiarono a tornare in Firenze, a ritogliere al popolo il perduto governo, e si fecero precedere da una fiorita banda di più che mille soldati dell’esercito della lega. Costoro si spinsero subito innanzi a riconquistare la piazza, di dove il popolo sorpreso dall’arrivo improvviso di tante forze si ritirò senza combattere. Ma i cittadini che erano già nel palazzo cominciarono gagliardamente a difendersi. Non avevano essi che poche armi e pochissime munizioni; ma sparando alcune archibusate dalle finestre, ferirono alquanti soldati e uccisero un banderaio. Allora i soldati si ristrinsero insieme, e pensando di dover essere meno offesi e di potere sforzare la porta, corsero in furia all’entrata principale. Quivi con le picche tutti insieme puntando con grand’impeto la scotevano e la facevano scostare più che mezzo braccio dalla soglia. Parte dei difensori la sorreggevano di dentro, e parte di sul ballatoio e dalle finestre gettavano sui soldati quanti sassi, legni e pezzi di tegoli potevano. Ma poi non avendo altro da avventare, e i soldati soverchiando con le loro forze la resistenza dei difensori, erano quasi pervenuti ad atterrare la porta ed a ripigliare il palazzo. In questo mentre Jacopo Nardi, confortati i compagni a sostenere ancora un poco l’impeto dei nemici, salì di sopra, e a coloro che smarriti e disperati erano mostrò un gran numero di pietre a guisa di muriccioli ammassate e di fuori incalcinate e arricciate che non si vedevano; e poi fatti rompere i lastroni i quali a modo di lapide di avelli ricoprivano e tenevano turate le buche de’ piombatoi, disse, che il palazzo i padri e la patria difendessero di forza; ed essi a gara l’uno dell’altro tante pietre e così grosse cominciarono giù sopra la porta a scagliare, che, i soldati furono di subitamente ritirarsi costretti, non solo dalla porta dinanzi, ma ancora da quella del fianco verso il canto degli Antellesi, alla quale di già appiccavano il fuoco2. Così la prudenza e l’animosità del Nardi salvarono i cittadini dalla morte, le loro case dal saccheggio e la città dall’estrema rovina; e sebbene fossero venute dal campo artiglierie e altri soldati, e fosse in armi tutta la fazione dei Medici per riprendere il palazzo, nonostante i capitani, temendo l’avvicinarsi della notte e lo sdegno delle famiglie degli assediati, offersero capitolazione a quei di dentro, col patto di lasciarli uscir liberi e di dimenticare le offese da ambe le parti. E così fu fatto, rimanendo per poco sospesa e non impedita la terza cacciata dei Medici.
Note
- ↑ L’esercito della lega tra il Re di Francia, il Papa, i Fiorentini e i Veneziani, contro l’Imperatore Carlo V — «Lasciamo stare l’esercito della lega, il quale era sotto le mura, e non agognava meno di saccheggiar Firenze che i Tedeschi e gli Spagnuoli (di Carlo V) si facessero.» Varchi Lib. III.
- ↑ Varchi Lib. II.