Saggi critici/Lavori da scuola
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LAVORI DA SCUOLA
— Che lavori hai fatto finora? — , domandavo io a uno tra i primi discepoli capitatimi a Torino. Ed egli, per darmene un saggio, me ne citò tra gli altri uno su questo argomento: «Roma che parla a Cesare nel passare ch’egli fa il Rubicone». Misericordia! Ricordaimi che in alcune scuole di Napoli si soleva pur fare cosí, e dissi tra me e me: — Tutto il mondo è paese! — . Nondimeno, è giá qualche tempo che da’ piú sono posti in bando questi temi retorici, caduti in discredito, fatti segno al ridicolo; e predicare oggi contro le declamazioni retoriche mi sembra una vera declamazione. Il pericolo non è piú nella retorica, ma nel rimedio contrapposto da alcuni, che è anch’esso un male. Si davano de’ temi astratti, indeterminati, senza contorni, senza determinazioni di luogo e di tempo: e costoro ti vengono innanzi ora con sotto il braccio un trattato di storia naturale o di botanica o di geografia. Una volta do a descrivere i giardini pubblici di Torino; ed uno mi parla di nord e di sud, ed un altro dell’erba tale e dell’albero tale: la scuola aveva in loro instillata un’anima artificiale. L’anima del giovane è cosí espansiva! Innanzi allo spettacolo della natura tante immagini, tanti sentimenti si affollano avanti! Oibò: uccidete tutto questo, e parlatemi di nord e di sud. Prima si voleva ne’ componimenti un certo calore fattizio, il quale, poiché non veniva dal cuore, era tutto nelle parole: apostrofi, epifonemi, ipotiposi, esclamazioni, interrogazioni; e costoro richiedono al contrario una tematica precisione. La retorica esagerava le passioni: bando alle passioni! La retorica accumulava le immagini: bando alla fantasia! La retorica colorava di un falso colore poetico la vita reale: bando alla poesia! Fanciulli di tredici anni ti ragionano gravemente di Aristotele e di Platone, e non ti scrivono una lettera, che, con sussiego dottorale, non ti discorrano del governo della famiglia e de’ doveri del padre e del maestro e del discepolo; e non ti fanno un racconto, che ben ti piantino tosto a mezza via, per isciorinarti una lezione di morale. Eccoci in un esame: con che par d’occhi i padri pendono da quelle dotte labricciuole, da cui sgorgano fiumi di sapienza; con qual sorriso essi li guardano, que’ cari figlioletti, che ti sputano più sentenze che non tutti e sette insieme i savi della Grecia! Sono orologi caricati dal maestro; son cavalli addestrati, che ti danzano un «valzer» e ti fanno un inchino: pappagalli imberbi, destinati ad essere un giorno con tanto di barba i piú gran seccatori di questo mondo.
Che fanno costoro? Per coltivare l’intelligenza inaridiscono il cuore, agghiacciano la fantasia, contraffanno alle tendenze naturali di quell’etá, cancellano e guastano tutto ciò che nell’anima ci è di spontaneo e di natio. Leggevo ad una giovinetta l’episodio di Cloridano e Medoro. Mi ricordo che quante volte ho letto, in mezzo a un gran numero di giovani, questo luogo dell’Ariosto, giunto a’ due versi:
Ma come gli occhi a quel bel volto mise, Glie ne venne pietade, e non l’uccise, |
si è destato nell’uditorio un fremito irresistibile: cosí è ben preparato l’effetto: tanto vi è di veritá e di semplicitá insieme. Ebbene, guardai in viso alla fanciulla: era marmorea. Le domandai che cosa gliene parea. Impacciata, mi rispose non sapere che specie di moralitá’ si poteva cavare da questi due versi, — se non che forse questa, aggiunse dopo una pausa, che bisognava essere bello per ispirare pietá — . Insistei, e alfine vi confessò non saper trovare alcuna specie di bellezza in questi versi, perché non vi era nessuna frase. Questa povera giovine è un’algebra vivente, arida come una pomice; ad una bella descrizione, ad un racconto pietoso de’ nostri scrittori tu ti scaldi, ti commovi, la ti fa gli occhioni, non ti comprende. Qual sia il lavoro a cui ponga mano, lettera, dialogo, descrizione, racconto, gira e gira, va a dar di naso nella dissertazione. Ti deve rappresentare una persona addolorata? La ti dimostra che il dolore è giusto o ingiusto. Dee scrivere una lettera di ringraziamento? È una tesi sul debito della gratitudine. — Carina, fammi una lettera a tuo padre per augurargli il buon capo d’anno. — Ed ella giá volge in mente tre o quattro sentenze sull’amor filiale. Ha il cuore nel cervello; i suoi sentimenti, le sue immagini sono in lei niente di vivo ed operoso, ma morte astrazioni; dipingimi un uomo irato, ed ella ti dice che cosa è l’ira e quali sono i suoi caratteri. La sua mente è un vasto repertorio di definizioni, divisioni e suddivisioni, generi e specie; sembra un miracolo agli sciocchi; per gl’intendenti è una mente guasta, a cui non solo manca il senso del bello, ma del vero. E l’ha guasta la scuola. In luogo di abbandonarsi al suo senso immediato, alla sua impressione diretta, le hanno fatto prendere il mal vezzo di analizzare, smembrare tutto ciò che vede o legge, e tutto ridurre a definizioni, a principii morali, a frasi; metodo artificiale, che incadaverisce la natura e la scinde in frammenti anatomici. I suoi pensieri, quando non sono luoghi comuni, sono sottigliezze, poiché, in cambio di porsi in diretta comunicazione con gli oggetti, se ne sta a distanza, come fossero peste, e non pensa a quelli, ma alle sentenze ed a’ concetti che se ne potrebbero cavare. Leggete quei due versi dell’Ariosto a chi che vi vogliate, e tosto alla sua mente si presenterá cosí vivamente in quella pietosa attitudine Medoro, che ne sará commosso. Costei vi andava pescando le frasi e la moralitá!
Pietro Thouar è tra quelli che meglio hanno studiata e compresa questa quistione. Leggete le sue Letture di famiglia, e non potete tenervi dal dire: — Ecco un uomo onesto; ecco un uomo che ha cuore — . Con che amore lavora in prò della gioventú, e con che intelligenza! Egli ha compreso che non bisogna andare a ritroso della natura; che ai giovanetti piace l’udir racconti, e che il farne torna loro dilettevole e facile. I fatti ti danno essi stessi il filo; s’indirizzano a tutte le facoltá dello spirito, ti presentano non vuote astrazioni, ma la vita nella sua pienezza, nella sua veritá. Sono noti i racconti che egli ha fatti per esercizio della gioventú, maravigliosi per freschezza di lingua, non di rado affettuosi. E dove i giovani possano giungere in un genere di scrivere cosí conforme allo stato del loro spirito, lo ha dimostrato egli, riportando nelle sue Letture di famiglia, il racconto di una giovanetta, scritto con grazia, con ordine, con semplicitá.
Ne addurrò io un altro esempio. In queste sue Letture vi ha alcuni brevi racconti, da cui si possono cavare eccellenti temi per lavori da scuola. Ne lessi uno; lo spiegai a questa giovinetta; cercai di farle comprendere i caratteri, gli affetti, di scaldarla, di commuoverla. Ohimè! il racconto riuscí in una lunga filatessa o predica che pose in bocca a una madre confortante le figliuole a virtú: le sentenze, i precetti s’incalzavano, si succedevano a non finirla mai: immaginatevi una specie di donna Prassede, che fa la lezione a Lucia con quel successo che sapete. Diedi lo stesso argomento a un’altra.
Costei mi capitò che da lungo tempo non andava piú a scuola; la sua educazione era stata trascurata, ma non guasta. Non intendo con questo di censurare le scuole, né di alludere piú a questa che a quella; ma credo non disutile combattere questo falso indirizzo, dovunque si trovi. Con lei non perdei le mie fatiche. Facilmente si annoiava; di grammatica non voleva sentir parola; aveva in orrore l’ortografia; non le son potuti entrare mai in capo i punti e le virgole, tanto meno il famoso punto e virgola, il ponte dell’asino per i ragazzi; la inseguivano ancora certe reminiscenze di studi seccanti e mal fatti, ch’ella, dopo lungo tempo di disgusto e di ozio, ripigliava a malincuore. Lasciai stare grammatica, ortografia, analisi e frasi e incisi e membri e periodi e proposizioni condizionali e aggiuntive e disgiuntive, e tutto il solito corredo: le posi in mano il Manzoni. Questa lettura la trasformò; la lezione divenne per lei una festa. Come stava attenta! Con che ardente curiositá mi guardava, quasi dal muovere delle labbra volesse indovinare le parole, coglierle essa a volo, compiere essa la frase! Sulla sua fisonomia mobile si riflettevano tutti i sentimenti, tutti gli affetti: ciò che era bello, le faceva una impressione istantanea, che leggevo nei gesti, negli occhi, nel sorriso, senza che ella se ne accorgesse. In breve fui a tale, che potei rappaciarla con la grammatica, con l’analisi, con le frasi, e fino con i terribili punti e virgole: faceva tutto questo, se non con piacere, con pazienza. Vo’ riportare il suo lavoro, perché, insieme con quello pubblicato dal Thouar, può far fede a quale alto segno possa arrivare ima giovane mente, quando è messa per la buona via. Un amico mi sussurra all’orecchio: — Non fare; ti si recherá a vanitá: sarai rassomigliato a certi spacciatori di ricette che empiono di annunzi tutti i fogli, pubblicando a suon di tromba le loro cure maravigliose — . Eh, mio Dio! facciamo ciò che il dovere ci detta, facciamolo con serietá, con buona intenzione, e lasciamo dire. Ecco il lavoro:
Le due fanciulle
V’erano due fanciulle, Lisa ed Amalia, la prima di una rara bellezza. Il capo ornato aveva di neri capelli; due occhietti negri e furbetti sfavillavano in mezzo a quel bel viso. Il suo frequente sorriso, cagionato in parte da un intimo senso, che l’avvertiva di essere cosí piú bella, faceva sí che piaceva a tutti. Amalia invece era venuta quasi deforme per una malattia, e naturalmente chiunque veduto avesse le due sorelline, della prima sola si maravigliava, e ad essa sola porgeva lode. Del qual trionfo s’avvedeva benissimo la bricconcella, e diveniva vanerella anzi che no, capricciosa, stizzosa con le sue compagne, e faceva dispetti a tutti quelli che non voleano sottoporsi ai suoi capricci. Allora il padre prendendola sulle ginocchia le diceva: — Lisetta mia, bisogna essere piú buona, studiare le lezioni, e non perdere cosí il tempo; e tutti diranno: è bella ed è anche buona Lisetta. Se tu invece séguiti ad essere cosí cattiva, diverrai brutta brutta — . Lisa, a cui la sua piccola malizia non permetteva di credere che la malignitá facesse imbruttire, a questo non rispondeva niente, ma per i rimproveri fattile aveva sempre a mano delle scuse da mettere avanti, ed aveva tanta grazia nel dirle, che il buon genitore guardava Lisa, e si stringeva nelle spalle, dicendosi: — Se séguita cosí, non so cosa faremo di questa cattivella — .
Amalia non era bella della persona, ma di tanto piú buona e studiosa; e bastava che la madre le dicesse: — Questo non istá bene — , ed ella smetteva subito; sicché era voluta bene da tutti. Lisa sentiva una certa invidietta contro la sorella, e, per isfogare la sua stizza, la strapazzava e le faceva dispetti a piú non posso. Molto si affaticava la madre ad emendare la cattiva natura di Lisa, ma tutto era indarno. Se la sgridava, diveniva rossa, piangeva, chiedeva perdono, prometteva, ma poi piú facilmente dimenticava.
Un giorno la madre comprò due scatolette, una dorata e l’altra di rozzo legno. Lisa, vedendo i due balocchi, battendo le manine, si precipitò verso il piú bello, gridando: — A me, a me, quello: oh! la bella scatola! la voglio per me; dámmela presto — ; e tripudiava dalla contentezza. La madre gliela diede, e porse l’altra ad Amalia, che anch’essa, tutta lieta del dono, saltellava per la camera. La madre se ne andò, e le due sorelle volgevano e rivolgevano fra le manine la loro scatoletta. Lisa, — la voglio far vedere alle mie compagne, diceva; esse non hanno mai avuto una sí bella scatola, e si che avranno la rabbia, ed io ci avrò gusto. Guarda, com’è bella! è d’oro, sai!— ; e cantarellando ripeteva: — Una scatola d’oro! ah che piacere! — .
Amalia guardava la sua ch’era di legno, ed abbassava il capo, ma il suo coricino non era capace d’invidia, e tosto si rasserenava e diceva: — Anche la mia è bella, veh!, quantunque non sia rilucente come la tua — . E Lisa rispondeva: — Si, ma la mia è piú bella — ; e metteva la sua scatola vicino a quella della sorella, come per fare spiccar meglio la differenza. Amalia, che, quantunque buona, sentiva nel cuor suo per la differenza della scatola qualche cosa che si approssimava ad un certo dispettuzzo, disse: — Guardiamo che cosa c’è dentro? — Guardiamo, — rispose l’altra; e si misero ambedue ad aprire. Amalia, battendo le mani per la non dispiacevole sorpresa, gridò: — Guarda, guarda che bei confetti! — . Lisa guardò nella sua, ma vi trovò dei cannelli di brace. Dapprima non arrivava a capire che cosa erano; li guardò ben bene, e non prestava fede agli occhi suoi: le pareva e non le pareva, e per assicurarsi meglio ne mise uno in bocca; non ci era piú dubbio: erano carboni. Allora il gittar la scatola lungi, il pestar de’ piedi, e il prendersela colla madre e con la sorella fu l’affare di un momento. Ma la buona Amalia, che ad onta della malignitá della sorella le voleva il meglio del mondo, corse tosto a prendere la scatola, e con garbo gliela porgeva, dicendole: — La mamma dice che è cosa brutta il far delle bizze: prendi subito la tua scatola, prima che la ti senta; se no, ti sgriderá. Se vuoi de’ confetti, io te ne do, purché tu sii buona, che non piangi piú — . Lisa si rappattumò presto colla sorella, la quale le versò gran parte delle elettissime confetture; ma colla madre era ben altro affare: a parer suo lo scherzo era troppo grosso, e non si poteva perdonare cosí su due piedi. In quella entrò la madre, che aveva tutto veduto e sentito, e prese per mano Lisa, dicendole: — Tn quella scatola ravvisa te stessa: la è cosí bella al di fuori, e che ci è entro? Carboni. Sei bella, ma sappi che la bellezza è repente e veloce, piú fuggevole che non sieno i fiori che sbucciano in primavera. La bellezza è un nulla se non è unita ad un animo adorno di virtú: una malattia può tôrre ad una giovinetta la bellezza del corpo, e quella dell’animo nessuna cosa può toglierla — .
Da quel giorno in poi la virtú fece nel cuore della Lisa tanto progresso, che in poco di tempo non solo veniva lodata per la sua bellezza, ma ancora per la sua bontá.
L’argomento e lo scheletro di questo lavoro si trova, come ho detto, nel Thouar: la prima giovinetta ne aveva fatta una caricatura morale, una lunga predica di un non so chi a un non so chi; costei ne ha fatta una rappresentazione piena di veritá e di vita. Ben vi era qualche erroruzzo di grammatica, qualche scorso di ortografia, che ho corretto; soprattutto non si era ancora riconciliata coi punti e le virgole. L’improprietá di certe frasi e l’ostentazione di certe altre, un cumulo soverchio di diminutivi, il poco abile maneggio dei pronomi e delle particelle, qualche passaggio un po’ duro, sono difetti facilmente emendabili. Ma è un lavoro scritto di un getto, concepito con chiarezza e con calore. Non ragionamenti, non digressioni, non vane descrizioni: tutto sgorga dall’intimo del soggetto con un ordine e una misura poco comuni in questa etá. Tutto vi si muove, tutto vi è disegnato con sicura mano; l’inconscia autrice ha avuto innanzi vivi, mobili, parlanti i personaggi; spesso un epiteto, un gesto, una parola è tutto un ritratto. Che differenza tra quel padre e quella madre! sono due personalitá compiute. E come Lisa li ha ben capiti, la bricconcella! Si burla del padre con la maggior grazia del mondo: della madre sta in soggezione. Quanta malizia in questa fanciulla! e quanta grazia in questa malizia! Il suo carattere è cosí ben graduato, che fa presupporre nell’autrice un talento notabile di osservazione. E queste gradazioni non risultano giá da osservazioni, ma dai gesti, dalle parole, da molti particolari, che sfuggono agli osservatori superficiali. Vi si scorge una certa imitazione del Manzoni, non però nelle parole e nelle frasi. È una imitazione spontanea, di cui ella stessa non ha coscienza, avendo soprattutto saputo far sua quell’ironia amabile, che tanto diletta ne’ Promessi sposi, che solletica, non punge.
L’uffizio della letteratura non è da alcuni ben compreso. Essa non insegna solo a scrivere correttamente, ma deve educare l’anima. Se il ladro ruba, non è perché ignori che sia illecito il rubare, ma perché ha il cuore guasto. Che giovano i precetti morali astratti, quando il vostro cuore è arido? Cominciate dall’educare il cuore. Molto si fa per l’istruzione del popolo, poco per la sua educazione: il simile dirò delle scuole. E quest’uffizio educativo si appartiene alle lettere.
— Ma che andate cianciando voi?, mi diranno alcuni padri e madri. Mio figlio? Che sappia scrivere da farsi capire, con tutti gli accenti e le virgole; e sono contento. Mia figlia? Che mi sappia fare una buona letterona per il capo d’anno o pel giorno del mio nome, con tutte le cerimonie e le gentilezze d’uso: contentissimo. Perdere il tempo appresso ad Amalia e Lisa! Che cosa ci si impara? Leggere i Promessi sposi! Che cosa ci s’impara? Sono storie di mia nonna, favole e bugie. Vogliamo un’istruzione solida, qualche cosa che si tocca con mano; un po’ di storia, un po’ d’aritmetica, un po’ di galateo, un po’ di tutto ciò che è necessario alla vita. Tutto questo è utile, si vede: di Amalia e Lisa non sappiamo che farcene. — Il peggio è che un povero Maestro, dopo di essersi tanto affaticato a fare il bene, debba sentirsi qualche volta un’intemerata di questa natura. Ma tal sia di loro.
[Nel «Piemonte», a. II, n. 26, 30 gennaio i856.]