Rivista di Scienza - Vol. I/Rassegna di Fisica I
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RASSEGNA DI FISICA.
Le recenti teorie elettro-magnetiche e il moto assoluto.
Scorrendo la ricca produzione scientifica del 1906 nel campo della Fisica sperimentale, si incontrano alquante Memorie che, per la loro intima connessione coi principi fondamentali, meritano di essere conosciute dai lettori di questa Rivista.
Mi propongo appunto di esporre, in una serie di articoli, i risultati principali di quelle ricerche, mettendone in evidenza la connessione con le questioni teoriche attualmente dibattute. E, per cominciare, mi occuperò in questo primo Numero delle magistrali ricerche di Kaufmann «Sulla costituzione dell’elettrone» (Annalen der Physik, 4a serie, T. 19, pag. 487-1906) di una portata grandissima non solo per la questione in sè, ma per le conseguenze che ne derivano in riguardo all’elettrodinamica dei corpi in moto e alla questione del moto assoluto.
Studiando la conduzione dell’elettricità attraverso ai liquidi e ai gas, i Fisici sono stati condotti ad ammettere che l’elettricità è costituita da porzioni elementari definite, comportantisi come atomi di elettricità e rispetto alle quali tutte le cariche sono multiple secondo numeri interi, così come, in Chimica, la massa di una qualsiasi quantità di corpo semplice è un multiplo secondo un numero intero della massa dell’atomo relativo.
L’atomo di elettricità, che fu intuito da Helmholtz e poi preso da Lorentz a base della sua teoria, ebbe più fortuna dell’atomo chimico, poiché riuscì a J. J. Thomson, che gli diede il nome di corpuscolo, di determinarne la carica elettrica assoluta col contare il numero di corpuscoli liberi esistenti in un dato volume di gas, sottoposto a determinati trattamenti.
I corpuscoli, cioè gli elettroni, come adesso vengon denominati, sono emessi in gran numero e con enorme velocità dal catodo nei tubi a vuoto, costituendo i raggi catodici, e dal Radio, costituendo i raggi β; e poichè questi raggi risultano da cariche elettriche in moto rapidissimo, essi debbono subire, come l’esperienza aveva già rilevato, una deviazione in un campo elettrostatico o in presenza di una calamita.
D’altra parte era stato dedotto da tempo che una carica elettrica in moto rapido deve presentare una specie di reazione contro le forze perturbatrici del moto, come fa in virtù della inerzia una massa materiale; l’elettrone deve quindi presentare una massa apparente, di natura elettromagnetica, variabile col cambiare della velocità; e precisamente quei cambiamenti devono diventare sensibili all’esperienza quando la velocità dell’elettrone sia tanto grande da essere comparabile con la velocità della luce.
Max Abraham, di Gottinga, aveva calcolato nel 1902 il valore della massa apparente dell’elettrone per le diverse velocità, fondandosi sulle ipotesi che essa sia tutta di origine elettromagnetica e che l’elettrone nel suo movimento, comunque rapido, conservi una forma sferica e un volume invariato; è questa la cosiddetta teoria dell’elettrone rigido.
D’altra parte il Kaufmann aveva già, con alcune esperienze preliminari (1900-1903), determinato i valori della massa per diverse velocità misurando la deviazione dei raggi β del radio su cui agiscono un campo elettrostatico e un campo magnetico di conosciuta intensità. Fu appunto per l’accordo molto rimarchevole dei risultati delle esperienze con i valori calcolati da Abraham che si potè concludere essere tutta la massa dell’elettrone di natura elettromagnetica, e che perciò la carica elettrica dell’elettrone non è associata a un nocciuolo materiale.
Al problema della massa dell’elettrone in moto si riconnette tutta l’elettrodinamica dei corpi in movimento e quindi il complesso poderoso delle ricerche teoriche del prof. Lorentz, destinate, tra l’altro, a ricercare l’influenza del moto assoluto della Terra sui fenomeni ottici ed elettromagnetici constatabili alla sua superficie.
Tutte le teorie elettromagnetiche che adesso si contendono il campo sono fondate sulla ipotesi di un etere le cui parti sono immobili, l’una rispetto all’altra, e che perciò si considera come in riposo assoluto; in particolare quella del Lorentz ammette che non esistono altre cariche elettriche che quelle dovute al movimento di essi; tale movimento si compirebbe quasi liberamente nei corpi conduttori, mentre sarebbe ostacolato da forze elettrostatiche negli isolanti.
E poichè il complesso di elettroni risiedenti in un corpo in quiete relativa rispetto alla terra è trascinato da questa nel suo moto attraverso lo spazio, ed equivale perciò a un sistema di correnti di convezione, sembra a prima visto che debba esser possibile, con l’osservazione dei fenomeni elettrici (o dei fenomeni ottici che a quelli si riconducono) aventi luogo alla superficie terrestre, dedurre il moto assoluto della Terra, cioè il suo moto rispetto all’etere.
Invece tutte le esperienze finora eseguite a questo intento hanno sempre condotto a esito negativo.
La prima teoria del Lorentz rendeva conto dell’esito negativo di queste esperienze finchè si ricerchino effetti dovuti ai termini contenenti al primo grado il rapporto della velocità di traslazione alla velocità della luce, non giustificava invece il risultato negativo di una celebre esperienza di Michelson e Morley, la quale, per la prevista percettibilità degli effetti dovuti ai termini del secondo ordine, avrebbe dovuto dare un esito positivo.
Una nuova ipotesi fu quindi necessaria per mettere d’accordo la teoria col fatto nuovo; e siccome il Poincaré aveva obiettato che ancora nuove ipotesi si sarebbero dovute introdurre per spiegare ogni nuova esperienza a esito negativo, il Lorentz riuscì nella sua Memoria del 1904 a dimostrare, con alcune ipotesi fondamentali e non trascurando termini di alcun ordine, che non è possibile mettere in evidenza alla superficie terrestre il moto della Terra rispetto all’etere considerato come in quiete assoluta. Per giungere a questo risultato egli dovè ammettere:
Con queste ipotesi si deduce una completa indipendenza di tutti i fenomeni osservabili dalla velocità assoluta dei corpi in cui essi hanno sede.
Inoltre dalla ipotesi fatta che l’elettrone, sferico nelle condizioni di riposo, si contragga nel senso del moto, rimanendo costanti le altre dimensioni, si deduce una legge di dipendenza tra la sua massa e la volontà diversa da quella stabilita dall’Abraham con l’ipotesi dell’elettrone rigido.
Riuscì però a Lorentz di provare che i numeri ottenuti sperimentalmente dal Kaufmann si adattavano a quelli calcolati con la sua teoria quasi altrettanto bene quanto a quelli calcolati con la teoria di Abraham.
Le premesse e le conseguenze di Lorentz sono reciproche; infatti l’Einstein pervenne a dimostrare che se si pone a base di una teoria elettrodinamica dei corpi in moto il principio di relatività, cioè il principio dell’impossibilità di constatare il moto assoluto, allora deve aver luogo la deformazione di Lorentz con che si ritrova la stessa legge di dipendenza tra la massa dell’elettrone e la sua velocità. Alla stessa conclusione, di grande importanza per ciò che segue, pervenne quasi contemporaneamente il Poincaré.
Se ne deduce intanto che la teoria di Abraham, che quella deformazione non ammette, è inconciliabile con l’ipotesi che in nessun modo sia possibile, anche con un esperimento di concetto, di rivelare gli effetti di una velocità di traslazione uniforme, cioè il moto assoluto. Ciò costituisce secondo alcuni un inconveniente di quella teoria; ma d’altra parte l’ipotesi della deformazione per il movimento costringe ad ammettere o un’energia interna potenziale nell’elettrone, o una pressione esterna costante agente sull’elettrone deformabile e compressibile; entrambe di natura sconosciuta e non riconducibili a fenomeni elettromagnetici; cosicchè sarebbe impossibile fondare su pure basi elettromagnetiche la meccanica dell’elettrone e quindi la meccanica tutta; questo è invece possibile con la teoria di Abraham, e questa possibilità costituisce un merito di importanza grandissima dal punto di vista teoretico conoscitivo.
Messa la questione in questi termini è chiaro che l’accettare o il respingere l’una o l’altra delle due teorie equivalga ad accettare o respingere l’una o l’altra di queste affermazioni:
Le misure primitive di Kaufmann, non abbastanza precise, non permettevano di decidere tra le due teorie, poichè le divergenze fra la teoria e l’esperienza (riguardo alla legge di dipendenza tra la massa e la velocità dell’elettrone) erano comprese nei limiti degli errori sperimentali.
Fu per questo che il Kaufmann intraprese le nuove esperienze destinate a misurare le deviazioni di un fascio di raggio β, aventi diverse velocità, per l’azione di un campo elettrostatico e di un campo magnetico. Non è questo il luogo opportuno per riferire particolari delle esperienze del Kaufmann, che costituiscono un vero monumento di finezza e di precisione; in quanto riguarda i calcoli difficili e laboriosi che si richiedono per passare dalle fotografie delle curve di deviazione ai valori numerici confrontabili con le diverse previsioni teoriche, essi furono sviluppati con un procedimento del tutto diverso da Max Planck; i risultati che questi comunicò al Congresso di Stuttgart dell’ultimo ottobre sono assolutamente concordanti con quelli già ottenuti dal Kaufmann.
Dal confronto con le diverse teorie il Kaufmann venne alla conclusione importantissima che la teoria di Abraham è confermata, mentre non lo è quella di Lorentz.
In verità, come il Planck ha fatto notare, anche con la teoria di Abraham esistono delle lievi differenze numeriche che egli non crede interamente attribuibili a errori sperimentali. È molto importante, in proposito, la discussione che seguì al Congresso di Stuttgart dopo la comunicazione del Planck; vi presero parte Planck, Kaufmann, Bucherer, Runge, Abraham, Gans, Sommerfeld.
Il primo osservò molto opportunamente che in fondo la teoria di Abraham e quella di Lorentz si fondano sull’uno o l’altro dei due postulati che risultano inconciliabili: quello della concezione esclusivamente elettromagnetica della meccanica e quello dell’impossibilità di constatare il moto assoluto. Sembra però che egli, per una predilezione diciamo così sentimentale verso il postulato del Lorentz, sia stato un po’ troppo pessimista nel giudicare che le esperienze del Kaufmann non siano del tutto decisive in favore della teoria di Abraham, per il fatto che anche con questa teoria esistono divergenze molto piccole, e alle quali da altri venne invece attribuito un peso molto minore.
Da parte mia osservo che sarebbe opportuno abbandonare ogni preconcetto metafisico e giudicare il valore dei postulati alla stregua dell’accordo coi fatti; nè so dividere le preferenze del Planck per il principio di relatività, poichè se anche la teoria di Abraham non risulta assolutamente dimostrata vera dalle esperienze del Kaufmann, certo queste sono inconciliabili con la teoria di Lorentz e quindi col postulato della relatività, finchè si ammette un etere in quiete assoluta. Che se si vuol fare della metafisica, mi sembra che una volta ammesso l’etere in riposo assoluto, e i corpi animati da un moto di traslazione rispetto all’etere, niente di straordinario che questo moto possa in qualche modo più o meno accessibile all’esperienza essere rivelato.
D’altra parte abbiamo già fatto osservare che il contrasto fra le teorie in discussione è sempre subordinato all’ipotesi fondamentale di un etere in quiete assoluta, senza di che potrebbero sussistere insieme il principio di relatività e una legge di variazione della massa elettromagnetica con la velocità (cioè una legge di deviazione dei raggi β del radio) diversa da quella prevista dal Lorentz.
Se questo fatto avvenisse, se cioè risultassero provati insieme il principio di relatività e una legge di variazione della massa non rispondente alle formule di Lorentz, si sarebbe indotti a rinunziare alla concezione di un etere assoluto, la quale sembra assurda al prof. Enriques. (Vedi: «Problemi della Scienza», Cap. VI), ma per la sua semplicità, resta ad ogni modo oggi la sola base concepibile di una teoria elettro-magnetica concretamente sviluppata.
Tornando alla costituzione dell’elettrone e alla sua forma durante il moto, mentre le esperienze del Kaufmann escludono, come si è visto, la particolare deformazione del Lorentz, esse non dimostrano definitivamente che l’elettrone rimanga di forma e volume invariabili durante il moto. Infatti i risultati dell’esperienza si accordano bene anche con le previsioni di un’altra teoria, quella di Bucherer-Langevin, la quale suppone invece una deformazione dell’elettrone consistente in una contrazione nel senso del moto e in una dilatazione nel senso trasversale, rimanendo costante il volume primitivo. Questa teoria ha anche in comune con quella di Abraham di consentire una spiegazione elettro-magnetica della meccanica; e per quanto sia inconciliabile col principio di relatività, siccome essa ammette nell’elettrone deformato un rapporto degli assi eguale a quello che si ha nella deformazione di Lorentz, non è improbabile che la rivelabilità del moto assoluto venga con ciò esclusa, almeno fino al limite dei tentativi sperimentali finora eseguiti. Se così è, la constatazione del moto assoluto sarebbe, se non teoricamente, sperimentalmente impossibile e ogni contraddizione sarebbe quindi evitata.
Le deformazioni del Lorentz e del Bucherer non sono le sole che siano state proposte; a questo proposito merita bene di essere riferita una interessante indagine del prof. Righi svolta con la brillante lucidità di pensiero che caratterizza l’illustre Fisico Italiano.
Il prof. Righi nota intanto che mal si saprebbe concepire e calcolare una distribuzione di cariche alla superficie o nel volume dell’elettrone, quando per noi la carica totale dell’elettrone è divenuta l’unità finale indivisibile di quantità di elettricità.
Osserva inoltre che nel dedurre la massa apparente dell’elettrone con l’uguagliare la sua forza viva alla totale energia elettrostatica ed elettromagnetica del campo da esso prodotto, bisogna prima sottrarre a questa energia quella parte che esso possiede, come energia elettrostatica, quando è in quiete.
La novità più audace nella trattazione del Righi riguarda la concezione del volume dell’elettrone.
Si consideri l’elettrone come un punto geometrico elettrizzato, anzichè come un solido di forma e volume determinato; allora la forza elettrica prodotta dall’elettrone di un punto dello spazio cresce, tendendo all’infinito, allorchè la distanza del punto dall’elettrone decresce fino a zero, e lo stesso può dirsi della tensione di Maxwell lungo la linea di forza.
Or ammettiamo che quella tensione, per una nuova proprietà dell’etere, non possa oltrepassare un certo limite, cosicchè se la tensione in un punto supera quel valore, l’etere rimanga profondamente modificato nelle sue proprietà come un filo sottoposto a un peso superiore al carico di rottura, cioè la tensione vi si annulli, ovvero, più in generale, che la tensione conservi un valore finito limite φ.
Allora l’etere si potrà considerare nel modo usuale al di fuori di una superficie chiusa circondante l’elettrone, e che è il luogo dei punti nei quali la forza calcolata ha il valore φ, mentre nell’interno di quella superficie la forza acquisterà ovunque il valore zero o conserverà il valore costante limite φ.
Si potrà quindi considerare come forma e volume dell’elettrone la forma e il volume della porzione di etere modificato nello sue proprietà, cioè di quella che è limitata dalla superficie anzidetta.
Questa è una superficie sferica per velocità piccolissime dell’elettrone , e in generale è una superficie del sesto ordine avente come asse di rivoluzione la direzione del moto, e presentante un diametro polare contratto sospetto a quello della sfera, e un diametro equatoriale lievemente dilatato. Su queste basi viene sviluppato il calcolo della massa apparente in funzione della velocità; i risultati si riferiscono alla sola massa longitudinale e a un moto rettilineo e uniforme.
Il valore della contrazione dell’asse polare elettronico risulta identico a quello ammesso nella teoria di Lorentz, ma la deformazione complessiva è diversa, come è anche diversa da quella di Bucherer.
Sarebbe certo molto interessante spingere ancora i risultati della nuova teoria per permettere il confronto con l’esperienza, e per stabilire la sua posizione di fronte ai due postulati che adesso si contengono il campo.
Ma la nozione introdotta dal Righi di una superficie limite di forza invece della superficie esterna dell’elettrone rigido o deformabile delle altre teorie costituisco un progresso evidente. Viene con ciò a sparire la nozione di carica elettrica distribuita e rigidamente connessa in una porzione di spazio che non è materia, non è etere, e non è neanche elettricità se la distribuzione è superficiale; ma che aveva il solo scopo, per lo meno all’origine, di evitare nel calcolo che la forza divenisse in alcuni punti infinita.
della R. Università di Messina. |