Rivista di Scienza - Vol. I/L'imparzialità dello storico
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«L’imparzialità è il carattere della vera storia»1: ecco una sentenza che esprime nitidamente un’opinione generalmente accettata e degna del maggior rispetto. Fu posta come massima dal compianto Lord Acton nell’ideare la Cambridge Modern History, che contiene i risultati di tanto lavoro assiduo, di tanta diligente dottrina. Non si farebbe, però, il miglior complimento all’influenza ispiratrice esercitata da Lord Acton sui colleghi suoi più giovani e sui discepoli, quando si considerassero le dottrine da lui enunciate come qualche cosa di assoluto e di incontestabile. Può almeno giovare l’esame delle difficoltà che incontrerebbe chi ritenesse essere l’imparzialità requisito essenziale di una buona opera storica. Vi è forse ragione di pensare che la Cambridge Modern History, nonostante i molti suoi meriti, apparirebbe di pregio ancora maggiore se meno grande fosse stato lo sforzo inteso a far tacere le predilezioni personali.
Nessun dubbio che lo storico debba essere onesto, ed esporre pienamente e fedelmente anche i punti che parlano contro il suo proprio modo di vedere. Ma altro è volere essere onesto, altro il posare come imparziali. A me pare che la pretesa all’imparzialità da parte dello storico sia un non senso, e che, in quanto essa abbia un significato, diventi facilmente una semplice affettazione atta a creare un ostacolo serio all’investigazione fruttuosa e alla critica intelligente.
Vi è certamente un senso secondo il quale ogni conoscenza umana, compresa quella del passato, è parziale: ogni conoscenza, infatti, è sempre relativa alle facoltà umane e alla durata della vita umana: è certamente incompleta. La nozione che il singolo acquista di un periodo, di un episodio, è in rapporto col suo abito mentale; è quindi parziale, non solo in quanto è incompleta, ma anche in quanto subisce l’influsso della personalità dello studioso. L’imparzialità può sussistere solamente quando tutto è noto: ogni circostanza, ogni motivo, ci siano o non ci sian stati trasmessi in iscritto. La conoscenza divina, essendo completa, può essere imparziale, ma quella umana non è mai assoluta poichè sempre risente l’influenza delle limitate cognizioni umane e risulta quindi necessariamente parziale; su questo non mi sembra possano sorgere dubbi.
Si ammetterà subito, m’immagino, che, in questo senso, lo storico non potrà mai raggiungere la verità assoluta dei fatti e quindi nemmeno la completa imparzialità: qualcuno potrebbe tuttavia osservare che è in suo potere di evitare la interpretazione della storia secondo i proprii sentimenti e le proprie opinioni, e quindi l’esposizione degli eventi secondo il colore della propria mente; ch’egli, per così dire, dovrebbe essere semplicemente passivo, lasciando al corso degli avvenimenti di riprodursi nelle sue pagine: che dovrebbe avere l’impassibilità del medium spiritistico il quale trasmette, senza modificarle, le comunicazioni da un altro mondo. Ora, è appunto tale passività della mente che mi sembra inconciliabile colla seria investigazione; la storia del passato non si presenta a noi bell’e fatta, ma dev’essere scovata. Gli eventi non si classificano affatto secondo l’ordine della loro importanza, ma richiedono di essere vagliati onde sia dato di scorgere quali fra essi meritino maggior attenzione.
Ci fuorvia, mi pare, l’analogia spesso addotta fra lo storico e il giudice imparziale, la cui passività nello ascoltare la causa è solo uno degli elementi nel procedimento legale. Vi è molta attività da parte del magistrato che sostiene l’accusa, come pure nell’escussione e nel confronto dei testimoni le cui asserzioni devono confermarla o confutarla; l’opera del giudice mercè la quale egli elimina quanto nella causa vi è di irrilevante e la riassume nei punti essenziali, è resa possibile soltanto dai procedimenti anteriori; e l’indagine storica corrisponde non tanto all’elemento conferito dal giudice nel processo quanto a tutto il complesso di questo. Deve essere in essa l’esercizio attivo delle facoltà rispondenti all’educazione e al temperamento di chi la intraprende; la mente dello storico non è semplicemente un recipiente entro il quale si distilli la storia del passato. Un concetto dello storico non molto dissimile da questo hanno invece, a mio avviso, i sostenitori dell’imparzialità i quali considerano lo storico, in quanto veramente tale, come un semplice medium, dolendosi perciò dell’influenza della sua attività personale come di cosa atta a falsare quanto egli riferisce. Io invece asserisco ch’egli non può spogliarsi della sua personalità e che il pretendere l’opposto è una semplice affettazione.
Mi si potrà, però, domandare: Non è forse desiderabile proporsi un ideale, pur quando esso sia irragiungibile? E la imparzialità non è un ideale al quale si deve mirare? Personalmente, io dubito della utilità di avere un ideale ove questo non ci aiuti a notare e correggere le nostre imperfezioni. L’imparzialità è un principio in certo senso negativo e non facilmente applicabile. In nove casi su dieci non si è consci della tendenza di cui si subisce l’influsso, e non si può quindi cercare di correggerla. E l’affettazione dell’imparzialità non è scientifica perchè porta ad ignorare e trascurare il pericolo delle tendenze inconscie.
Ciò che importa di più, è che siano messe in luce le qualità personali dello storico in modo che gli indagatori posteriori possano eliminarle dalla sua opera: lo studioso, consapevole allora delle limitazioni, così venute alla luce, potrà sforzarsi di coreggerle.
I.
La mia tesi, dunque, è questa: doversi, per quanto riguarda l’indagine scientifica, anzichè tentare di sopprimere la personalità dello scrittore, lasciare campo liberissimo all’azione delle sue qualità personali, notando accortamente quali siano. Se la storia ha da essere uno studio vivo, bisogna che ad ogni passo sia piena della personalità dello scrittore, affinchè i lettori, i critici, e forse anche lo scrittore medesimo, possano afferrarne le limitazioni.
a) Possiamo applicare questo principio ai vari passi dello studio storico. È probabile che la maggior parte degli storici abbiano creduto di essere imparziali esponendo come meglio potevano i fatti; ma per giudicare del valore scientifico della loro opera, occorre sapere quali fonti furono loro accessibili e in quale modo se ne servirono. È necessario conoscere la quantità e la qualità delle notizie possedute dallo scrittore e le sue limitazioni personali. Lo scrittore onesto, che si uniforma a questo desiderio, intende dar conto in modo facilmente controllabile delle fonti a cui ha attinto e dalle quali dipende. E a noi sarà possibile allora stabilire subito quali fonti egli non ha usate o almeno non ha creduto degne di considerazione. Adottando questo principio si facilita immensamente la possibilità di vedere bene dove le correzioni sono necessarie. Inoltre l’indicazione delle fonti aiuta i lettori nel giudicare in che modo l’autore se ne sia servito, e se egli abbia usato o meno la necessaria cura nello stabilire il valore preciso dei materiali a sua disposizione.
L’arte di vagliare i materiali ha fatto grandi progressi negli ultimi cinquant’anni; essendo immensamente cresciuta la massa di documenti utilizzabili vi è una possibilità assai maggiore di scelta in fatto di prove, e ben più facilmente è dato vedere in quali casi esista una certezza pratica sia riguardo a un indirizzo di politica seguito, sia riguardo a particolari avvenimenti.
È inoltre necessario ricordare che il valore di una testimonianza varia spesso col variare dello scopo, in vista del quale viene utilizzata. Se, per esempio, si ha da fare con un documento falsificato nel duecento che pretende appartenere al secolo ottavo, nessun elemento utile è possibile trarne in merito ad una donazione di terra avvenuta in tal secolo, mentre ci fornirebbe dati preziosi se la discussione cadesse intorno alla abilità del falsificatore. Una testimonianza non può dirsi buona o cattiva assolutamente, ma bensì in relazione all’uso che se ne vuole fare. Una trave affatto inadatta a servire di sostegno per un tetto, può fornire materiale ottimo per fare l’intelaiatura di una finestra. Per una gran parte della storia del passato ci mancano materiali assolutamente buoni, onde il meglio che possiamo fare è di trarre il massimo vantaggio dai materiali mediocri a noi accessibili, adoperandoli sapientemente.
b) E questo ci conduce all’esame del secondo punto. È infatti nell’uso dei materiali, che si rivelano il carattere, il temperamento dello scrittore. Molte cose egli crederà di dover omettere, altre vorrà accentuare. È importante per noi il vedere fino a che punto egli possegga il senso della misura.
Lo scrittore dovrebbe quindi esporci chiaramente quale è lo scopo che si propone scrivendo, affinchè noi possiamo dare un giudizio sulla scelta di materiali da lui fatta, e decidere se quelli accettati siano o meno adatti a tale scopo. Se il criterio di scelta non è chiaro, l’opera dello scrittore può sembrare arbitraria, riuscendo difficile rendersi conto del perchè un punto sia stato accentuato, mentre un altro fu appena toccato.
Prescindendo dalle opere che considerano aspetti speciali della vita nazionale — aspetti ecclesiastici o sociali — lo scopo perseguito dall’autore dovrebbe essere chiaramente esposto; se alcuno scrive la storia politica dell’Europa moderna, diversa riuscirà la trattazione secondo che egli soprattutto vagheggi la separazione dello stato dalla chiesa, o l’aggruppamento in unità delle diverse nazionalità, o invece il passaggio dal regime assoluto a quello democratico.
Solo quando noi conosciamo il problema speciale che l’autore ha avuto presente nell’opera, ci è dato giudicare se e fino a dove questa è riuscita ben proporzionata e profonda.
c) Benchè la raccolta e la critica dei materiali, e quindi l’abile ordinamento loro rappresentino due parti principali nel lavoro dello storico, e risentano l’una e l’altra necessariamente l’influenza delle sue qualità personali, resta tuttavia il compito più difficile: quello d’interpretarli. Osserviamo in proposito che ben difficile è il trovare segni esterni delle cause intime operanti, dei motivi precisi che agirono su determinati uomini in epoche determinate. Lo storico deve proporsi di indovinare il probabile lavorìo di una mente, ed è naturale attendersi tale ricerca soprattutto quando egli prova simpatia per il personaggio di cui discorre. Ho sempre pensato che il Wolsey di Creighton è una monografia così convincente appunto perchè la grande affinità di carattere esistente fra i due uomini portava che il vescovo del secolo decimonono comprendesse il cardinale del cinquecento.
Non già col sopprimere la propria personalità, ma col far valere francamente ed apertamente le sue qualità personali, potrà lo studioso promuovere nel miglior modo la investigazione storica e far procedere di un passo la nostra conoscenza del passato. Per quanto ci proponiamo una trattazione obbiettiva, non riusciremo mai a raggiungere la vera obbiettività, ma soltanto daremo espressione al concetto che di questa ci siamo soggettivamente formati. Lo storico veramente onesto cercherà di evitare ogni affettazione e di fornire agli altri il più valido aiuto possibile nell’apprezzamento della sua «equazione personale», e quindi nell’apportare le necessarie modificazioni ai risultati da lui raggiunti.
II.
Pochi storici si limitano strettamente all’opera d’investigazione; tutti mostrano la tendenza a pronunciare giudizi sugli uomini o sui fatti del passato. In pari tempo sono tutti particolarmente portati ad affermare la loro imparzialità, mentre anche in questo sarebbe desiderabile la consapevolezza delle proprie limitazioni. Mai possiamo riuscire veramente imparziali nell’approvare o nel disapprovare, non possedendo il dono della onniscienza e non potendo misurare gli uomini secondo un criterio assoluto. Scopo che possiamo invece perseguire è la capacità di distinguere, mercè una chiara affermazione del punto di vista personale, il criterio secondo il quale si giudica. La maggior parte degli storici sembra non vedano la necessità di dare una base personale ai loro giudizi morali, ritenendo al contrario di potersi abbastanza avvicinare a un criterio assoluto per scopi pratici. Qualcuno potrà credere che il senso comune degli uomini ponga dei principî simili per ogni epoca e per ogni luogo, e che lo scrittore spoglio dalle passioni e dall’amarezza suscitate da una qualche lotta, sia in grado di applicarli equamente. Altri dirà che col trascorrere del tempo la moralità progredisce, e che quella oggi corrente ci offre una base abbastanza solida per pronunciare dei giudizi; che insomma siamo superiori agli uomini del passato e abbiamo quindi il diritto di criticarli. Gli uni come gli altri sono d’avviso, a quanto pare, che si possano azzardare pronti e sommari giudizi pretendendo alla imparzialità; e trovano superfluo definire l’esatto punto di vista assunto dallo scrittore.
Ho avuto occasione di meditare su questo punto in rapporto ad un aspetto speciale della storia, e credo di potere, tenendomi nel campo economico, illustrare nel modo più facile ciò che penso in fatto di giudizi morali. Parecchi libri eccellenti sulla storia dell’economia furono scritti verso la metà del secolo passato; particolarmente dotta ed accurata è la Letteratura della Economia Politica del Mac Culloch, e la Storia di Leoni Levi fu por lungo tempo considerata come un’autorità. Sia l’uno che l’altro autore scrivevano all’epoca in cui la dottrina del laisser faire godeva di un assoluto predominio; non dubitavano che ormai la verità intorno alle quistioni dell’industria e del commercio fosse stata raggiunta, e che la saggezza o l’errore di una qualsiasi misura non altrimenti potessero essere dimostrati che considerando fin dove essa si avvicinasse al rigido individualismo, preso da entrambi come criterio assoluto.
Più giustamente si riconoscerebbe ora che per ben giudicare uno scrittore o una misura in altri tempi adottata è necessario considerare che cosa all’epoca in questione fosse attuabile, quale scopo lo scrittore si proponesse, e giudicare la sua condotta in base alla condizioni e alle idee di allora.
Non è possibile definire in modo assoluto ciò che è economicamente saggio in ogni tempo ed in ogni luogo, come non è possibile enunciare regole assolute intorno a ciò che è politicamente giusto. Le idee correnti all’epoca nostra non dicono l’ultima parola sulla migliore condotta sia politica che economica, e non è lecito considerarle come la meta finale verso la quale tendevano tempi meno fortunati. La libertà assoluta dell’individuo nel campo economico non è più riguardata come un ideale; i progressi del socialismo e l’esistenza di organizzazioni forti come quelle cresciute in Germania ci inducono a credere che il laisser faire abbia ormai fatto il suo tempo.
E nei riguardi della vita politica possiamo noi con sicurezza affermare che la libertà d’azione dell’individuo rappresenti l’ideale più alto? Ognuno ha il diritto di prendere la libertà come criterio fondamentale nel giudicare delle età passate, ma non di imporla come assioma che tutti dovrebbero accettare.
Solo dichiarando con precisione quale criterio egli personalmente preferisce ed applica, lo scrittore può evitare il pericolo di pronunciare giudizi leggeri. Due errori comuni possono essere evitati da chi vi presti un po’ di attenzione. C’è il pericolo degli anacronismi, cioè di cambiamenti nel punto di vista che difficilmente riusciamo a sfuggire, a meno di mettercisi deliberatamente. Possiamo proporci di scoprire il criterio di giudizio proprio del periodo di cui discorriamo, e, volendo, qualificarlo dal proprio punto di vista come giusto, oppure come difettoso; ma sempre dovremmo studiarci di giudicare gli uomini secondo i criteri loro contemporanei e non secondo i nostri.
Vi è poi il pericolo di fare confusione tra il dovere pubblico e le norme di condotta della vita privata, onde è d’uopo chiarire bene se intendesi giudicare un uomo come individuo privato oppure come personaggio pubblico. Esempi di una tale confusione non mancano: così avverrà frequentemente di leggere in manuali di storia ad uso delle scuole che il Duca di Buckingham «cadde vittima del coltello di un assassino», e che i regicidi «con la condanna di Carlo Stewart affermarono il grande principio della responsabilità dei re». Il che equivale a trattare il povero Felton alla stregua di un volgare assassino, e a investire i regicidi del carattere di pubbliche autorità. Felton credeva non meno sinceramente dei regicidi di adempiere a un pubblico dovere; non si capisce quindi perchè debba essere escluso dal novero dei cittadini magnanimi e considerato non diversamente da chi uccide soltanto per rancore personale. Considerando i regicidi come individui, si potrebbe notare che ben piccolo era il rischio a cui si esponevano, mentre avevano ragione di ripromettersi un non lieve vantaggio dall’azione loro; Felton invece si sacrificò deliberatamente a quello ch’egli credeva essere un dovere pubblico. Se mai il cittadino singolo può essere giustificato nell’agire all’infuori della legge (nel prendere — per dir così — le leggi nelle proprie mani), l’esempio di Felton mi sembra ben più atto che non quello dei regicidi ad ispirare sentimenti di virtù civica. A me non importa difendere l’uno piuttosto che l’altro assassino, essendo disposto a credere che in entrambi i casi agisse il senso del dovere nel punire un criminale. Solamente, se l’autore crede di dovere davanti a fatti simili approvare o disapprovare, pretendo che mi precisi quale, secondo lui, è il punto in cui l’uccisione di un uomo cessa d’essere un assassinio e diventa una esecuzione. Domando solo che si distingua e insisto sulla necessità di essere ben consapevoli del criterio adottato e del perchè l’uno venga preferito agli altri. Se non si ha cura di far questo, criteri diversi possono essere applicati in modo capriccioso; solo specificando i motivi del nostro giudizio personale, e non già pretendendo di riuscire impersonali, saremo in grado di pronunciare sentenze così precise.
La questione importante è di sapere quale direttiva debba seguire chi vuol produrre della storia diligente e profonda, e non si può sperare di riuscire a ciò, affettando di spogliarsi da ogni tendenza personale, poichè sempre qualche tendenza resterebbe, a nostra insaputa; ma piuttosto, riconoscendo francamente l’elemento personale e cercando di definirlo, di metterlo in piena luce davanti a noi stessi, il che è impossibile quando di proposito vogliamo ignorarlo.
Dopo tutto, come per formare il mondo occorre ogni sorta di cose, per acquistare un’idea relativamente completa della storia del passato si richiedono le impressioni combinate delle più diverse personalità. Alcuni colgono i momenti drammatici, altri intuiscono certi tipi di caratteri; altri ancora sono particolarmente abili nel trarre un significato da notizie prive in apparenza di ogni valore. Lasciando campo libero alle doti personali è possibile conciliare le esigenze opposte della trattazione scientifica e di quella artistica della storia; nel ritrarre gli avvenimenti del passato c’è posto ugualmente per lo scienziato e per l’artista. Tutt’altra cosa è la storia «impersonale», che di proposito vuole essere incolore, che verosimilmente riesce confusa, e indubbiamente monotona.
Contro ogni tentativo, dunque, di sopprimere la personalità, io domando che essa abbia piena libertà di espansione, poichè soltanto così l’influenza sua, buona o cattiva, potrà essere valutata.
Note
- ↑ Lord Acton - Lectures on Modern History, 316.