Rime varie (Alfieri, 1903)/CCIX. Capitolo ad Andrea Chenier

CCIX. Capitolo ad Andrea Chénier a Londra

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CCIX. Capitolo ad Andrea Chénier a Londra
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CCIX.

CAPITOLO

A LONDRA.


Parigi, 12 aprile 1789.

Ecco alfin giunta quella tanto attesa
Dolce epistola tua, Chénier diletto,
Ch’io avrei bramata un pocolin più estesa.
Ma la tua pigrizietta in blando aspetto
Sì ben sapesti appresentar, ch’io credo
Non fosse il tacer tuo di amor difetto.
Io, che pure in pigrizia a nullo cedo,
Vo’ non solo risponderti, ma in versi
E magri assai, per quanto io già mi avvedo.
Ma perchè appunto io so che gli alti e tersi
Piacciono a te, che bevitor del fonte
Carmi scrivi di mèle attico aspersi;
Voglio or perciò queste rimacce impronte
Farti ingoiare in pena del silenzio,
Cui giusto è pur che in modo alcun tu sconte.
Odo che amara è a te più che l’assenzio
Codesta Londra, ove stranier ti trovi:
Ed è vero il supplizio di Mezenzio
Lo star fra gente, ove nessun ti giovi
Co’ bei legami d’amistà giuliva.
Ah! ben tu osservi che di ferro ha i chiovi
Necessitade, inesorabil Diva;
Solo Nume a cui cede anco il tiranno,
Quand’ella a farsi gigantesca arriva.

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Di quant’io dico un bello esempio or danno
Questi tuoi Galli a libertà vicini,
Perchè forse il servir logorat’hanno.
Qui non s’ode altro più, grandi e piccini,
Uomini e donne, militari e abati,
Tutti soloneggiando i Parigini,
Non s’ode altro gridar che «Stati Stati:»
Onde, se avran gli Stati e mente e lena,
Cesserà, pure, il regno dei soldati.
La trista gente onde ogni Corte è piena,
Mormora pure; e fra se stessa spera
Che risaldar potrassi la catena.
Quel che avverrà nol so: ma trista sera
Giunger non puovvi omai, che vie men trista
Della notte non sia che in Francia v’era.1
Io frattanto, cui l’alma non contrista
Nè stolta ambizïon nè avara sete,
Traggo mia vita dolcemente mista
Di gloria e amor presso alle luci liete
Della mia Donna, a cui tu pure hai scritto;
E imparo che l’allòr punge a chi ’l miete:
Ma instancabile sto, tenace, invitto
Nel sublime proposto; e giorno e notte
Limo, cangio, e riscrivo il già riscritto;
Perch’alle mie tragedie non si annotte,
Quand’io poi muto giacerommi in tomba,
Come accader suol delle carte indòtte.
E’ ci vuol molto a far suonar la tromba
Della ciarliera che appelliam poi Fama,
Se de’ secoli a lei l’eco rimbomba.
Pur può in me tanto questa eterna brama,
Ch’io sopporto per essa anco i tormenti
Del duol che a torto morte non si chiama;
Cioè, del rivedere i mancamenti
De’ correttori e stampatori e proti,
L’un più dell’altro stolti e disattenti:
Quind’io tra punti e côme ed effi e ioti
Vo consumando i giorni e mesi ed anni,
Perch’a intender pur m’abbian gl’idïoti. —

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Ma tu che fai tra i liberi Britanni,
La cui pur mesta taciturna faccia
Delle dense lor nebbie addoppia i danni?
Non v’è fra i dotti lor uom che ti piaccia?
Ciò avvien, perchè da quelli è d’uopo a stento
Uncinar la risposta che t’agghiaccia.
Si apparecchia costà, per quel ch’io sento
Pel risanito Re pomposa festa:2
Ben di letizia è ricco l’argomento.
Maraviglia davver fu espressa questa
(Tale ai saggi almen par), non ch’ei trovasse
Ma ch’ei smarrir potesse un Re la testa.
Se ne rallegri or dunque Londra, e passe
Il bel nuovo miracolo ai futuri,
Per tornagusto a quei ch’un Re noiasse.
Tu scaccia intanto i pensamenti oscuri;
E allo scriver sol pensa, a scriver nato;
Chè non è cosa al mondo altra che duri.
Amami; e riedi ove ognor sei bramato.



Note

  1. Confesserò che qui io sbagliai grossamente, stimando il mal governo e la tirannia della Francia eretta a monarchia assoluta non potessero mai accrescersi: ma non era dato forse ad uom libero e puro il prevedere e poter vedere gli effetti della oligarchia dei pessimi.
  2. Il re Giorgio III regnante, per una non so qual malattia, diede volta al cervello, e rimase alcuni mesi affatto fuor di sè. Il dotto trattamento fattogli da esperti medici lo ripristinò poi perfettamente in salute ed in quella mente stessa ch’egli avea avuta prima dell’ammalarsi.