Rime (Andreini)/Capitolo II
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Cap. II. con ogni terzo verso del Petrarca.
Doler mi voglio con pietosi accenti
Hor che ’l Cielo, e la Terra, e ’l vento tace.
Alato Arciero (ohime ) perche consenti,
Che quel, che ’n terra adoro unquà non degni
Gli alti pensieri, e i miei sospiri ardenti?
Se di lagrime son bagnati, e pregni
Questi occhi miei, anzi miei vivi fonti
Tù l’ vedi Amor, che tal arte m’insegni.
Sola trà queste Valli, e questi Monti
Scorro vagando, e sospirando dico
O passi sparsi, ò pensier vaghi, e pronti.
Io chiamo l’empio mio dolce nemico;
E gli rimembro ad alta voce, come
Proverbio ama chi t’ama è fatto antico.
Per lui, le cui maniere, il viso, e ’l nome
Porto nel core hò tanti affanni, ch’io
Non hò tanti capelli in queste chiome.
Nel procelloso Mar del pianto mio
Spinta dal vento di caldi sospiri
Passa la Nave mia colma d’oblìo.
Deh quando havran mai fine i miei martiri,
Se à schiera à schiera (ohime) nascer li veggio
Ove, ch’io posi gli occhi lassi, ò giri?
Così corro al mio fin, ne me n’avveggio,
E perche i giorni miei sien crudi, e rei
Il mal mi preme, e mi spaventa il peggio.
Quant’io v’ami ò mio Sol mostrar vorrei ,
Ma senza prove ò spirto di mia vita
Non vedete voi ’l cor ne gli occhi miei?
O miseria d’Amor sola e ’nfinita,
Fuggo me stessa per seguir altrui;
E bramo di perir, e chieggio aìta.
Conosco ben, ch’io non son più qual fui.
Languisco, e moro; e sol questo m’avviene
Per mirar la sembianza di colui.
Ei non mi danna, e non mi trahe di pene;
Nè si mostra al mio mal crudo, ò pietoso,
Ma pur come suol far trà due mi tene.
Così lo stato mio sempr’è dubbioso;
E se scoprirli il mio tormento bramo
Tanto gli hò à dir, che ’ncominciar non oso.
Io pur son presa come pesce à l’hamo,
O come Damma da veloci cani ,
O come novo uccello al visco in ramo.
Quanto sièno i tuo’ colpi acerbi, e strani,
E quanto ardenti sièn le tue facelle
Amore io ’l sò, che ’l provo à le tue mani.
Nemica destra il cor mi parte, e svelle
S’avvien, ch’i’ veggia per mia fiera sorte
Torcer da me le mie fatali stelle.
Romita Valle del mio mal consorte,
E voi fronzute selve, e cavi sassi
Quante volte m’udiste chiamar morte?
Com’Aspe al mio parlar quel crudo stassi,
E pur lo prego, e vado notte, e giorno
Perdendo inutilmente tanti passi.
Io deverei fuggir quel viso adorno;
Ma seguon gli occhi il lor vivace lume,
Et io, che son di cera al foco torno.
Havrai Fera crudel sol per costume
Di goder del mio duolo, e trarmi sempre
De gli occhi tristi un doloroso fiume?
Sostener de’ miei guai le dure tempre,
E l’alterezza tua soffrir tacendo
Per me non basto, e par, ch’io me ne stempre.
Ahi pur convien, ch’io mi disfaccia ardendo
Seguendo ogn’hor la ’ncominciata impresa,
Ond’hò già molto amaro, e più n’attendo.
Da un’amoroso tarlo hò l’alma offesa,
E mi sento morire, e non mi giova
Nasconder, nè fuggir, nè far difesa.
Non è chi al pianto mio si pieghi, ò smova,
Ed a gli affanni miei son congiurate
Le stelle, e ’l Cielo, e gli elementi à prova.
O chiare luci, che le mie ’nfiammate,
O de’ pensieri miei porto felice
Di me vi dolga, e vincavi pietate.
Vivrò misera me sempre infelice?
Sì, che sperar altro non posso amando.
Tal frutto nasce di cotal radice;
Ma mentre vado (ohime) pace gridando,
Nè m’ascoltano fuor, che i boschi, e l’onde
In tristo humor vò gli occhi consumando.
Ahi pria, che sièno al mio voler seconde
L’indurate sue voglie, mancheranno
A l’aere i venti, à la terra herbe, e fronde.
Amor crudele arroge danno a danno,
Perch’io nel Regno suo mai sempre viva
Pascendomi di duol, d’ira, e d’affanno.
Così d’ogni speranza in tutto priva,
Di pene sazia, e di piacer digiuna
Sempre convien, che combattendo viva.
Ma spariscon le stelle ad una, ad una:
Convien, ch’aspetti à disfogar miei guai,
Che ’l Sol si parta, e dia loco à la Luna.
Disprezzato mio cor fà tregua homai
Con le miserie tue noiose tanto.
Non pianger più non hai tù pianto assai?
Hor sia quì fine al mio amoroso canto.