Ricordanze della mia vita/Parte terza/XXVIII. Un lutto di Gennarino Placco

XXVIII. Un lutto di Gennarino Placco

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XXVIII. Un lutto di Gennarino Placco
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XXVIII

(Un lutto di Gennarino Placco).

Santo Stefano, 17 marzo 1855.


Oh quanti strazi, oh che crudeli strazi di cuore sono nel doloroso ergastolo! Il mio povero amico Gennarino ha ricevuto in una lettera di suo zio la novella che suo fratello Luciano, giovane di ventisette anni, marito e padre di due angeletti, fu assassinato dai ladri. Giá il mio amico sapeva che suo fratello dormendo una notte, che fu quella del 17 settembre dell’anno passato, in una casetta di un suo podere, fu preso, e menato via da alcuni ladri, i quali richiesero per riscatto una grossa somma di danaro, ed ebbero settecento trenta ducati: ma il giovane non fu rimandato. Alla dolente famiglia molti per pietá, per malizia, per iscellerata voglia di guadagno erano andati a dire ora che i briganti erano usciti fuori della provincia, ora che erano stati veduti col giovane al tal luogo, ora al tale altro: e la famiglia diceva: «Se sono briganti vorranno altro danaro, noi lo manderemo, e Luciano tornerá». Anche Gennarino era in questa aspettazione, e da quattro mesi attendeva che una lettera gli dicesse: «È tornato». È venuta una lettera, e gli ha detto: «L’infelice tuo fratello Luciano fu assassinato forse la stessa notte che i ladri ebbero il danaro»: lo zio gli narra come fu discoperto l’orribile misfatto. Nei primi giorni del mese di febbraio un villano andando a tagliar legne in un vallone profondo presso a un roveto vide riescir dalla terra le ossa di un piede umano: corse tosto a riferirne al giudice istruttore di Castrovillari, il quale, sapendo la presa del giovane, come udí la novella, disse tosto: «Questi è il povero Placco assassinato». Andò nel remoto vallone, fe’ cavare la terra, trovò le ossa di un cadavere, il cranio traforato come da una palla, le vesti non interamente disfatte, ed [p. 392 modifica] un portafoglio nel quale erano alcune carte dove il giovane scriveva di sua mano i conti della campagna, quanti buoi, quante pecore, quanti lavoratori aveva: erano una canzoncina scritta da suo fratello Ciro, una immagine della beata Vergine, un calamaio, un pettine, uno specchio. Il giudice trovando questi oggetti, disse: «Questo giovane era un santo». Le ossa, le vesti, il portafoglio furono portati in Castrovillari, riconosciuta ogni cosa dai parenti. Sepolte le poche reliquie, sono stati scoperti gli assassini, è cominciato il processo.

La famiglia di Gennarino col lavoro del padre e col senno dello zio prete ha acquistata una certa comoditá nel suo paesello: ed il giovane Luciano con le stesse arti del padre suo, col lavoro, con la buona fede, con la semplicitá di costumi, s’era acquistata la generale benevolenza. Non armi, non intrighi, non nimicizie, non amorazzi: ma campagna casa e chiesa, questo era il mondo per lui. Due ribaldi del paese, fatta una combriccola con altri di paeselli vicini, pensano che da questa famiglia possono prendere molto danaro e nulla temere, come da gente quieta ed innocente. E messo ad effetto facilmente lo scellerato pensiero, ed avuto il danaro uccidono il disgraziato giovane, il quale li conosceva quasi tutti, ed era stato compagno della fanciullezza. E questa è stata la cagione dello scellerato assassinio. Il buon giovane è stato compianto da quanti lo conoscevano, o n’hanno udito parlare.

Il mio povero amico ha pianto a leggere la lunga e dolorosa lettera, ed ha fatto piangere anche me: ma egli giá sapeva la sua disgrazia da un’altra breve e terribile lettera scritta ad un suo paesano che è nell’ergastolo, dalla moglie. Ei non pianse a leggere quella lettera, ma lo vidi far pallido come un cadavere, impietrire gli occhi, stendere la mano quasi additando qualche cosa, e profferire certe parole albanesi. Ei vedeva le ossa del fratello, e quel teschio traforato e spezzato sotto il roveto; quelle ossa, ei mi dice, gli stanno sempre innanzi agli occhi. Gli fummo tutti intorno: ma chi poteva consolare quel dolore muto e profondo? Egli amava questo fratello tenerissimamente, egli m’aveva parlato tante [p. 393 modifica] volte della loro fanciullezza, della loro prima giovanezza, me lo aveva dipinto bello, amabile, ingenuo, semplice: m’aveva detto quante canzoni albanesi egli aveva composte per lui che la notte spesso andava cantando e facendo le serenate; mi aveva narrato come egli sposò una bella e cara fanciulla, la quale lo fece padre di una bambina e di un bambino, che si chiamano Marta e Lodovico, come si chiamavano il padre e la madre loro; mi aveva descritti tutti minutamente i riti di quel matrimonio, solennitá che gli albanesi celebrano religiosamente con una certa poesia simbolica ed antica onde anch’io ho pianto la disgrazia di quell’onesto giovane, ed ho innanzi agli occhi quelle due creaturine, che Gennarino dice ora sono figliuoli suoi. Povero amico! Egli mi parla sempre di questa disgrazia, egli ha il cuore sbranato dal dolore, e mi dice: «Vedi: io ho cinque ferite, ho una mano storpia, fui dannato a morte, ora sono nell’ergastolo per aver voluto fare il bene: e mi hanno assassinato mio fratello, Luciano mio tanto buono e caro! Ed a chi aveva fatto male, a chi poteva egli far male quell’angelo?»

Io non ho cuore di descrivere il suo dolore, di riferire le sue parole: io sento voglia di piangere anch’io.