Ricordanze della mia vita/Parte terza/XXIX. Nell'infermeria
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XXIX
(Nell’infermeria).
Santo Stefano, 8 aprile (1855) giorno di pasqua.
Sono circa un quindici giorni che il mio amico Silvio Spaventa ed io siamo in una grande stanza dell’ospedale, non per malattia di corpo, ma per fuggire l’ergastolo, avere un po’ di quiete e di solitudine, poter leggere e scrivere in silenzio, e tentare di risanare la mente ammalata. E giá mi pare di essere uscito dal tremendo ergastolo: mi vedo alquanto spazio intorno, mi vedo netto, passeggio sovra un pavimento di mattoni, non piú quelle belve nell’anfiteatro, non piú quelle voci; mi pare quasi di sognare. Oh durasse questo sogno! non tornassi piú lá!
Dal largo ed alto finestrone, che ha una buona invetriata, si vede lo spazzo che è innanzi l’ergastolo; la campagna dell’isola divisa in vari scompartimenti da muri a secco e da siepi di fichi d’india; una casipola che è sulla vetta piú alta di questo scoglio, dove sorgeva la casa di Giulia figliuola d’Augusto; una valletta nella quale pascolano una vacca, un’asina, alquante pecore e capre, guidate da un pecoraio forzato, e che si mantengono per il latte dell’ospedale: si vedono filari di viti, il grano che verdeggia sul terreno, e alquanti zappatori lontani che alle giubbe rosse si riconoscono per forzati: la sera vedo il cielo stellato, il giorno riposo l’occhio sul verde e sul mare e sulla strada che scende giú alla marina, per la quale sono salito, ora sono piú che quattro anni, e non so quando e come discenderò.
Su lo spazzo passeggiano soldati, impiegati ed altre persone libere: e vi sta sempre una nidiata di fanciulli che corrono, saltano, strillano, tendono trappole agli uccelli, scagliano sassi, si bisticciano, si voltolano per terra, fanno tutto ciò che i fanciulli sogliono fare. Io li riguardo con una tenerezza, con un amore, con uno struggimento grande. Tra essi vi è uno di un forse dieci anni che somiglia moltissimo al mio Raffaele quand’era a quell’etá. Io lo amo, lo riguardo con una passione indicibile, e stamattina l’ho veduto prestissimo scherzare con due cani, e correre, e far mille giri e rigiri. Ho voluto vederlo da vicino, gli ho dato de’ zuccherini, me l’ho fatto amico: si chiama Antonio, è figliuolo di un aiutante del chirurgo: è simigliantissimo a Raffaele sí, ma quegli occhi, quelle due stelle che sono in fronte negli occhi del mio Raffaele, quella vivacitá, quella prodigiosa elasticitá di membra, quella sveltezza e snellezza di persona, non l’ha questo caro fanciullo, che è piuttosto tranquillo e bonario. Oh quanto è diverso da questo il mio Raffaele, ora giovane di diciotto anni (ed oggi, oggi appunto ei li compie) marino, che su la flotta sarda forse veleggia per la Crimea. Va, o mio figliuolo, va, benedetto da tuo padre che col pensiero e con l’affetto ti accompagna: va difendi l’onor nostro, e torna vittorioso. Se passando vedi questo scoglio doloroso, non piangere, ma saluta tuo padre, il quale cacciando la mano dai cancelli, a cui sta affísso per iscorgere la tua nave, ti benedirá da lontano.
Potessi rimanere in questa quiete sepolcrale, sí, ma quiete, per tutto il tempo che dovrò penare nell’ergastolo! si arrestasse a questo punto il disfacimento dell’anima mia, la scomposizione del mio pensiero, l’amarezza che mi circola per tutte le vene col sangue e mi fa battere piú forte il cuore. Avessi una stilla di pace, un raggio debolissimo di luce nella mente: si rompesse questa gran tenebra che mi circonda!
Nella nostra stanza, quasi a ricordarci che stiamo nell’ergastolo, sono due altri ergastolani: uno che ci serve, ed un altro che custodisce le biancherie e le masserizie dell’ospedale, che sono poste in un’altra stanza precedente alla nostra. Ogni giorno il mio buon Gennarino mi manda una lettera affettuosa, ed io ogni giorno gli rispondo. Quanto mi duole che sono diviso da lui! Se potessi serbare le lettere che egli mi scrive, e che io a lui scrivo, resterebbe una anatomia di strazi e di tormenti che vincono ogni immaginazione, e forse si vedrebbe un nuovo genere di conforti e di consolazioni che due amici in una grande sventura si scambiano tra loro. In queste carte io non iscrivo tutto quello che sento, e che penso, e che vedo, e che odo: perché se anche avessi la forza di farlo, come e dove nascondere queste carte? Se sono prese e lette, non offenderanno nessuno. Io le scrivo non per narrare altrui ciò che patisco, ma per poter un giorno leggerlo io, e ricordarmi di queste sventure. Io potrei dimenticarmi, io temo di perdere anche la memoria: saria veramente doloroso per me se dimenticassi anche queste sventure, che son l’ultima cosa che mi rimane, e quasi direi mi son divenute care.