Ricordanze della mia vita/Parte terza/LXXV. Ricordo di Raffaele mio

LXXV. Ricordo di Raffaele mio

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Parte terza - LXXIV. Sul punto di partire Appendici

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LXXV

Ricordo di Raffaele mio.

Nel mese di gennaio io ed altri sessantacinque compagni uscimmo della galera, e fummo messi sul vapore Io Stromboli, che rimorchiato dalla fregata di guerra l’Ettore Fieramosca ci trasportò a Cadice. Lí stemmo in rada ventiquattro giorni, custoditi severamente, senza potere né scendere né vedere nessuno, aspettando che fosse noleggiata e preparata una grossa nave americana che ci doveva portare a New-York. Un giorno mentre io scrivevo, mi sento chiamare, e dire: «Un uffiziale inglese è venuto a bordo, e ha dimandato di voi». «Dov’è? chi è?» «Ha parlato due minuti col capitano, poi subito è disceso, e v’aspetta su la fregata». Io monto su la coperta, e trepidante dimando al capitano: «Dite: è mio figlio?» Egli: «Lo vedrete su la fregata». Io perdetti la conoscenza. Chi è padre può immaginare quello che io patii. Il buon capitano Cafiero mi condusse su la fregata, dove io rividi ed abbracciai il mio figliuolo dopo dieci anni giá divenuto uomo, e in divisa d’uffiziale di marina. Egli subito squadernò innanzi al Cafiero, ed al Brocchetti comandante della fregata, la sua patente, disse come era a servigio d’una compagnia inglese, e sopra un vapore che viaggiava da Londra alle Canarie. «E quando sei giunto?» «Ieri, e riparto domattina». «Dove hai saputo che io era qui?» «I giornali in Londra annunziavano la vostra partenza: l’altrieri a Lisbona ho saputo che eravate qui. Io tornerò subito a Londra, e di lí col primo postale sarò a New-York, dove vi aspetterò, o verrò subito dopo di voi, e torneremo in Inghilterra». E cosí dicendo, mi accennò con l’occhio e mi strinse la mano, e sottovoce soggiunse: «Voi non anderete in America». Tenni queste parole una bravata giovanile e sorrisi. Ci dividemmo, io tornai su lo Stromboli, [p. 486 modifica] egli a Cadice: e l’altro giorno vidi partire il vapore per le Canarie, e in buona fede credetti che egli vi fosse sopra, e stetti molto tempo a sbirciare con un occhialetto.

Dopo una settimana il legno americano fu pronto, e noi con le nostre robe vi fummo trasbordati. Lo Stromboli rimase nella baia, il Fieramosca prese a rimorchio il legno americano, e cosí rimorchiati subito s’andò via da Cadice, e ci allargammo nell’Oceano. Intanto come io salgo sul legno americano, il mio amico e compagno Felice Barilla mi si fa incontro, e dice sotto voce: «Tuo figlio è qui e travestito da cameriere. Fingi di non conoscerlo. Egli ha riconosciuto me, e mi ha pregato di avvisarti». Io entrai in una stanza su la coperta presso a quella del capitano, dove il buon Cafiero aveva fatto allogare Carlo Poerio, Cesare Braico, Silvio Spaventa e me: e rimasto ivi solo, mentre tutti gli altri attendevano alle loro robe, mi vedo innanzi Raffaele, con mezzo lacero le vesti, con la faccia lorda, un cappellaccio in testa, una brocca e una catinella in mano, che mi dice: «Stasera parleremo: state di buon animo, e mangiate bene, che a tavola avrete un buon cameriere. Non parlate». Sopravvenne Silvio Spaventa, che vedendomi turbato, mi chiese che avevo; ed io che a lui amicissimo non sapevo nasconder nulla gli dissi ogni cosa, ed entrambi conchiudemmo: «Bisogna parlargli stasera per sapere quali sono i suoi disegni». Il capitano americano con tutto il suo equipaggio non parlava né intendeva d’italiano né di francese: onde per farci servire prese per camerieri alcuni italiani che a caso si trovavano in Cadice; ma questi erano pochi atti a servire, sofferivano mal di mare, e non sapevano che farsi; onde tutti i miei compagni con gesti, e parole mezzo francesi e mezzo spagnuole cercavano di farsi intendere da John, che era Raffaele, il quale non parlava altro che l’inglese, e un po’ lo spagnuolo. Tutti comandavano John, ed egli faceva le viste di non intendere, e roteava sempre intorno a me.

Venuta la notte ci raccogliemmo in un cantuccio scuro e segreto. «Io vi diceva che non andereste in America, e non ci anderete. Quando sará finito il rimorchio, e la fregata ci [p. 487 modifica] lascerá, e sarem soli in mezzo l’Oceano il capitano dovrá voltare la prua all’Inghilterra, o con le buone o con la forza».

«Forza no, figliuol mio: perché noi abbiamo il diritto con noi. Poerio ha scritto una protesta, che sottoscritta da tutti noi, l’abbiamo inviata per la posta ai consoli francese, inglese e piemontese in Cadice. Pica ha scritto un’altra protesta, che tradotta da Schiavone in inglese, noi presenteremo al capitano quando saremo soli, nella quale gli diciamo che lo accuseremo innanzi ai tribunali di New-York».

«Che proteste, papá mio: ci vuol la forza con questo pescecane di capitano: io so come si tratta questa gente. Se non volta la prua lo legheremo».

«Piano, figliuol mio: dammi parola che non farai nulla senza il mio consenso, e che mi obbedirai in tutto: dammi questa parola, e poi discorriamo».

«Ve la do: mi siete padre, e vi debbo ubbidire».

«Va bene, or dimmi come ti trovi qui; chi ti ha aiutato, consigliato?»

«Ecco qui tutto per filo. Fatto l’esame ed approvato ufficiale, leggo su i giornali la vostra partenza da Napoli, poi l’arrivo in Cadice. Chiedo alla direzione della Peninsular and North African Company di darmi un posto sopra uno de’ loro vapori che vanno alle Canarie, col proposito di riabbracciarvi se vi trovo. Vi vedo, ritorna l’antico pensiero, e rimango a Cadice: dove saputosi che io sono figliuolo d’uno de’ deportati, ho molte carezze dai liberali, fo conoscenza col signor Oliviera, inglese, deputato al parlamento, e col conte di Casabrunet ricco e liberale signore di Cuba. A questi due propongo il mio disegno. Il capitano americano cerca dei camerieri pe’ deportati, io mi offero come cameriere per essere imbarcato con voi, ed a condurvi tutti in Inghilterra, o almeno accompagnar voi, o papá mio, in America. Con lo aiuto di quei due signori sono stato ammesso e imbarcato. Se non riesco a salvarvi, almeno vi assisto. Voi uscite da un sepolcro, e non reggereste ad una lunga navigazione».

«Ti ringrazio figliuol mio». [p. 488 modifica]

«Papá mio, io mi feci marinaio ed ho fatto il marinaio semplice per salvarvi. Basta: il capitano non parla che l’inglese, gli parlerò io, l’ha a fare con me».

«Adagio, e ricordati la parola. Dimmi: e di questi camerieri ti conosce qualcuno?»

«Uno solo; e gli ho detto che se mi svela prima che cessi il rimorchio, gli brucio le cervella; se mi aiuta gli fo dare un impiego».

«Sei troppo largo nelle minacce e nelle promesse».

Il giorno appresso io dissi ai miei amici piú cari Poerio, Pica, Braico, Schiavone, De Simone, ed altri ma pianamente e da non fare rumore che John era Raffaele, che voleva condurci in Inghilterra. Noi tutti sapevamo pur troppo che le carte e le proteste non servono a nulla, ed eravamo rassegnati ad andar in America, perché vedevamo che era impossibile non andarvi; ma come fu visto in mezzo a noi Raffaele, un marino, e che poteva far intendere al capitano i nostri pensieri, quel proposito si mutò, e sperammo di non andarvi. Quando finí il rimorchio dopo trent’ore, e la fregata si allontanò, Raffaele fu conosciuto da tutti con molta gioia; e quando la fregata disparve dall’orizzonte, ci presentammo al capitano con Raffaele non piú cameriere, ma vestito da uffiziale di marina. Il capitano cadde dalle nuvole: parlò con Raffaele, e disse, che egli aveva un contratto, che noi lo rovineremmo, gli dessimo almeno noi il resto del nolo che doveva avere dal console napolitano in New-York, che dicessimo di averlo forzato a voltar la prua. E noi rispondemmo, esser poveri e non potergli dar nulla: non volerlo forzare, né dire di averlo forzato; dover egli esser forzato dal fatto suo stesso di averci preso come un branco di negri senza averci interrogati. Il capitano non si persuase, sperò di cavarci danari, seguitò la sua via verso ponente.

Raffaele sbuffava e mi diceva: «Le parole non fanno niente con costui. Bisogna legarlo, condurrò io il bastimento».

«Figliuol mio smetti l’idea della forza. Una violenza produrrebbe qui una rovina». [p. 489 modifica]

«L’equipaggio è di soli diciassette».

«Ma ci sono quei due negri, che valgono per cinquanta».

«Io ho quattro pistole, e accheterò quattro negri».

«Raffaele mio, acchetati. Che rimorso sarebbe per noi di spargere sangue per non voler fare un viaggio un poco piú lungo? E se cade qualcuno de’ nostri? Oh, non pensare neppure a queste cose».

Con le buone parole mi feci consegnare le quattro pistole che consegnai a Francesco de Simone due, e due a Ferdinando Bianchi.

Intanto gli altri compagni che alla vista di Raffaele avevano levato gli animi e le speranze, sapendo il niego del capitano, sospettarono che questi la notte facesse chiudere sotto-coperta il giovane, e poi incatenar tutti, e Dio sa che altro: onde tutta la notte stettero quattro a guardia su la coperta, scambiandosi con altri quattro.

La mattina fu riferito al capitano che la notte s’era fatta questa guardia, e gli furono anche portate alcune capsule cadute al De Simone o al Ferdinando Bianchi mentre io lor porgeva le pistole. Il capitano al vedere queste capsule ci credette armati, fece gran sospetti per la guardia, ci sapeva usciti delle galere, e che eravam sessantasei, ebbe una paura maledetta. La paura vinse l’avarizia: chiamò la sua gente: dichiarò, che noi non volevamo andare in America, che egli dirigeva la prua per Cork in Irlanda.

Come l’equipaggio udí questo gridò «Urrah», e i due negri gridando «liberty» vollero abbracciare captain Raphael, e non si saziavano mai di riguardarlo, e sorridergli scrollando il capo.

Dal cambiamento di corsa fino a Cork durammo quattordici giorni. E da quella navigazione di quattordici giorni potemmo giudicare che sarebbe avvenuto di noi se fossimo andati a New-York in cinquanta o sessanta giorni sopra un legno a vela.

Il corridoio sotto coperta aveva sessanta letti intorno, e le tavole di pranzo in mezzo. Dalla stiva s’innalzava un puzzo [p. 490 modifica] fortissimo, che veniva da galline, tacchini, capre, pecore, oche, conigli, che dovevano servirci per cibo. Quasi tutti sofferivano mal di mare, e i camerieri anch’essi, e non potevano né spazzare né fare altro servigio; sicché nel muoversi del legno vedevi cader piatti e bottiglie e pitali, e correr brodo, vomito, e orina a rigagnoli. Il puzzo era grande, il sudiciume orribile, ognuno gettato sul suo giaciglio non aveva forza di muoversi non reggeva cibo nello stomaco, non poteva neppure avvicinarlo alla bocca. L’equipaggio attendeva alla manovra delle vele, e non si curava punto di noi. Alcuni de’ nostri erano proprio sfiniti: non so se saremmo giunti tutti vivi in America.

Il 6 marzo si sbarcava a Queenstown nella baia di Cork.

Io narro di quei fatti solamente la parte che riguarda Raffaele, serbando ad altra scrittura la narrazione compiuta d’ogni cosa. Andammo subito a Londra Raffaele ed io, e fummo accolti dal caro Panizzi, dal marchese d’Azeglio ministro sardo, da Giuseppe Devincenzi, dei quali serberò sempre carissima memoria. Molti signori inglesi vollero vederci, e ci accolsero con quella cortesia che è proprio di un popolo grande e generoso.

Raffaele per una lettera dell’Oliviera che lo raccomandava al Roebuck, e per l’azione che aveva fatta, entrò subito come uffíziale nella gran compagnia Transatlantica, e fece parecchi viaggi da Galway a New-York con soddisfazione e lode della compagnia, che gliene rilasciò attestati in iscritto.

In aprile 1860 tornai in Italia, e lasciai Raffaele che navigava ai servigi della compagnia Greco-orientale deliberato di venire in Italia, ed entrare alla marina da guerra italiana quando vi potrebbe entrare.