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202 parte terza - capitolo lxxv [488]


«Papá mio, io mi feci marinaio ed ho fatto il marinaio semplice per salvarvi. Basta: il capitano non parla che l’inglese, gli parlerò io, l’ha a fare con me».

«Adagio, e ricordati la parola. Dimmi: e di questi camerieri ti conosce qualcuno?»

«Uno solo; e gli ho detto che se mi svela prima che cessi il rimorchio, gli brucio le cervella; se mi aiuta gli fo dare un impiego».

«Sei troppo largo nelle minacce e nelle promesse».

Il giorno appresso io dissi ai miei amici piú cari Poerio, Pica, Braico, Schiavone, De Simone, ed altri ma pianamente e da non fare rumore che John era Raffaele, che voleva condurci in Inghilterra. Noi tutti sapevamo pur troppo che le carte e le proteste non servono a nulla, ed eravamo rassegnati ad andar in America, perché vedevamo che era impossibile non andarvi; ma come fu visto in mezzo a noi Raffaele, un marino, e che poteva far intendere al capitano i nostri pensieri, quel proposito si mutò, e sperammo di non andarvi. Quando finí il rimorchio dopo trent’ore, e la fregata si allontanò, Raffaele fu conosciuto da tutti con molta gioia; e quando la fregata disparve dall’orizzonte, ci presentammo al capitano con Raffaele non piú cameriere, ma vestito da uffiziale di marina. Il capitano cadde dalle nuvole: parlò con Raffaele, e disse, che egli aveva un contratto, che noi lo rovineremmo, gli dessimo almeno noi il resto del nolo che doveva avere dal console napolitano in New-York, che dicessimo di averlo forzato a voltar la prua. E noi rispondemmo, esser poveri e non potergli dar nulla: non volerlo forzare, né dire di averlo forzato; dover egli esser forzato dal fatto suo stesso di averci preso come un branco di negri senza averci interrogati. Il capitano non si persuase, sperò di cavarci danari, seguitò la sua via verso ponente.

Raffaele sbuffava e mi diceva: «Le parole non fanno niente con costui. Bisogna legarlo, condurrò io il bastimento».

«Figliuol mio smetti l’idea della forza. Una violenza produrrebbe qui una rovina».