Ricordanze della mia vita/Parte prima/XXIII. La reazione

XXIII. La reazione

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XXIII

La reazione.

Re Ferdinando fu il primo de’ príncipi di Europa a cominciare la reazione. Per nostra dissennatezza vinse il 15 maggio, e ripigliato il sentimento della sua forza, richiamò l’esercito di Lombardia, e subito si volse a domare l’insurrezione di Calabria. Come seppe la disfatta di Carlo Alberto, e il ritorno degli austriaci in Milano nei primi giorni di agosto, egli manda il Filangieri a riconquistare la Sicilia, proroga le Camere, e bandisce lo stato d’assedio in Napoli. Vince Messina con molto sangue, ed accetta un armistizio che gli viene proposto ed imposto dall’Inghilterra e dalla Francia: e intanto riforma il suo ministero, dá al Bozzelli come un’offa l’istruzione pubblica, e mette all’interno Raffaele Longobardi, fa prefetto di polizia un Gaetano Peccheneda, brutto e sozzo furfante, prete e sbirro, e schiuma di mariuolo. A la gioia per la presa di Messina successe lo sgomento per la rivoluzione di Vienna in ottobre; e poi la costituente in Toscana, e poi l’uccisione di Pellegrino Rossi in Roma il 15 novembre, e la fuga del papa che viene in Gaeta il 26 e la costituente italiana a Roma, e poi la novella che il 10 dicembre Luigi Napoleone Bonaparte è eletto presidente della repubblica francese. Fu forza temporeggiare, e prorogare per altro tempo le Camere sino il primo febbraio. Cominciava l’anno 1849. Il papa da Gaeta chiedeva aiuto a la Francia, all’Austria, a la Spagna, al re delle due Sicilie, che gli proffersero le loro armi; gliele profferse ancora il Piemonte, ed egli le ricusò. Intanto segue la battaglia di Novara il 23 marzo. Molti uffiziali in Napoli celebrano con un banchetto la vittoria degli austriaci: e il Filangieri andato primo a Gaeta a prendere congedo dal re e la benedizione del papa, tornava il 26 marzo a Messina e moveva l’esercito a domar la Sicilia; [p. 218 modifica] il 7 aprile fu presa ed arsa Catania dove avvennero orribili fatti, poi furono sottomesse altre cittá, ultima Palermo si rese il 15 maggio 1849. Intanto francesi, austriaci, spagnuoli e napoletani movevano contro Roma. I francesi sono vinti il 30 aprile e fanno armistizio: i napoletani guidati da esso Ferdinando sono vinti a Velletri e tornano nel regno. Il 25 maggio gli austriaci entrano a Firenze, il 30 (giugno) i francesi in Roma: la rivoluzione è vinta in ogni parte. Re Ferdinando che ha vinto coi suoi soldati, attende a riordinare lo stato coi birri e coi giudici, ad arrestare, processare, condannare molte migliaia di persone: rimuta il ministero, non teme piú nulla, si lascia pregare con petizione di abolire la costituzione, ed egli non l’abolisce con decreto, ma non se ne cura piú e la dimentica. E pure ha paura: tutti i cancelli del palazzo reale sono muniti di cannoni: cannoni su la loggia del palazzo rimpetto San Ferdinando; cannoni su la consulta, oggi scuola di marina, cannoni su la caserma al gigante, cannoni su gli alti torrioni di Castelnuovo, cannoni su la via di San Martino sotto castel Sant’Elmo, cannoni incoronavano castel Sant’Elmo. Tutti questi cannoni avrebbero subissate dieci cittá, e non tirarono mai un colpo.

Martedi 5 settembre (1848)1. Il ministro Francesco Paolo Ruggiero nella Camera dei deputati lesse il decreto che prorogava il parlamento al 30 novembre: tutti l’attendevano, non risposero una parola, e andarono via. Tre ore dopo il mezzodí dalla contrada di Santa Lucia una moltitudine di plebe fecciosa, di donne e di fanciulli movevano dietro una bandiera bianca, e gridavano: «Viva il re, abbasso la costituzione». Passando innanzi la reggia, un capitano delle guardie reali voleva disperderli, ma altri ufficiali della camerilla comandarono di farli passare: onde seguitarono per tutta la via Toledo gridando quelle oscene grida. Io li vidi e riconobbi Nicola Funari, notissima spia, che li guidava: riconobbi fra essi il commessario di polizia Cioffi, e presso colui che portava la bandiera [p. 219 modifica] vidi Nicola Merenda con uno stocco in mano. Costui era segretario generale della prefettura di polizia, e aveva dato due carlini per uno a quella gente, e non si vergognava di mostrarsi guidatore di quella sozza marmaglia che andava strillando e minacciando chiunque non rispondeva a quelle grida. La via Toledo era come diserta. Quella dimostrazione fu fatta dalla polizia; ed io vidi con gli occhi miei quei tre agenti di polizia che la guidavano. Alloro ritorno, i popolani che abitavano nel quartiere di Montecalvario sopra Toledo, sbucano dai vicoli, e gridando «Viva la costituzione», scagliano una grandine di sassi, e fanno fuggire quella plebaglia. Accorrono piccoli drappelli di soldati che tirano fucilate, ma i sassi volano da ogni parte, e i soldati si sparpagliano: i popolani ne disarmano alcuni, li percuotono, e li costringono a gridare «Viva la costituzione». Un arditissimo assalta il Cioffi, gli da due schiaffi, gli strappa di mano la bandiera bianca, e lo percuote con l’asta: vede che un soldato gli ha spianato il fucile contro, si getta a terra, sorge salvo e fugge. Il Merenda si chiuse fra i suoi birri.

Sopravvennero altri soldati piú numerosi, i popolani si dispersero: tutto il quartiere di Montecalvario è chiuso ed assediato da soldati, i quali per il rimanente di quel giorno, e la notte, e il giorno appresso entrarono in tutte le case cercando armi e i rivoltosi.

Nel giorno 6, grossi drappelli di soldati a cavallo con le pistole impugnate percorsero via Toledo: allo sbocco di ogni vicolo è un drappello di armati che fermano ogni persona che passa di 1á, e la ricerca nelle vesti, e arrestano parecchi. Innanzi la reggia sono aggruppati molti ufficiali e soldati, e aspettano qualche gran fatto. Intanto altri popolani si uniscono, vanno al Carmine da un tavernaio detto monzú Arena capo di realisti, birbone caro al re e alla camerilla: non lo trovano, invadono la casa, rompono tutte le masserizie, costringono il figlio e la moglie ad inginocchiarsi e a gridare «viva la costituzione». Il tavernaio era fuggito, e corse anelante a la reggia a narrare ogni cosa e subito escono soldati a cavallo, e corrono [p. 220 modifica] verso il Carmine. I popolani si disperdono. Altri assaltano la casa dello Schiavone, il quale gittandosi da una finestra si rompe una gamba ed un braccio: il lazzaro Caporale che portava una bandiera bianca è inseguito, fugge in una casa, si afferra ad una fune per discendere in un pozzo e salvarsi, ma cade nell’acqua e si annega. Nella piazza della Pignasecca serrano le vie con panche e seggiole, poi con le pietre scavalcano due lancieri, e fanno fuggire gli altri. Insomma una parte del popolo, che erano specialmente artigiani, voleva la costituzione.

Quando il re seppe questi fatti si batte la fronte, e si volse inviperato a quelli che lo circondavano, e disse: «Mi avevate fatto credere che il popolo era tutto per me, ed io veggo molti che stanno contro di me». La camerilla sdegnata che la dimostrazione non era riuscita come ella voleva, e che il popolo non si era mostrato avverso a la costituzione, arrestò molti popolani, e fece loro un processo, che fu il processo del 5 settembre.

Il 7 settembre uscí un’ordinanza che vietava ogni dimostrazione e qualunque grida sotto qualunque bandiera. Il ministero muta: il Bozzelli passa all’istruzione pubblica: all’interno è chiamato Raffaele Longobardi, che giá aveva governato la Polizia, ed era magistrato: a prefetto di polizia Gaetano Peccheneda: il Merenda è allontanato dall’ufficio, che egli aveva proprio sporcato, ma ritiene il suo stipendio. La sera di quel giorno il telegrafo annunzia la presa di Messina. Per sette giorni si era combattuto a Messina con gran sangue, e rovine, e la cittá era mezzo distrutta.

Il giorno 8 settembre non si fa la solita festa di Piedigrotta dove andavano tanti soldati, e accorreva tanta gente: il re senza pompa va per mare a visitare la madonna, e a ringraziarla della conquista di Messina, e mentre egli prega, in Messina continua il saccheggio, l’incendio e la strage.

Venne la notizia che Demetrio Andruzzi, capitano di artiglieria, colto, bravo, liberale che aveva cospirato con noi nel ’47, era morto combattendo contro Messina: partí da Napoli fieramente sdegnato contro i siciliani. L’Andruzzi era uomo di [p. 221 modifica] azione, e non poteva patire le chiacchiere degli avvocati: era un uffiziale dell’esercito, e si sentiva ardere il cuore alle ingiurie e contumelie che i siciliani gettavano su tutti i soldati napoletani chiamandoli vigliacchi e sgherri e infami: era liberale, ma diceva che egli era nemico di quella libertá che in Sicilia faceva bollire in una pignatta la carne dei soldati uccisi, e mangiarla con la pasta. E se l’Andruzzi diceva questo, che pur troppo era vero, che dovevano dire gli altri uffiziali, e soldati stessi? erano non pure sdegnati, ma inferociti, e fecero cose orrende. Chi sa come sono fatti gli uomini, e come vengono in furore non tanto per ferite e morti che si dánno, quanto per le ingiurie che si scagliano, le quali pungono con dolore minuto, fitto, continuo, spiegherá come i soldati napoletani non vollero seguire il Pepe, e corsero in Sicilia e combatterono con accanimento e ferocia contro i cittadini. Fa piú male la lingua che il coltello. Troppo tardi si vide che non si doveva offendere con le parole chi aveva le armi in mano. E i siciliani in ingiurie trasmodarono piú che i napoletani, e piú patirono. No, io non dirò mai quello che si è detto, ed è stata l’ultima calunnia, che l’esercito napoletano era un branco di vigliacchi feroci. Era un esercito come tutti gli altri, come il piemontese, come l’austriaco, come il francese, ubbidiva al re, aveva piena fede nel re, e questa è virtú e forza in un esercito; fece quello che tutti gli eserciti del re hanno fatto nel mondo: la colpa fu nostra che lo inasprimmo con parole ingiuriose come fanno le femminette: fu nostra colpa che facemmo come il cane che morde la pietra non la mano che l’ha scagliata. Povero esercito napoletano, ingiuriato e calunniato da noi stessi! Le vittorie si attribuiscono giustamente al capitano, che è la mente motrice delle mille braccia; e perché le sconfitte, e le male azioni non si debbono attribuire anche al capitano? a quella mente suprema che se è perversa pervertisce tutti?




  1. [Questo ritorno indietro mostra che queste pagine non ebbero l’ultima mano. N. d. E.]