Questioni urgenti (d'Azeglio)/4
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IV.
Eppure, mentre l’intera Europa senza differenza di opinioni applaudiva a Vittorio Emanuele, ed al suo Ministero; mentre la nazione in massa era invasa dalla gioia e dalla gratitudine per l’immensa vittoria che ci portava quasi alla meta de’ nostri voti, si sono trovati cuori nei quali ad un tanto spettacolo non s’è destato che un solo sentimento: L’Indipendenza Italiana non dev’essere opera d’un Re!
Tale fu il loro pensiero. Ma il pensiero di chi?
A questo è difficile rispondere.
Tanti nomi corrono di partiti: partiti repubblicano, rosso, del movimento, mazziniano, rivoluzionario cosmopolita, democratico ec. ec.
E prima di stampare in fronte ad uno di loro il marchio di quella immensa ingratitudine, sarebbe pur bene sapere se non si sbaglia.
Ma lasciamo da un canto i nomi. Non si può però sbagliare dicendo che quest’ingratitudine fu di quel partito che nella società politica si vuol liberare dalla responsabilità comune, che se ne sente inceppato nelle sue aspirazioni a dominar esso su tutti; a farsi riconoscere come la sola e la vera autorità; ad usurpare esso solo quella forza direttrice che è il diritto della società intera, il diritto comune: di quel partito che alterando il significato del vocabolo democrazia, lo farebbe diventare, se prevalesse, la più stretta e più privilegiata delle oligarchie, per finire, come sempre, in una tirannide.
Anche sulla democrazia è corso un grande equivoco, fonte di falsi giudizi, per chi vive d’idee acquistate da altri, e non è capace di fabbricarsele da se col proprio criterio.
Quelli ai quali mette conto falsare i cervelli e le idee, parlano del futuro trionfo della democrazia, della felicità di chi vivrà allora, e con queste lusinghe trovano seguaci, aiuti, e soprattutto influenza e potere.
Mi fanno l’effetto degli Ebrei che stanno aspettando il Messia, mentre è 1861 anni che è nato!
La democrazia trionfò il giorno nel quale tutti i cittadini d’uno Stato vennero dichiarati eguali davanti alla Legge; e chi ne aspetta un’altra, avrà da aspettare un pezzo.
A quella giusta e ragionevole democrazia, frutto del dogma cristiano come dell’illuminata ragione de’ tempi, apparteniamo tutti. Di questa è codice lo Statuto, è capo e difensore il Re. Essa si fa viva nel Parlamento, porta in alto gli uomini di sua fiducia, e confida loro la direzione de’ suoi affari, aprendo ad essi la via del Ministero.
Ma questa democrazia non serve a gran cosa a quella minorità malcontenta, la quale facendo poco incontro cogli elettori e col pubblico, che, o non sa che esista, o lo sa anche troppo, si vede messa da parte, o almeno alla coda di tutti.
Chi invece vuol essere alla testa (e notiamo che questa voglia è quasi sempre in ragion inversa della capacità), bisogna pure che inventi alcun che di diverso; e questo alcun che è sempre stato, e sempre sarà quella falsa democrazia, che si dice demagogia in politica, ed il cui nome teologico, più facile ad intendersi per chi non sa il greco, è semplicemente l'invidia.
Si capisce che in tutti i paesi del mondo si trovi questa classe di gente senza posizione, invidiosa dell’altrui, irrequieta, e smaniosa di emergere. Si capisce che la condizione comune ispiri consigli comuni; che ne segua il bisogno d’intendersi ed agire d’accordo, di formare società più o meno segrete; e questo è difatti quel che vediamo, e che produce quell’agglomerazione d’uomini d’ogni paese, d’interessi disparati, d’ordinamenti però, e soprattutto di tendenze concordi, conosciuta sotto il nome di rivoluzione cosmopolita. È inutile l’aggiungere che non pongo in questa categoria gli onorati Esuli di varii paesi che lavorano per risuscitare la loro nazionalità.
Questo partito dunque vedendo il Re, il conte di Cavour, e chi sta con loro, sempre fortunatamente a capo dell’impresa, e quel che è più, vedendo che riescono, ne aveva turbati i sonni, e cercava il modo di levare le redini di mano a chi le teneva.
La difficoltà stava nel trovare questo modo, e non era piccola.