Questa, che tra le man nuova mi suona
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IX
PER FRANCESCO MARIA DELLA ROVERE
duca d'urbino
Questa, che tra le man nuova mi suona,
Cetra, onde i versi hanno soave impero,
Diellami il biondo Arciero,
Re di Permesso eterno, e d’Elicona:
Ed io sulle sue corde anice e canore
Tesso d’Italia il più sublime onore.
Ma per via calpestata orme novelle
Sempre segnar forse cammin fia vile;
Dunque un volar gentile
Facciamo or sulle nubi, e sulle stelle;
E dell'immortal Pindo aura vivace
Erga ne' corsi immensi il volo audace.
Fugga timor, che su del Ciel nell’alto
Innocenza mortai non trovi schermo;
Come vil vetro, e infermo
Contra virtute insidioso assalto;
Ma se in campo talor malizia è forte,
Valor s’avanza per contraria sorte.
Chi mal da rio pensier più grave inganno,
Che ’l vecchio in Argo Regnator sofferse?
Ei lusingando offerse
Bellerofonte a sanguinoso affanno;
E pur da gire al Ciel gli erse le scale;
E lassuso a volar gli impennò l'ale.
Lungo sospinto da’ paterni chiostri
L’alto Garzon per la real preghiera,
Non paventò chimera
Ineffabile immagine de' mostri,
Usa con denti, e con ardenti artigli
Di certa morte minacciar perigli.
Vinto l’atro soffiar degli Etnei lampi
A quel comune orror la vita ei tolse:
Indi il corso rivolse
A trionfar del Termodonte a’ campi;
Altrove armato con fulminea spada
D'Èrebo a tanti fé' calcar la strada.
Quinci di lucid’ or crespa le chiome
La bella Clio tutta odorata il grembo,
D'auree viole un nembo
Gli sparge eterno, e ne fa conto il nome
E se rio tempo a depredar s'affretta.
Con l'arco della cetra ella il saetta.
Aggia Cocito, e scura morte e scherno
Chi di Parnaso i dolci canti ha seco;
Ma sciocco il vulgo e cieco
Cangia con gemme frali un suono eterno.
Quasi il nocchier della fatal palude
Con altro varchi, che con l'ombre ignudo.
Or per questa d’onor montana via,
Buon Greco, l'orme tue non saran sole;
Che teco giunger vuole
Compagno di valor, Savona mia,
Possente in giostra di crudel destino,
Pregio eterno di lei, pregio d’Urbino.
O quanto incontro a lui dura battaglia
Odio ed invidia suscitaro in terra!
Ma travagliando in guerra,
Qual furor altro al suo furor s’agguaglia?
Non borea in mar, non Ocean mugghiatile,
Non fu per l'alto ciel fiamma tonante.
Musa, corto cantar sai ch'è bell'arte;
Lungo dir noja; ove volar li scemo?
Di’, come chiaro eterno
Il bel nome di lui, gloria di Marte;
Su per vai di Metauro alto risuona.
Ove d’invitto ardir colse corona.
Tempo era allor, che sull'orribil corno
Traea l'arida piaggia, e ’l bosco ombroso
É torbido e spumoso,
Fremea tra gli ampj gorghi il fiume intorno,
Nè men tra’ ferri in sulla sponda avversa
Fremea gran gente incontro a lui conversa.
Ed ei fervido il cor d’alto disdegno
Spinse nel gran torrente il gran destriero,
Come spinge nocchiero
Per la calma del mar sicuro il legno:
Ma non, come nocchier, la spada strinse,
Ch'atra fe’ l'onda, e l'inimico estinse.
Così posar senza anelar non lice,
Che a bella gloria con sudor perviense;
Per tutto ciò non pensi
Farsi per lungo spazio alma felice:
Quaggiù da nona a vespro il piacer dura
Solo è nel Ciel felicità sicura.
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