Primo maggio/Parte settima/III
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La maraviglia fu così profonda in Alberto che quasi sospese in lui il senso della gioia pel ritorno di sua moglie. Era una di quelle rivelazioni, che suscitano una folla di curiosità nuove. Perché i due nomi diversi? E come essa conosceva che la moglie d’Alberto era la sua antica amica? Perché mai era a Torino, perché non s’era rivelata a lui? Che cos’era seguito di lei in tutti quegli anni? A queste curiosità essa non soddisfece che in parte lì sul momento, dopo che Cambiasi, stupefatto lui pure, se ne fu andato, per non imbarazzare un colloquio intimo. Dei due nomi Angiola Maria, essa non aveva conservato che il secondo, e dei cognomi aveva assunto solo quello di suo marito morto, ritornando dopo molti anni in Piemonte, per non ridestare coi nomi antichi la memoria dei fatti clamorosi per cui era stata costretta ad andarsene. Del matrimonio di Giulia era stata informata da una sua zia, dimorante in Torino, un anno dopo ch’era seguito, e mentre essa era in Sicilia. Tornata appena a Torino, aveva chiesto di lei, aveva avuto un immenso desiderio di andarla a cercare. Ma quel po’ di rumore che s’era fatto subito intorno al suo nome, per il fatto nuovo d’una donna datasi alla propaganda socialista, e le calunnie scellerate di cui ella sapeva essere oggetto, le avevan fatto rinunziare, per debito di delicatezza, a cercarla. Così non aveva detto nulla al Bianchini, per non parere di voler far fare alla signora il passo che essa non doveva fare. Ma quante volte era andata in piazza dello Statuto per vederla uscir di casa! E quale sforzo aveva dovuto fare, la prima volta che l’aveva vista col suo ragazzo, per non cedere all’impulso violento del cuore che l’aveva spinta verso di lei! E altre volte, incontrandola, s’era scansata, con grande tristezza, per non esser riconosciuta; e mille volte aveva fatto il proposito di andare, di farsi riconoscere per via, di scriverle; ma sempre la coscienza glie l’aveva impedito. Solo da ultimo, sapendo l’accaduto, essa aveva fatto il proponimento di vederla in qualche modo, fuori di casa sua, per tentar d’indurla a ritornare con Alberto, invocando la sua ragione e il suo cuore... Ma forse neanche questa volta avrebbe avuto animo di mettere in atto il suo pensiero.
E detto questo, rapidamente, a Giulia che le sedeva davanti, tenendole le mani, con l’anima affollata di memorie e gli occhi gonfi di lacrime, essa le raccontò con parole precipitose la sua vita di quei dodici anni, una serie di dolori e di tragedie che avrebbero spezzata ogni altr’anima che la sua. Dal villaggio della villa di Giulia, dov’aveva passata quell’orrenda prova, era stata mandata maestra in un comune del Lodigiano, dove un bravo giovine siciliano, impiegato delle Poste, Marco Zara, generoso e coraggioso, tutto ardente delle nuove idee, s’era preso d’affetto per lei, per le sventure che aveva patite: s’erano sposati. Poco dopo egli aveva ottenuto d’esser trasferito in un comune di Sicilia, dove essa aveva trovato un posto di maestra. Qui, dopo qualche tempo, eran giunte dal villaggio di Giulia delle lettere infami di calunnia d’antichi suoi persecutori, che, dando per vero quello che era stato provato luminosamente falso, l’avevano messa in discredito della popolazione, che le aveva messo il soprannome "la suicida"; anche suo marito, addolorato e irritato, reagendo, s’era messo in urto con molte persone, specie coi signori, e fattosi prendere in odio. Dopo molti contrasti e amarezze, avendo fatto fiera opposizione nelle elezioni a un potente del luogo, era stato trovato una mattina morto in un burrone vicino al paese, senza che mai venisse scoperta la mano sicaria che l’aveva ucciso. Essa medesima, minacciata in casa, di notte da una mano di contadini prezzolati, aveva dovuto fuggire dal paese, con un bambino di pochi mesi tra le braccia, sola, come una pazza, rischiando la vita per sentieri sconosciuti. Le era stata resa giustizia, però, e aveva ottenuto un altro posto, vicino a Messina, dove il bimbo le era morto per il latte avvelenato dalle angoscie e dai terrori di cui l’aveva nutrito. Dopo d’allora, era andata pellegrinando, tre anni maestra nelle Calabrie, tre anni a Foggia, poi cinque nel Friuli, fin che, chiamata a Torino da sua zia moribonda, era venuta ad assisterla e a seppellirla e non s’era più mossa. In quel suo lungo pellegrinaggio, essa aveva visto miserie, dolori, orrori che avevano dato un nuovo indirizzo alla sua vita. Aveva visto, dai miseri contadini dell’agro lodigiano, mangiare quel pane che il Pallavicini diceva avrebbero rifiutato allo Spielberg, aveva visto nell’inferno delle zolfatare di Sicilia lavorare degli esseri ridotti in uno stato inferiore all’umanità, aveva visto i "chiusuranti" del Veneto, viventi in capanne in cui penetra l’acqua, e mangiare i pesci di rifiuto delle paludi - aveva visto nelle Calabrie le miserie inenarrabili delle emigrazioni, - in Sicilia la misera vita dei coltivatori dei latifondi, - aveva visto nell’Italia meridionale, e un po’ dovunque, nei villaggi, il Medio Evo ancora vivente, compiacenze scellerate della giustizia per i potenti, principotti aventi in mano il clero, l’autorità, la stampa, la vita, la libertà, l’onore di migliaia di persone, di persone?, di mandre umane tosate, percosse e derise - aveva visto compiacenze scellerate della giustizia, persecuzioni, abusi, dolori, infamie, che le avevano lacerato l’anima. E per un tempo il suo cuore s’era inasprito, aveva odiato e imprecato, e maledetto il mondo. Ma poi un caso l’aveva mutata, un libro capitatole per le mani, Henry George - e quelle ultime pagine sublimi in cui fa brillare l’aurora d’un nuovo mondo, l’avevano sconvolta. Le era entrata una speranza, a cui aveva cercato alimento in altri libri. Era entrata in un nuovo ordine di idee. Le era apparso uno scopo alla vita. Aveva studiato e pensato. E per impulso della ragione e del cuore, preparata a tutto, rassegnata a tutto, s’era messa per la nuova via, risoluta a dare ogni suo pensiero, ogni suo palpito, ogni ora della sua vita, e anche la vita, a quell’Idea. Detto questo, tirò giù il velo, come se volesse stenderlo a un tempo sul suo viso e sulla sua anima, e abbracciata con trasporto Giulia, come se fosse l’ultimo abbraccio, e baciato in fronte, con infinito affetto, il fanciullo, fece l’atto d’andarsene. Giulia ebbe una scossa. Le mise le braccia al collo, dicendole con affanno supplichevole: - Ci rivedremo, Angiola, non è vero? Verrai qui ogni giorno? Verrò da te? Non ci lasceremo più?... - Essa esitò un po’; poi disse lentamente: - Ci rivedremo... qualche volta. - Giulia protestò. - Cara Giulia - essa rispose con una certa severità affettuosa... - bisogna che sia così. - Ed uscì facendo un cenno appassionato d’addio, prima che avesse il tempo di riafferrarla.
Ma Giulia non aveva ancora rimesso le braccia intorno al capo di suo marito, che Bianchini padre e la moglie, avvertiti da Cambiasi, entravano. Il pover uomo li mosse a pietà tutti e due: baciato appena il figlio, egli si mise a piangere come un bambino, con una tale violenza, che tutti e tre stentarono a quetarlo. La madre stessa, baciando Alberto, parve molto commossa, non poté parlare; ma, appena ricomposta, si voltò da Giulia, e le domandò chi fosse la signora che avevano incontrata per le scale, con un’espressione di sospetto così inquieta e severa, che quella credette di dover mentire, dicendole che nessuna signora era venuta da loro. E soltanto una reazione impetuosa a cui s’abbandonò Bianchini padre le impedì d’insistere nelle sue domande. Ah le canaglie! Gli assassini infami! Glielo volevano anche ammazzare il suo figliuolo! A tanto poteva giungere la rabbia e l’odio "borghese"! - E i cenni minacciosi della moglie non valsero a frenarlo. Egli si scagliò contro quel Giuda assassino di Geri figlio, che gli s’era sempre mostrato amico, e che avrebbe meritato una palla nell’occhio. Inveì contro quel petulante uomo senza cuore del vecchio Geri, che, incontrandolo mentre usciva con Cambiasi, aveva avuto la faccia di bronzo d’apostrofarlo con male parole, come se il torto fosse di suo figlio e suo, e dovesse rifargli i danni del pezzo di pelle portato via dalla testa! Schifoso avaro pitocco che ancora tre giorni prima, per non spendere dieci soldi in tranvai, aveva fatto dieci miglia a piedi per Torino, sotto il sole, a portare a venti usci le partecipazioni di morte della sua vecchia cugina! Cose che gridavano vendetta!
E avrebbe inveito anche contro il suocero, se Alberto non gli avesse fatto un cenno di preghiera. - Ma era tempo di finirla - esclamò, sentendosi come riflesso in cuore il coraggio di cui aveva dato prova suo figlio -, egli avrebbe dato una lezione memorabile, d’ora innanzi, a chi gli avesse toccato con una sola parola il suo Alberto, anche a costo di lasciarci la vita! - E fu preso da una nuova crisi di tenerezza che lo gettò al collo del ferito. Ma reagì anche contro questa, per parlar d’Ernesta, che alla notizia dell’accaduto, era stata presa da un accesso, e l’avevan dovuta mettere a letto con la febbre. E - intendiamoci - disse con fare imperioso alla moglie - anche per lei! Io intendo che d’ora innanzi non sia più tormentata! Ha da essere una casa nuova la nostra - in tutto! Una era nuova ha da incominciare! E come la madre rispondeva, Giulia li chetò tutti e due, supplicandoli, dicendo che Alberto aveva bisogno di riposo - Sta bene - disse il padre fieramente - e al suocero andrò ambasciatore io! - ma mentre lo diceva, si capiva che il coraggio gli sarebbe mancato. Infine, dopo molte offerte insistenti, che Giulia non accettò, di restare a passar la notte, - dopo molti teneri addii al figliuolo, egli se n’andò con la moglie, portando via il ragazzo, che avrebbe ricondotto il dì dopo, appena Giulia si fosse installata nell’albergo per rimanervi fino al completo ristabilimento di suo marito.
A Giulia fu data una camera accanto, con due letti, che comunicava con quella; il dì dopo si fece portare le robe più necessarie per sé e per il figliuolo, che venne a star con loro, - e vissero insieme. E allora furono giorni divini, il ritorno di tutto l’ardore della prima passione, con una vena di più profonda tenerezza, - un secondo sposalizio, un secondo amore, con gli sguardi, con le parole, con le carezze, con le voluttà del primo, ma con una più intima e più dolce fusione delle anime. Egli risentì di nuovo tutta la sua forza di donna, e quell’ineffabile odor di bambina, che pareva avesse preso una nuova freschezza; ritornò a cercarle sotto i capelli, con tutte e due le mani, le forme della testa; le ridiede i baci che cercavano l’anima, riprovò la gioia d’adolescente di ripetere venti volte il suo nome passando per tutte le note da quella del riso gioioso a quella d’un pianto supplichevole, risentì l’armonia antica e la grazia della sua voce, la gioia di tutte le cose sue, di tutti i suoi oggetti di vestiario riguardati, toccati, amati, come parti vive di lei stessa. Ed essa parve tornare a vent’anni, le ritornarono quei lampi negli occhi, quelle vampe sulle guancie, quelle modulazioni di voce infantili e carezzevoli, - riprese l’uso di parlargli tenendogli la bocca sul cuore -, e di avviticchiarsigli al collo, con le dita incrociate nei riccioli biondi della nuca, ricordando il passato, e non slacciandolo, per amorosa ostinazione, né per preghiere, né per minaccie facete, né per sforzi ch’egli facesse, e dicendo che non si sarebbe slacciata mai più, mai più nella vita. Quelle due povere camere d’albergo riboccavano d’amore e di felicità, e tutto quello che avrebbe dovuto angustiarli, la ristrettezza dello spazio, la miseria dei mobili, l’insufficienza del servizio, quei desinari tutti in tre sur un piccolo tavolino, al capezzale del letto, tutto contribuiva alla loro allegrezza. Essi scherzavano e ridevano d’ogni incomodità, d’ogni miseria, come due amanti fuggiti insieme, a cui ogni novità, molesta per altri, è cara, poiché fa sentir loro che son liberi, e che non han bisogno di nulla, fuorché l’uno dell’altro. L’allegria stessa del bambino, stupito e contento di veder le cose mutate a quel modo, li rendeva più felici, e raddoppiava l’affetto loro per lui. Essa gli aperse tutta l’anima, gli disse cos’era seguito nell’animo suo, cos’aveva pensato nella sua assenza, con che animo, con che coscienza era venuta. Egli non cercò d’andarle più addentro: - egli capiva bene che non era, che non poteva essersi persuasa in così breve tempo delle sue idee. Ma capiva - e questo essa voleva fargli sentire - che, anche senza bene comprendere, essa "voleva" aver la fede, come quelli che voglion credere, e chiedono a Dio la grazia di poterlo; - capiva che era una di quelle nature, che stentano a moversi, ma che, una volta mosse, rimangono ferme immutabili nel nuovo stato; - che, se non la prima convinzione dell’intelletto, egli avrebbe avuto d’ora avanti e per sempre l’adesione e la fedeltà del suo cuore. E in questo lo confermò, e gli diede una gioia immensa, un atto suo: l’atto d’indifferenza con cui lacerò, e di disprezzo con cui buttò in un canto, la comunicazione della destituzione ministeriale, venutagli dal Preside con una lunga lettera dolorosa; - destituzione dovuta, senza dubbio, all’articolo violento comparso sulla Quistione. Così pure lo riempì di gioia il modo come sostenne il rifiuto furibondo del padre ad ogni concessione, che essa stessa ricevette, essendo andata a confessare l’atto suo e a supplicarlo insieme col Bianchini padre. Il duello e la destituzione l’avevan messo fuor di sé, egli aveva fatto una scena da far cadere in ginocchio la povera sua moglie, aveva detto al Bianchini delle parole terribili, giurato di non lasciarle un soldo, stabilito intanto di non darle più l’assegno annuale della dote, insultato il genero con tali parole, che il padre aveva per la prima volta reagito con delle frasi di giornali socialisti, che avevano finito col fargli perdere ogni lume di ragione, e accennar l’uscio a tutti e due. Essa era ritornata addolorata, ma ferma, e al marito che l’aspettava inquieto, s’era lanciata al collo, entrando con un amore più grande di prima. Oh, no, la sua coscienza era troppo sicura adesso! Essa sarebbe morta di fame con lui, piuttosto di lasciarlo! E le consolazioni del marito le ridiedero la gioia: suo padre, prevedendo la cosa, aveva promesso lietamente di supplire di suo ai loro bisogni, - Alberto avrebbe insegnato in istituti privati - avrebbe scritto libri scolastici, lavorato per riviste, dato lezioni, ritrovato l’ispirazione e la fortuna dei primi successi. E ricominciò a lavorare appena poté, con la mente più serena e con l’animo più libero che non avesse mai avuto, mai disturbato, rallegrato dalla continua forzata vicinanza di sua moglie, dalle risa giovanili con cui scappava nel suo negligé adorabile quando picchiava all’uscio un operaio o qualcuno dei suoi buoni e fidi studenti, dalla affettuosa grazia con cui scherzava sulla sua situazione e sull’abilità con cui faceva la sua parte di "moglie rapita" in quella specie d’appartamento clandestino, dove ricominciavano il loro amore e la loro giovinezza. Un solo pensiero la turbava a quando a quando: la Lariani non s’era più fatta vedere - essa capiva le ragioni del suo riserbo, e ora l’amava di più - e aveva un bisogno immenso di rivederla, voleva andarla a cercare a casa sua... E a lui si stendeva una nuvola, qualche volta, su quel sereno. Era troppo sereno, era troppo contento - non poteva durare. E quel certo presentimento d’altre volte, ma senza sua maraviglia, gli ritornava. Non era dunque il duello l’avvenimento che aveva presentito? E che poteva essere? E per liberarsene l’immaginazione, andava esaminando uno dopo l’altro tutti i casi possibili d’una disgrazia: era un altro duello, in cui sarebbe caduto? Ma non ne vedeva le possibilità da alcuna parte. Era la morte di qualcuno dei suoi? Ma erano giovani, pieni di salute e di vita. E l’eventualità gli sfuggiva, e il presentimento rimaneva; ma sensibile a lunghi intervalli soltanto, coperto, sommerso per tutto il resto del tempo sotto l’onda d’amore, di gioventù, di idee, di speranze, che gli fluttuava nell’anima, e che gli si sollevava sotto ogni bacio, sotto ogni riso della sua sposa riconquistata e rifatta. Oh la bella creatura - gli diceva - che ho guadagnato al socialismo!
E ogni volta ch’egli le diceva questo, era certo di sentirsi le sue labbra sulla fronte e il suo viso contro la bocca.
Finalmente, dopo aver prolungato quanto poteva, il soggiorno nell’albergo, - dove la loro luna di miele era stata rispettata dagli amici della famiglia, si decisero, non senza una certa tristezza di lasciar quel nido, a ritornare nella casa di piazza Statuto. Trovarono sull’uscio Ernesta, ristabilita, che passò dalle braccia dell’uno alle braccia dell’altra, con uno slancio immenso di tenerezza, così pallida, così esile, che a loro parve di stringere un’anima piuttosto che un corpo. Essa non si staccò da loro tutto quel giorno, volando per la casa, prendendo parte a tutta la gioia di quel ristallamento, fatto con la furia allegra di due sposi che metton casa per la prima volta. E la sera stessa gli amici affluirono, i Cambiasi, i Luzzi, a festeggiare il ritorno. Fu una conversazione piacevolissima, nella quale, al solito, la più alta nota comica fu data dalla signora Cambiasi, in cui, con la fresca grassezza, pareva che fosse cresciuta in quel frattempo l’innocente e gaia ignoranza delle cose del mondo. Con la più festosa sincerità essa mise fuori l’idea maravigliosa di invitare a pranzo in casa sua tutti gli amici, mettendo l’uno in faccia all’altro Alberto e Geri; e rimase stupefatta delle esclamazioni che accolsero la sua proposta, dicendo che aveva sempre creduto che, dopo un duello, tutti gli avversari si riconciliassero, e ogni cosa fosse dimenticata. Una sola stonatura fece il signor Luzzi, quando la Giulia parlò della Zara con ammirazione, scrollando il capo in atto di dubbio, col suo sorriso. Cambiasi gli diede una lezione, dicendogli che era un triste segno della moralità e della cultura d’una società quello di non poter credere che una donna potesse avere un ideale di miglioramento sociale, e lavorar per esso, senza essere una donna perduta. La Luzzi stessa rimbeccò suo marito con due parole secche; ma, in fondo, quel riconoscimento, che ad altri pareva così poetico, in lei faceva un’impressione diversa perché, insomma, la Zara essendo una donna onesta, la leggenda svaniva, essa non aveva più nulla che interessasse la sua immaginazione e che le paresse invidiabile. Poi essendo caduto il discorso sul prossimo 1° Maggio, il Cambiasi disse d’aver inteso dal Baldieri che questa volta sarebbero seguite cose gravi, - il Luzzi se ne rise, - e quegli, dopo averlo un po’ guardato, gli disse con un accento singolare, che Alberto rimarcò: - Lei dovrebbe aver terrore degli anarchici! - e detto questo, diede uno sguardo acuto alla Luzzi; che s’alzò di scatto, come presa da un desiderio improvviso di respirare una boccata d’aria alla finestra. Alberto notò tutto questo, preso da un vago sospetto, e considerato attentamente il marito, ripensando alle rivelazioni della moglie, fu preso da una matta tentazione di smascherare una buona volta quella miserabile impostura, di mettere a nudo il morboso terrore che egli nascondeva sotto quell’olimpico disprezzo dell’idea socialista. E stava quasi dimenticando la promessa fatta alla signora, quando entrò il Moretti, roseo, ridente, felice dell’avvenimento, e con slancio di vecchio cavaliere, si slanciò a baciar la mano alla signora, profondendosi in congratulazioni entusiastiche. E fu lui che con voce da galletto tenne la conversazione fino alla fine nelle regioni del più entusiastico ottimismo. Ah! la signora aveva dato un sublime esempio, che sarebbe stato imitato. Quando le donne si mettono al servizio d’una grande causa, trascinano il mondo, e la vittoria è certa. Sì, sarebbe seguito così, la quistione sociale l’avrebbe risolta uno slancio sublime di passione di tutte le donne delle alte classi, un ardore di carità sociale che si sarebbe diffuso da loro in tutti come il soffio d’una religione nuova, provocando una santa gara di mansuetudine, di gentilezza, di generosità, di sacrifizi, che avrebbero soffocato tutti gli odi, fatto sparire tutte le differenze sociali, accomodato tutto, senza che si spargesse né una goccia di sangue né una stilla di pianto. E i visitatori eran già giù per le scale, che Alberto e Giulia sentirono ancora la sua voce di galletto felice profetare la riconciliazione di tutti gli uomini nuotanti in un mare di lotte.