Primo maggio/Parte settima/IV
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Mancavano pochi giorni al primo maggio, la bella primavera di Torino fioriva in tutto il suo rigoglio nelle piazze alberate, nei giardini pieni di fiori, e sui colli verdissimi. La vicinanza del secondo anniversario di quel giorno, col quale aveva cominciato una nuova vita, gli cagionava una grata emozione, che gli ricordava la sua aspettazione palpitante di fidanzato, e quella primavera serena e tepida accelerava il movimento di pacificazione e d’armonia che già il ritorno nella famiglia aveva iniziato nei suoi sentimenti e nelle sue idee. Le ire si quetavano, gli odi morivano: egli riconosceva d’essersi lasciato troppo vincere dal rancore dell’orgoglio offeso, s’avvedeva che tutta quella violenza, che l’aveva portato via, non era forza, ma debolezza, come tutto quello che era fuor dei limiti della ragione; capiva chiaramente che la grande causa non si serviva validamente che con la forza della ragione tranquilla e dell’entusiasmo liberato dall’orgoglio. E d’altra parte, il Cambiasi, onesto amico, con sagge parole, contribuiva a quel fine. Egli, esperto del mondo che frequentava, lo persuadeva eloquentemente d’una cosa che era vera: non doveva credere di essere dalle persone della sua classe odiato o spregiato o deriso quanto le apparenze mostravano: tutte le persone colte, sensate e d’animo nobile, anche trascurandolo o deridendolo, in fondo, lo stimavan più di prima; poiché, per quanto si dicesse, il socialismo era ancora più forte come spirito occulto che come organizzazione "palese", le sue conclusioni erano combattute e vilipese, ma le idee moventi, il principio, rispondente all’evoluzione sociale, erano in fondo alle coscienze e ai cuori; molti dei più risoluti avversari, in segreto, dubitavano; molti di quelli che lo calunniavano, non credevano a ciò che dicevano; - egli n’aveva delle prove ogni giorno; ogni momento gli occorreva d’indovinare la stima e la simpatia per lui, anche a traverso ad acerbe parole; - la prima reazione era finita - dopo questa, ogni giorno che sarebbe passato non avrebbe fatto che porlo più in alto nel concetto della gente che pensa.
E allora egli entrò in un periodo di operosità, d’entusiasmo, di pienezza di vita quale non aveva ancora avuto. Riprese a scrivere sulla Questione, cominciò un corso per i giovani al Circolo di studi sociali, fondatosi da poco, preparò una conferenza per il Maggio, a cui fu invitato, riprese i suoi studi, cominciò a scrivere un libro per reagire un poco contro la tendenza dei giovani propagandisti, specialmente colti, riconosciuta da lui perniciosa, di parlare unicamente il linguaggio facile della passione: un libro in cui il funzionamento dello stato socialista fosse spiegato con chiarezza elementare, nei più minuti particolari, - e previste le obbiezioni - e date agli operai che facevan propaganda le risposte fatte. In questo s’avvicinava all’idea del Rateri. E cominciò a frequentare di più costui, di cui, rimanendo inalterabile la freddezza, pareva che l’intelligenza s’innalzasse e si dilatasse di giorno in giorno. Una sera lo entusiasmò. Egli vedeva nell’avvenire la prima nazione ordinata a stato collettivista, avvantaggiata di gran lunga sulle altre nella lotta industriale e commerciale, la più ricca e quella che avrebbe goduto di maggior credito negli scambi internazionali, come quella che avrebbe avuto a sua disposizione un maggior numero di capitali, riunito in sé tutte le forze del paese e prodotto in grande per ogni genere d’industria e non avuto da lottare, nel mercato mondiale, che con dei privati; e vedeva da questo le altre nazioni ridotte a adottare il collettivismo, - e di qui venire l’organizzazione internazionale del lavoro, e la riunione delle patrie; e allora, dalla coordinazione in grande del lavoro internazionale, derivare alla società vantaggi incalcolabili. E prevedeva e ribatteva le obbiezioni con una copia sbalorditiva di ragioni, con una chiarezza, con una energia, con una sicurezza, che si trasfondeva in tutti i giovani, e li mandava con forze raddoppiate alla propaganda domenicale. Con questi giovani specialmente, che di giorno in giorno aumentavan di numero, egli si mescolò, per dar loro, e riceverne entusiasmo. E lo commoveva a vedere il coraggio, la pazienza santa d’apostoli con cui facevano l’ufficio loro, e col cuore palpitante di simpatia e d’ammirazione udiva i racconti delle loro gite domenicali in paesi dove di socialismo non s’era mai inteso il nome: le infinite difficoltà per avere in prestito una sala di trattoria o un cortile, i pour parler coi sindaci e coi messi comunali, i contadini presi a uno a uno per un braccio all’uscio della benedizione e condotti, come bovi stupefatti, davanti alla tribuna improvvisata, sopra un tavolo, sopra un carro, sopra un mucchio di sacchi, su una aia, in mezzo a una piazza, dietro la chiesa; il loro primo stupore, poi il primo albeggiare dell’idea, poi il consenso, poi l’applauso, le promesse, gli accordi, i propositi, suggellati con una bicchierata; e rideva e si commoveva insieme a sentire come per quelle gite accomunassero e ripartissero, con miracoli di parsimonia e di calcoli, le poche lire che avevan fra tutti, sacrificando il caffè, il teatro, il sigaro, dimezzandosi il desinare, scherzando baldamente sulla propria miseria e sulle proprie privazioni.
Il contatto di questa generosa gioventù finì per esaltarlo di più. Sì, la giovinezza dedicata a quell’idea gli pareva la giovinezza più superba e felice che avesse mai goduto altra generazione. Quel culto disinteressato dell’idealità, quell’anelito alle lotte feconde, quel presentimento d’un migliore avvenire per tutti, era quanto di più grande fosse mai passato per l’anima umana dopo il cristianesimo. Egli se ne sentiva sollevato a un’altezza cui non era mai giunto. Egli sentiva in se stesso una forza d’espansione proporzionata alla resistenza che quella verità doveva incontrare nel mondo. Sentiva la vera gioia di chi è persuaso d’una grande idea nuova e la sente profondamente: sentiva il desiderio di morire per essa. E nello stesso tempo una vergogna, un rammarico di non sapere, di non poter far più di quello che faceva. Avrebbe dovuto fare come il grande poeta Morris, non stimar nessun mezzo indegno di sé per diffonder l’idea - far come lui, che passò dei mesi fra gli operai in angoli perduti della Scozia, che afferrava i passanti sulle piazze, che arringava sur una sedia alle cantonate, che distribuiva opuscoli alle stazioni ferroviarie, che organizzava in casa sua conferenze per i lavoratori. E per lui, e per tutti i grandi socialisti degli altri paesi provava un’immensa invidia, piena di entusiastico affetto: per quei valorosi giovani ricchi inglesi della Società italiana di Londra, per quei sapienti organizzatori belgi Bertrand, Volders, Anseele, per gli ardimentosi capi tedeschi, portabandiera d’un esercito formidabile creato da loro, che viveva del palpito del loro cuore, per tutti quelli che per la causa avevano potentemente ardito, operato, sofferto, e portatovi il raggio d’un’idea propria. Oh, trovare un’idea, una sola idea luminosa e semplice, come il soffio d’un dio, da persuader tutti, da mover tutti, da rovesciar tutti gli ostacoli! Tutti i suoi pensieri, tutte le sue sensazioni lo riconducevano a questo pensiero, quasi continuamente; ed egli soffriva ancora di quei pochi brevi intervalli in cui il bisogno d’esser felice lì per lì, la sensualità, qualche interesse egoistico, qualche piccola contrarietà o dispiacere personale lo distaccavano da quell’idea. Ma eran brevi intervalli. Egli si sentiva mutato. Ogni vanità letteraria morta. Qualunque giudizio avessero dato del suo ingegno non lo toccava più. Aveva pietà di sé ricordando amarezze e dolori cagionatigli da antiche critiche di cui si ricordava. Era un mondo finito. Dal mutamento sociale, sarebbe uscita anche una rinnovazione intellettuale. Le vecchie sorgenti erano esaurite. Dalle viscere del terreno scosso sarebbero uscite le nuove. Sorgendo le classi laboriose, che sono il serbatoio della vita dei popoli, si sarebbero ringiovanite tutte le forme del pensiero: la lingua avrebbe ripreso tutte le sue forze: ringiovanita la storia, la poesia, il teatro; nessuna produzione prodotta da oziosi, come ora, ed inutile; ma più potente quella degli ingegni veri. E in questa visione consolante, non provava alcuna tristezza a considerarsi morto per l’arte; sciolto da ogni vanità e ambizione letteraria, si sentiva più libero, più forte, più pronto ad ogni altro sacrifizio.
E un nuovo entusiasmo, una nuova forza, delle nuove gioie continue gli venivano dal mutamento della sua Giulia che, furtivamente, andava a trovar la Zara, da cui usciva ogni volta con un’idea, con un po’ d’ardore di più. Da prima, egli aveva ancora osservato in lei un movimento irresistibile, benché cercasse di dissimularlo, quasi tra la diffidenza e la ripugnanza, quando lo venivano a trovar degli operai. Ma ora, un po’ per proposito, un po’ spontaneamente, essa li riceveva con grande cordialità, con una grazia speciale, un po’ timida, con un sorriso d’una dolcezza e d’una espressione indefinibile, per cui l’avrebbe baciata in presenza loro. Qualche volta s’intratteneva con lui e loro, e il vederla là, così elegante e signorile, accanto ad essi, gli pareva una cosa così poetica e gentile, così piena di significati, che ne rimaneva commosso. E il suo affetto per loro ne era raddoppiato. Il Barra e il Calotti venivano spesso per combinare la conferenza per il 1° Maggio. E la conversazione col Barra, specialmente, che in quel frattempo aveva letto nuovi libri, acquistato nuove idee, nuove forme d’espressione, gli faceva quasi l’impressione di quella d’una persona che aveva avuto la stessa educazione e fatto gli stessi studi. E l’ottimismo del Calotti, che vedeva la quistione sciolta al 3° anniversario del 1° Maggio, non lo indispettiva più; erano necessarie quelle fedi, quelle illusioni fanciullesche, e resistenti a ogni disinganno, per reagire contro i forti scoraggiamenti e i continui mutamenti di tanti altri. Ma altri operai, condotti da loro, vennero. Ogni giorno conosceva un nuovo tipo, una mirabile varietà di menti solide, di riflessivi, di sognatori, d’ingenui, quasi eleganti, quasi cenciosi, ruvidi, ossequiosi, superbi, espansivi, diffidenti. Il suo duello gli aveva cresciuto le simpatie. Lo stesso Baldieri, incontratolo un giorno, lo aveva trattato con una cordialità insolita, pure essendo duro nelle parole. - Ci volevano altro che duelli! E ci voleva altro che portar via dei brandelli di pelle dalle tempie! In ogni modo, era consolante il vedere che i borghesi, per quella causa, cominciavano a tirarsi delle pistolettate fra loro. E l’aveva lasciato, stringendogli la mano, e dicendogli: - Ammazzi un’altra volta sul serio. Sarà sempre uno di meno!
Ma egli non aveva più odio per la sua classe. Un singolare effetto provava in quell’esaltazione d’entusiasmo. Sentiva la verità di ciò che aveva detto Bovio: - Chi non sente questo nuovo mondo è morto. - Egli vedeva le strade, i consigli, le accademie, le scuole piene di morti. Gli pareva di girar per le catacombe di Palermo. Erano i necrofori d’un catafalco, in cui non era morta ancora, ma stava spirando la società presente, o meglio era morta, ma il rossetto le dava ancora un’apparenza di vita. Gli procuravan l’effetto di superstiti d’un altro mondo. A tanto era giunto in questo sentimento, che incontrato per le scale il Geri, di cui sua moglie non gli aveva rivelato la dichiarazione, non ne aveva provato la menoma scossa. Non s’eran salutati né guardati - egli era passato come accanto ad un’ombra. Non di meno, egli provava ancora un grande piacere ogni volta che qualche suo conoscente od amico gli esprimeva, o per convinzione o per compiacenza, idee favorevoli al socialismo. Per questi si sentiva preso di subito affetto - s’innalzavan subito nella sua stima - gli pareva buono, intelligente, generoso. Ma con gli altri, anche coi migliori, che gli s’eran ravvicinati, - pure non avendo più né odi né rancori, e comprendendo e scusando la resistenza alle nuove idee - sentiva che un legame s’era spezzato, che non si sarebbe rannodato più; li sentiva lontani da sé - divisi da un grande spazio vuoto. Nonostante la grande differenza d’educazione, di vita, di cultura, si sentiva ora più vicino ai nuovi amici della classe inferiore - una solidarietà con essi - quasi un cuore comune. Provava ora una grande amarezza ogni volta che vedeva per la via un lavoratore briaco - o assisteva a scene di brutalità e di violenza - o leggeva delitti commessi da persone di quella classe: egli se ne doleva e se ne vergognava al punto da nascondere perfino il giornale a sua moglie - e scusava fin che poteva ogni cosa con la ragione dell’ambiente e della mala educazione, andando fino all’eccesso. Un’ardente impazienza di vederli migliorati lo tormentava. Lo pigliava alle volte la tentazione di andare fra i peggior barabba di Torino a predicare, a pigliarli uno per uno, per mutarne l’animo, per elevarne l’intelligenza. Ma nonostante tutte le amarezze che quei fatti gli cagionavano, egli sentiva in quell’amore, determinato da ragioni superiori a tante differenze morali e intellettuali, una grandezza mille volte maggiore che non aveva provato mai in alcuna amicizia; il suo cuore levato più in alto, amante senza bisogno né di contraccambio né di affinità; la superiorità della carità sull’amicizia; un soffio profondo e vasto, sconosciuto alla sua anima antica, troppo angusta per contenerlo; come il palpito d’un gigante nel suo petto.
Una sola cosa lo turbava un po’ in quella potente e nuova vita del cuore e del pensiero: la condotta del suo buon padre, la cui esaltazione nelle sue idee cresceva in un modo visibile. Della esagerata e quasi ossequiosa cordialità con cui salutava i suoi amici operai, dell’intrepido ardore con cui provocava sua madre a discussioni socialistiche, egli non avrebbe che sorriso. Ma sapeva che fra gli amici faceva lo stesso, che al caffé Londra predicava, a modo suo, il nuovo verbo, provocando fra i suoi vecchi amici pensionati ire e risate egualmente vive. Una sera, sotto i portici, camminandogli dietro, egli lo aveva sentito parlare a voce alta fra due vecchietti, di "altruismo", di "sentimento della collettività", di "inevitabile sfacelo". Ed egli temeva che, oltre a un po’ di ridicolo che poteva riflettersi su di lui di quell’innocente socialismo senile, il buon uomo, che egli adorava, potesse aver dei dispiaceri. E non parendogli aver diritto d’arrestarlo lui, che era causa di quella sua esaltazione, - temendo che l’avvilimento datogli da lui, potesse riuscirgli troppo mortificante, - se n’aperse col Cambiasi, e lo pregò di ragionarlo, di quetarlo un poco; incarico che egli accettò di buon grado, con un sorriso arguto, come chi ha già in mente un mezzo sicuro di riuscire. E quella stessa sera, come per compensarlo del po’ d’amarezza che gli avrebbe cagionato la reprimenda amorevole dell’amico, gli dimostrò più affetto del solito, perché da un po’ di tempo, assorto nei suoi pensieri, lo trascurava - e il buon uomo ne brillò di gioia. - Papà - gli disse lasciandolo per andar a dormire - io t’ho dato, senza volerlo, dei dispiaceri: m’hai perdonato!
- Ah! Alberto mio - rispose quegli mettendogli le mani sul capo, dentro ai capelli biondi, come quando era bambino: - Tu sei il mio orgoglio e la mia vita!... - E non poté continuare. E Alberto lo lasciò con tristezza. Un presentimento - quel presentimento sempre rinascente - gli era sorto nel cuore, tutt’a un tratto: il presentimento di un avvenimento misterioso e tragico, che la sua immaginazione non riusciva ad afferrare.