Primo maggio/Parte sesta/II

Parte sesta - II

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Parte sesta - I Parte sesta - III

La profezia del muratore s’avverò subito. Gli capitò il giorno dopo il padre Bianchini in casa, senza fiato, con una faccia desolata, agitando due giornali in mano, esclamando: - Cos’hai fatto, cos’hai fatto, figliuolo mio! - e lasciandosi cadere sul sofà. Sui due giornali v’era un breve resoconto della conferenza, in cui tutto era travisato: egli aveva predicato la necessità della rivoluzione, aveva promesso agli anarchici di scender con loro in piazza il 1° Maggio, aveva istigato gli operai all’odio e alla vendetta contro la borghesia, aveva infine suscitato fra le parti di opposte idee un tumulto inaudito, degenerato in rissa, che per poco non aveva avuto conseguenze di sangue. E lui era stigmatizzato con parole severe, che venivano a dire che passava ogni segno, che l’autorità tollerava troppo dai professori, e che era tempo di finirla. - Ed ora, ora - esclamò il padre, battendosi le mani sulla fronte - che cosa dirà, che cosa farà il Commendatore! - Né valsero a calmarlo le giustificazioni del figliuolo: egli se n’andò angosciato, spaventato, come inseguito dallo spettro terribile del suocero, agitando le braccia. Alberto pensò subito a fare una rettificazione pubblica di quelle calunnie, quando sopravvenne l’organizzatore, furibondo, a spiegargli la cosa, per eludere il sospetto che da lui e dai suoi si fossero commesse indiscrezioni. Nell’uditorio s’erano introdotte delle spie - egli aveva visto delle facce sospette - ma gli era ripugnato il crederlo. Ma gli amici erano in moto per rintracciarle, e si sarebbe data una lezione esemplare! E se n’andò, assicurando che il caso non si sarebbe verificato mai più - che egli aveva inventato un metodo di controllo alla porta a cui nessuno sarebbe più potuto sfuggire! Ma intanto, Alberto vide sfuggire dalla casa anche quel poco di pace triste che v’era prima.

Sua moglie, già addolorata della rottura con Cambiasi, sgomentata dalla conferenza, atterrita dal resoconto dei giornali, - di cui - malgrado ogni assicurazione del marito, credeva esatta ogni parola, gli fece per tre giorni una scena continua, alternata di lacrime e di sdegni, preannunziandogli qualche cosa di terribile da parte del padre che, fortunatamente, era in quei giorni a Milano. Egli visse tre giorni una vita d’inferno, col disordine a scuola, dove Preside e colleghi commentavano l’avvenimento in crocchi calorosi, che si sbandavano al suo apparire come all’apparir della peste; con una battaglia continua in casa, in cui l’ostinazione della moglie a non credere alle sue rettificazioni, a rispondere a ogni sua ragione o difesa le stesse eterne irritanti lamentevoli parole, non gli lasciavano un minuto di respiro; tre giorni interminabili, di tortura - il tempo che impiegavano i giornali ad andare da Torino a Roma, e quello che ci mise a venir da Roma a Torino il fulmine del ministero.

Una mattina il Preside lo chiamò, e con le lagrime agli occhi, poiché gli voleva sempre bene, dopo averlo preparato con preamboli imbarazzati, al colpo, dondolando il capo in segno di dolorosa pietà, gli annunziò la sospensione dall’insegnamento per tre mesi.

Egli non rispose parola. Egli era così profondamente persuaso di non meritare quella punizione, di non aver fatto, detto mai cosa, né a scuola, né in quella riunione, che lealmente interpretata, esorbitasse menomamente dai suoi doveri d’insegnante e di galantuomo; egli vedeva così chiaro d’essere vittima d’un inestricabile intrico di male prevenzioni dell’animo e della ragione di tutti, di avversioni cieche, e di passione irragionevole di classe, che da una parte l’orgoglio, dall’altra la profonda certezza dell’assoluta inutilità d’ogni spiegazione, ricorso o difesa - gli chiusero ermeticamente la bocca.

Ma il colpo, benché preveduto, fu forte - e non poté dissimularlo, stringendo la mano al Preside.

Questi lo guardò negli occhi, e con sincero slancio d’affetto lo baciò - poi gli fece un cenno d’addio, volgendo altrove il viso.

Alberto uscì, col cuore stretto. E al pensare a quell’affronto pubblico alla separazione dai suoi scolari - alla specie di vergogna che ne avrebbe avuto suo figlio in quello stesso Ginnasio - alle scene che lo aspettavano a casa -, un momento di debolezza lo prese - un bisogno di conforto - di rifugiarsi, di ritemprarsi per qualche giorno negli affetti della famiglia - di ritrovare, se non la concordia, almeno la tenerezza di sua moglie. E andò a casa con quella speranza. L’annunzio della sospensione l’avrebbe commossa, l’avrebbe fatta desistere dalle ostilità - le avrebbe messo in bocca delle parole di consolazione, dolorose, ma dolci. Egli salì le scale, triste, col proposito di darle la notizia con un abbraccio, stringendo la sua testa sopra una spalla, di giustificarsi pacatamente e lungamente con lei, di dimostrarle l’ingiustizia di tutto, di chiederle che per un momento dimenticasse il passato e non pensasse all’avvenire, per non esser che la sua amica, la sua confidente, la buona Giulia che era sempre stata con lui nei giorni in cui il loro figliuolo era stato in pericolo, ed egli, men forte di lei davanti al dolore, aveva ritrovato forza e speranza nel suo cuore.

Ma, entrato appena in casa, se la vide venir incontro, con un viso alterato da un sentimento così diverso da quello ch’egli cercava, che la parola preparata gli si gelò sulla bocca.

Essa teneva per mano il ragazzo piangente, e voleva parlare, ma la passione le soffocava la voce. Poi, rottamente, con le labbra pallide e tremanti, fissandolo con gli occhi fiammanti, disse che a scuola, il ragazzo era stato insultato dai compagni; insultato in suo padre; - gli avevan ripetuto cose intese dai loro parenti; - suo padre impazzito - incitatore degli operai al saccheggio, - anarchico - ficcato in mezzo alla canaglia - l’avrebbero fatto saltare dalla cattedra - sarebbe andato a insegnar le lettere alle Carceri Nuove. - A questo punto - esclamò - siamo giunti! - Insultano il nostro figliuolo! Domani lo percuoteranno! - e con voce come non le aveva mai intesa: - Basta! - gridò - ora mi pare che basti! Le mie forze di resistenza non possono andare più in là!

Un’ondata di sangue gli salì al capo. Sì, a questo punto s’era giunti! E non fu il dolore, fu l’ira che lo invase contro l’infamia della gente e che egli mise nell’abbraccio violento che diede al figliuolo. E invece di esser indignata contro quell’infame ingiustizia, contro quella codarda persecuzione che s’accaniva fin contro un ragazzo innocente, essa volgeva contro di lui quelle sciagurate parole, e gli faceva nel cuore sanguinante una ferita di più! E, irritato, per punirla, fu per darle brutalmente la notizia della sospensione. Ma per un rivolgimento improvviso del cuore, gli uscì invece una parola d’affetto, quasi supplichevole: - Giulia - le disse, andando verso di lei - non trovi, in tutta questa questione, una sola parola giusta, generosa, per tuo marito così infamemente calunniato? Ti si è proprio mutato il cuore?

Ma quel ritorno d’affetto, in cui sentiva la persistenza tenace dell’Idea, la sdegnò di più, e vedendolo venire a lei con le mani tese, indietreggiò, dicendo: - Non mi parlar del cuore, tu che me lo spezzi! tu che non m’ami più! Non hai che una sola promessa, una sola parola da dirmi per rendermi la felicità e la pace, e preferisci uccidermi, e non me la vuoi dire!

- Ma, senti Giulia -, ripeté il marito con una specie di rabbia d’amore - ma senti, ma capisci una volta, ma vieni un momento... - e le mosse incontro.

Essa fece un gesto di sdegno, spalancando l’uscio, per andare nell’altra camera. Sull’uscio apparve suo padre.

Appena arrivato da Milano, dove aveva visto riportato il cenno dei giornali di Torino, era andato dal Provveditore, che gli aveva dato la notizia.

Esso fece un passo avanti nella camera, e si arrestò, con tutta la maestà della sua persona. Tutta l’indignazione possibile dell’anima sua tremava sul suo viso pallido e stravolto. Egli dovette prender fiato per dire le prime due parole, che lasciò come cadere sul pavimento, come due palle di piombo, senza guardare il genero in viso: - So tutto.

Alberto, aspettò il resto, immobile, col viso alto, a cinque passi da lui.

- Tuo marito - riprese a stento, voltandosi verso Giulia, - è destituito dalle lezioni.

A quell’annunzio, essa si lasciò cadere su una seggiola, abbracciando il ragazzo.

Il suocero si rivoltò, senza guardarlo, verso il genero, e soggiunse a voce lenta, riprendendo il fiato: - ...Fin che ho potuto credere che la tua non fosse che un’alterazione passeggiera, che si sfogasse in parole dissennate e temerarie a scuola, coi tuoi amici e in... scritti, e non provocare sopra di te che la pietà o il ridicolo, ho potuto contenermi, e mi son contenuto. Ma ora... ora tu scendi in piazza... ora tu vai fra la feccia del popolo a predicare idee pazze e a ispirar passioni malvagie... ora...

- Non è vero! - gridò Alberto, esplodendo - Non è vero! Mai più infame menzogna è stata detta! Sul mio onore, io non ho detto, non ho espresso una sola idea, un solo sentimento che la coscienza e il cuore d’uomo onesto mi rimproverino! Davanti a voi, non avrei da ritirare una parola!

Quella baldanza mise fuori di sé il suocero: - Eh via! - gridò con accento d’infinito disprezzo -, tu non sei, non puoi essere in buona fede! La tua causa è il rifugio di chi non può fare una vita onestamente operosa in pro del suo paese, la causa dei deliranti dell’ambizione, degli svogliati di tutti i mestieri, dei ciarlatani della cattedra, e dei falliti della letteratura!

- Dei falliti della letteratura! - rispose Alberto, sussultando, come sotto una frustata sul viso.

- Papà! - gridò la figlia, afferrandolo per il braccio, per richiamarlo in sé. Ma egli continuò, con più sdegno e disprezzo:

- Ma io non son qui per discutere delle tue pazze utopie. Son venuto per ricordarti che il tuo nome non appartiene a te solo, ma a mia figlia e a tuo figlio, e che non hai diritto di disonorarlo. Son venuto per dirti che non voglio che il marito di mia figlia sia tradotto davanti ai tribunali, che non voglio veder comparire le guardie di Questura in casa mia!

E respinse la figlia che gli mise una mano sulla bocca, e il ragazzo che scoppiò in pianto.

Alberto, che aveva ad ognuna di quelle frasi dato un tremito, scoppiò sotto l’ultima, e perdette ogni lume di ragione. La sua faccia pallidissima si fece torva, chiuse i pugni, e rispose con voce sorda, avanzandosi con gli occhi biechi: - Oh basta! O guai per tutti!... Io sono in casa tua! Sono un fallito della letteratura! Non voglio lavorare onestamente per il mio paese? E che cosa hai fatto tu per il tuo paese, fuorché tagliar delle cedole e riscuotere delle vendite che t’ha dato il lavoro degli altri?

Il suocero indietreggiò spaventato, e convulso.

- Che diritto hai di gettarmi in faccia il tuo disprezzo, principotto borghese, gonfio di superbia ridicola, con quattro idee morte nel cranio, che ti nascondono il mondo? Come osi parlar di pazze utopie e di buona fede tu, egoista feroce, che se anche non fosse un’utopia, ma una evidente verità, piuttosto che aiutare a porla in atto faresti affogare il tuo paese nel sangue? Con che faccia mi parli di disonore, miserabile, che sputi sulle idee generose che non capisci?

- Alberto! papà! - gridarono con diverso accento moglie e figlio, interponendosi. Ma Alberto non ci vedeva più.

- Basta, - gridò, con un gesto forsennato - m’avete offeso a morte nell’anima! In casa tua! In casa tua ci ho perso la pace e dovrei anche perdere la dignità e l’onore! perché tu mi ci tratti come un parassito, e mi vorresti far rinnegare la più santa delle verità...! Io la lascio!

- E io ti scaccio! - rispose il suocero.

La moglie si gettò per trattenere il marito. Ma questo con una rapidità fulminea le sfuggì, prese il cappello, afferrò il capo e baciò in fronte il figliuolo in singhiozzi, e disparve.