Primo maggio/Parte sesta/III

Parte sesta - III

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Egli affondò il viso nei guanciali e vi soffocò un grido di dolore e di rabbia quando si trovò solo in una piccola camera d’un oscuro albergo di via Barbaroux, dov’era andato difilato, a passi concitati, non vedendo nulla per la strada. La sua carriera era rovinata, la rottura della sua famiglia irreparabile, l’amor della moglie perduto, il suo adorato fanciullo diviso da lui! Ma sul dolore prevalse subito, violenta, superba, implacabile l’ira per le atroci ingiurie del suocero, che gli rodevano il cuore, e la ferma, irremovibile risoluzione di non vederlo più nella vita, di non cedere a nessuna istanza, di morir di dolore, solo, disperato, piuttosto d’arrendersi. E quando la stessa sera, avvertito da lui con un biglietto, gli comparve davanti, con la faccia scomposta, suo padre desolato, ch’ei credette portatore di proposte di riconciliazione, egli respinse sdegnosamente ogni proposta, prima che aprisse la bocca. Un conforto ebbe però quando gli ripeté le precise parole del Commendatore, e fu di vederlo ammutolire, e farsi pallido, e sentir più profondamente l’offesa fatta al suo orgoglio paterno che il dolore della separazione avvenuta. Allora egli l’abbracciò con affetto, e aperse tutto l’animo suo, e spiegandogli, con un torrente di parole appassionate e lucide, come tutti i suoi atti, tutte le sue parole, da tutti fossero state fraintese, alterate, travisate in ogni occasione, con arte, per astio, come per una congiura, per fargli danno, ebbe un nuovo conforto: di veder suo padre comprendere tutto per la prima volta, come se gli cadesse un velo dalla mente, e sentì cangiare l’aspetto dell’uomo addolorato e avvilito in quello sdegnoso di chi reagisce contro un’ingiustizia e un affronto. Egli stette un poco senza parola, con gli occhi fissi - e quando il figlio, abbracciandolo con affetto, gli disse: - Comprendi ora, papà, che io non ho meritato tutto questo, che è la malafede e l’odio altrui, che m’hanno condotto a questo punto? - il pover uomo sentì e comprese tutta la sincerità di queste parole, e se lo strinse al cuore disperatamente. No, ogni passo suo verso la riconciliazione era impossibile. D’altronde, egli non veniva per questo. Non aveva nessun incarico. Il suocero era stato mortalmente offeso, e non avrebbe mai permesso che Giulia lo richiamasse - Giulia stessa non gli avrebbe potuto perdonare per lungo tempo le ingiurie dette al padre, n’era a letto con la febbre, s’era mostrata sdegnata anche con lui. La situazione era disperata. Una fatalità. Non c’era che rassegnarsi. - E guardando intorno quella misera camera e poi suo figlio, così bello, generoso, buono, - fu preso da una grande pietà, da una trista tenerezza che gli levò il pianto dagli occhi. Poi se n’andò mestamente, col tristo incarico di far mandar la roba ad Alberto.

Questi fu tutta la notte in una vertigine di pensieri neri e di sentimenti violenti. Tutte le sue idee sull’evoluzione, sulla pacifica trasformazione sociale si tramutavano sotto quella vampata d’ira che gli prendeva l’anima. No, era una pazzia il credere che l’umanità si sarebbe potuta riscattare altrimenti che col sangue. Non c’era un’idea feconda, organica che, introdotta in un ambiente sociale qualunque, non avesse lasciato dietro di sé un solco sanguinoso. E questa tanto più ne aveva bisogno di sangue e di lacrime quanto più era sociale, umana, comprensiva, quanta più larga somma d’interessi doveva toccare. I soddisfatti resistono all’evoluzione, in tutti i tempi essi hanno respinto i mezzi transitori. La società avrebbe dovuto decomporsi e trasformarsi nel crogiuolo d’una rivoluzione. Il progresso non si realizza che per scosse, la forza è la condizione sine qua non delle riforme. E si compiaceva in questa immaginazione. Oh se avesse dovuto esser ridotto alla miseria, gli sarebbe stata dolce questa per la gioia di veder umiliata, atterrita, spogliata tutta la canaglia senza ragione e senza cuore che l’insultava e lo perseguitava, tutta quell’orda capitalista che alla borsa, nell’industria, nel commercio, nella finanza, specula, inganna, sfrutta, ruba, accumula e sperpera i prodotti del lavoro altrui. No: nemmeno l’indennità ai proprietari attuali ammetteva più, dovevano essere espropriati con processi sommari, nessun compenso per le spogliazioni passate; non sarebbe stata una confisca, ma una restituzione; compenso si doveva invece ai miserabili per la miseria patita. E uno sdegno lo pigliava contro le illusioni dei pacifici; contro quel socialismo cattedratico, non altro che un socialismo timido che indietreggia davanti alle sue logiche conseguenze; contro la stessa Germania, che era pure la terra orientale del socialismo, contro quella filosofica pazienza, quel lento, pesante lavoro d’organizzazione, mirante più a persuadere che a combattere, parlante alle menti, non alle passioni; contro tutti quegli operai socialisti, pecore incoscienti e passive, sotto il cenno dei loro capi. Se la pigliava con l’Inghilterra dei conservatori, individualisti, religiosi, in cui gli operai accedono al socialismo con ogni sorta di riserve e di compromessi, lenti, divisi in piccoli partiti come le loro sette religiose, - contro il Belgio cercante la trasformazione economica per la via delle riforme politiche, contro la Francia dove prevaleva il possibilismo riformista di Malon, con la sua nazionalizzazione della ricchezza pubblica fatta a lente tappe, senza scosse. Un’ira contro tutti costoro. Illusi. No, un mutamento doveva avvenire per l’insorgere simultaneo delle moltitudini, comprese dalla coscienza della loro forza - eserciti contro eserciti - uno sciopero simultaneo che paralizzasse d’un colpo tutta la vita sociale moderna, un torrente d’acque torbide che invadessero tutto e deponessero sul fondo il limo fertile per le culture avvenire. Bisognava parlare alle passioni. E un libro gli balenò da scrivere per infondere queste idee, per eccitare alla rivolta, - lo concepì, lo tracciò, gli s’affollarono in una specie di delirio creatore delle frasi sfolgoranti, e nella notte gli si fece come tal tempesta nel capo, che, per quetarla un po’, dovette saltar giù e mettersi a scrivere. Non scrisse tutto quello che pensava, ma poche pagine ardite, sulla necessità d’una propaganda più audace, più calda, più risoluta. E si quetò un po’ dopo averlo scritto. Lo avrebbe portato alla Quistione. Sarebbe stata una reazione, uno sfogo pubblico, una vendetta sui persecutori, una prova che egli non era intimidito dal castigo, una dimostrazione che in lui, come in tanti altri, l’intransigenza, l’irragionevolezza, l’odio borghese non fanno che mutare i miti in violenti, e volgere le disposizioni più benevole in odi mortali.