Primo maggio/Parte quinta/VII
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Eccitato da quella serata, egli riattaccò la quistione con la moglie, nei momenti di affettuosa espansione, con molta dolcezza... Ahimè, fin che stava nel concetto del riconoscere e nel sentimento della pietà delle infinite miserie del maggior numero, egli trovò che vi s’era già alzata, ed era consenziente: ma toccata appena la dottrina dei rimedi egli sentiva, latente ancora, ma immobile, come un corpo duro sotto un corpo molle, una incredulità irremovibile, la convinzione tradizionale, ereditata della "fatalità" di quei mali, una mal dissimulata pietà per una illusione evidente.
... Egli la prese in braccio e le disse con affetto, semplicemente, come a una bambina: - Ma senti. Se fosse un’utopia così patente, perché desterebbe tanta apprensione nel mondo? Se tante grandi intelligenze la combattono, con tutti gli argomenti della scienza, con lavori poderosi - se i sovrani se ne occupano - se i papi la discutono - non è segno questo che c’è qualcosa di grande e di vero, e che delle gran buone e serie ragioni sono dette da coloro che la sostengono? E fra quelle che la sostengono, ci credono, ci sono tante intelligenze dotte e grandi, tante anime nobili, tanti disinteressati, tante anime eroiche? Ma se anche questa idea fosse un’illusione, non è essa l’espressione d’una grande aspirazione dell’umanità, antica come il mondo, - non è essa il lamento stesso del genere umano - non significa forse una speranza, un desiderio del bene, uno sforzo verso il bene, che vuol essere rispettato e guardato con amore e con simpatia? Ma guardami in faccia, non ci vedi... la serenità... la fede che viene dalla verità?
La baciò con passione. Essa lo guardava con dolcezza straordinaria. E poi rispondeva: - Certo, caro Alberto; ed io rispetto, divido queste tue idee, questi sentimenti. Soltanto... vorrei che rimanessero idee, sentimenti...
- Platonici, ho capito. Ma se per le idee nuove e grandi tutti avessero sempre fatto come tu vorresti che io facessi per questa, nessuna di esse avrebbe mai trionfato. Noi non avremmo una patria, - tu non saresti nemmeno cristiana.
Essa stette un po’ pensando. Poi disse: - Ma è che... facendo come voi fate... la propaganda - voi mettete nel popolo delle idee... l’odio contro i signori, lo spirito di ribellione.
- Ma cara Giulia, è il contrario. Facendogli vedere che i suoi mali derivano da un sistema sociale, di cui nessuno personalmente è colpevole, noi sradichiamo dal suo cuore gli odii individuali. Cercando di organizzarlo perché conquisti il potere legalmente, noi lo allontaniamo dalle idee di ribellione.
- Ma conquistare il potere perché?
- Ma per attuare le riforme in pro del maggior numero, che non saranno mai attuate dalla classe ristretta che ora lo tiene, perché contrarie ai propri interessi - ossia la creazione d’uno stato di cose in cui nessuno goda senza lavorare, nessuno che lavori senza godere - in cui tutti abbiano abbastanza e nessuno troppo, in cui tutti lavorino direttamente per la società - tutti ricevano un’istruzione [...] -, e sia la società stessa che provveda a chi non può ancor o non più lavorare, e non ci sia più né l’esempio né la possibilità della ricchezza acquistata per caso, per astuzia, per frode, per privilegi, e col lavoro altrui, - che è la prima suprema causa della demoralizzazione, delle cupidigie, delle invidie, dei rancori, di quasi tutti i mali che affliggono la società presente. Come non comprendi Giulia, che questo non è sostituire una classe ad un’altra, ma togliere le divisioni funeste che ora sono fra di esse - e che si risolverà in un bene maggiore per tutti - e che sarà una mossa in avanti della civiltà tutta quanta?
Essa stette a sentire con attenzione volutamente rispettosa, e poi un sorriso leggerissimo le passava negli occhi, da cui egli capiva che quello non le pareva altro che un bel sogno. Gli passò le mani sotto il mento, e tornò a dire: - Sì, è bello, sta bene, hai ragione... Ma siccome queste cose ora non ci sono ancora che pochi che le pensano, e molti le intendono male e se ne adombrano, perché dirle a scuola, stamparle - perché volersi gettare in mezzo agli operai, far propaganda, compromettendo la tua famiglia, facendo il danno tuo e di tuo figlio, e dispiacere a tutti i tuoi?
Ma cosa ci hai nel cranio?
Questo era il grande scoglio in cui finiva sempre con venire a battere. Nondimeno le discussioni seguitavano ancora per vari giorni, affabilmente - in presenza del ragazzo.
Ma a poco a poco, lentamente, tornavano a inasprirsi.
Semplicemente, per sincera curiosità, essa lo interrogò sul come si sarebbe provveduto a questo e a quello nel nuovo stato, come si sarebbe vinta questa o quella difficoltà, - di quelle domande semplici, di dettaglio che mettono in imbarazzo assai più di quelle che concernono idee generali, perché son legate con altri mille dettagli, che bisogna conoscere, per spiegare quello solo. Ora, egli, nei suoi studi sullo stato collettivista, aveva bensì trovato al presente nei libri, su quegli argomenti, spiegazioni che l’avevano persuaso e risposte alle obbiezioni che gli erano parse vittoriose; ma per ripeterle in una discussione, con persone digiune di quegli studi, e con la voluta chiarezza, gli sarebbe occorso posseder la dottrina nel suo assieme e nei suoi particolari con molta profondità e sicurezza che ei non le possedesse. Avvenne quindi che a molte di quelle domande, egli riuscisse oscuro, esitasse, mostrasse nelle parole una incertezza che non era tutta nella sua coscienza, - e con viva amarezza, s’accorse che sua moglie se n’avvedeva, prendeva atto in sé di quelle debolezze, ne cavava argomento a confermarsi nella sua idea che egli fosse allucinato da un’utopia. [...]. Il sorriso di compatimento amorevole che essa faceva in quei momenti gli faceva alzar la voce con irritazione.
E allora essa diceva dolcemente, per abitudine: - Ma, Alberto, non t’alterare - ciò che lo irritava di più.
E più lo irritò quel giorno il vedere che il ragazzo, con l’intuito quasi istintivo dell’età sua, notava anche lui quelle incertezze. Quando egli esprimeva soltanto la parte critica del socialismo - quando accennava le ingiustizie, le miserie, i dolori delle moltitudini, come faceva spesso, con parole calde, affettuose, eloquenti, - il ragazzo capiva, si commoveva, diceva: - È vero! - si volgeva alla mamma, dicendole in aria vittoriosa: - Ma questo è vero, mamma! - qualche volta afferrava la mano al papà e glie la baciava. Ma quando la discussione cadeva sulla ricostruzione sociale, dove il padre doveva solo ragionare ed era meno sicuro, intaccava, non si faceva intendere, cadeva in qualche contraddizione - istintivamente, col viso più che con le parole, egli pareva dar ragione alla mamma quasi con aria di rammarico di non poterla dare a lui - il padre se lo sentiva sfuggir di mano - e ne provava una pena indicibile nel cuore e nell’orgoglio, presentendo quasi in lui un avversario futuro, in cui il dissenso delle idee avrebbe scemato l’affetto. Oh quel fanciullo, che egli amava tanto, che egli avrebbe voluto fosse una parte della sua coscienza e della sua anima, non poterlo plasmare a modo suo! A momenti, gli pareva che sua madre glie lo rubasse un po’ tutti i giorni - e questo pensiero lo esasperava.
A misura che la speranza di ridursi a vicenda scemava, scemava in loro quel rinnovamento d’affetto. E le discussioni, pur facendosi più rade, diventavano più acri. A lui pareva che di volta in volta andasse rifornendosi d’argomenti da suo padre - certe obbiezioni, in forma di domande gli pareva che non potessero esser sue - gli pareva di veder l’ombra del suocero dietro di lei - e ad ognuna di quelle obbiezioni tornava a ritrovare in lei una di quelle vaghe somiglianze fisiche che da un tempo non ci vedeva più. Finalmente egli trascese. A un’osservazione sua, che lo stupì, egli le domandò tutt’a un tratto con un sorriso di sarcasmo: - Ma dimmi un po’: tuo padre ti fa forse un corso d’economia politica ad uso di tuo marito?
Essa sentì il sarcasmo. S’alzò da tavola e rispose con voce concitata: - Mio padre è un uomo di senno e di cuore, che vuol bene a me e a te, e non vuol vederti andare alla perdizione.
Alberto la guardò e sorrise amaramente. Poi scrollò il capo, e disse in suono di ironia: - Ecco le donne - le mogli - le compagne dell’uomo! Ma già la colpa non è vostra - è frutto dell’educazione che vi si dà. V’insegnano a confinare il mondo nella famiglia e così fate. Ah! V’insegnano per tempo a maneggiar le forbici con cui taglierete le ali al marito! Quando un ideale gli si presenta, uno slancio generoso in pro della società, dei nobili sacrifici da fare per gli uomini, invece d’aver un alleato in voi, ha un impedimento, un nemico implacabile. Perisca il mondo; ma non si turbi la casa! - S’alzò da tavola e soggiunse con risoluzione: - Ah! È inutile! Non torniamo mai più su questi discorsi. Non ci possiamo comprendere, e non ci comprenderemo mai!
Giulia fece per rispondere... ma il pianto glielo impedì. E si sedette in atto di profondo scoraggiamento, mettendosi una mano sugli occhi, sentendo che la corda era strappata per sempre - che era finita - che non si sarebbero riconciliati mai più. E lui se n’andò, - lasciando il ragazzo triste [...] con gli occhi pieni di lacrime.
Così fallì l’ultimo suo gran tentativo di conquistarlo.
E allora cadde in un’amara disistima di se stessa: la colpa era sua, che non sapeva riprenderlo né con l’amore né con la ragione: era una piccola anima, una donna molle, senza passione, senza ingegno; a cui, passato il primo fascino della persona, non era rimasta nessuna potenza. E in quei momenti, ripensò più spesso alla Lariani! Oh se ella avesse avuto quell’anima vibrante, quella ragione così lucida e ferma, quella parola che entrava nel più profondo della coscienza e del cuore! Come quella, in luogo suo, l’avrebbe frenato, persuaso, riconquistato! L’avesse almeno avuta vicina - illuminata, sorretta da un’amica simile - ella avrebbe forse compiuto il miracolo -. Invece, per effetto della sua indole un po’ apatica e aliena dai pettegolezzi, non aveva amiche, era sola. La cognata Ernesta, da un tempo, pareva che avesse un po’ d’amarezza con lei, perché contrariava il fratello, - e d’altronde essa aveva le tendenze del fratello. La signora Luzzi, da un pezzo, si faceva veder di rado: doveva avere qualche preoccupazione: un amore, forse. D’altronde, ora, le pareva leggiera. Quel giorno stesso venne a trovarla col marito; e questi, essendo caduto il discorso su Alberto, e Giulia avendo sfogato un po’ l’animo suo, le aveva detto per tutta regola di condotta che "tacesse." Il "socialismo si ammazza col silenzio." Quando "non ne parleremo più, non ci sarà più." Restava la signora Cambiasi; ma l’ingenuità di questa buona creatura pareva che crescesse con la sua rosata e contenta pinguedine. Essa pure venne e le disse, per consolarla, con aria piena di saggezza e di bontà affettuosa: - Ma vedrai che cambierà. Le cose non vorranno mica durare in eterno così. Quando avranno ottenuto quello che vogliono, quando il governo l’avrà finalmente accordato questo benedetto socialismo, allora tutti staranno queti. Il governo finisce sempre con cedere, lo sai bene. - E dello stesso genere furono le consolazioni del signor Moretti, al quale, come vecchio amico della famiglia e devoto suo servitore, essa aperse un giorno l’animo suo. - O la mia buona e bella signora - egli le rispose col più sereno dei suoi sorrisi - ella si inquieta per delle ombre. Non tema che suo marito si possa compromettere. Il socialismo va facendo un’evoluzione in senso pratico e pacifico da noi, come da per tutto. Vede in Francia, in Germania, in Inghilterra. Quanto più diventa potente, tanto meno rimane pericoloso. La scienza è là, che lo frena, cara signora. Fra poco sarà un partito legalitario da per tutto. Faranno i socialisti come i rivoluzionari politici, che son venuti a transazioni, e s’adattarono alle opportunità. Signora, lei è giovane: lei vedrà trasformarsi il mondo senza che sia schiacciato un cappello cilindrico sul capo d’un solo borghese. - E baciatale la mano, la lasciò con un inchino, soddisfatto, certissimo d’averle messo l’animo al posto.
Intanto la sua inquietudine cresceva. Essa sapeva della petizione. Fu un colpo. Se, prima che questa pervenisse all’Autorità, non s’induceva Alberto a mutar sistema in scuola, se - sopra tutto - non si riusciva a impedire ch’egli facesse la conferenza agli operai - della quale lo sentiva parlare con quelli che venivano a trovarlo, con parole di promessa, e che a lei pareva fosse la più temeraria e pericolosa delle manifestazioni, non potendola separare da nere immaginazioni di tumulti e di pubblicità - la petizione avrebbe - le facevan sentire - potuto provocare una destituzione - che voleva dire uno scandalo enorme, una rottura irreparabile con il suocero, - forse anche la loro separazione temporanea, che il padre avrebbe imposto. A chi ricorrere per agire su di lui? Pensò al Cambiasi, ma era a Milano, per certi suoi lavori. Alla madre d’Alberto non pensò neppure, perché il suo modo eccessivo di pensare sulla quistione e la maniera altera e aspra con cui ne soleva parlare al figliuolo, facevano peggio, invece d’accomodare: già aveva sentore di vari scambi un po’ concitati di parole che erano seguiti fra loro a questo proposito negli ultimi giorni. Non rimaneva che il buon padre Bianchini. Era debole, non aveva autorità; ma, infine, adorava il figlio e ne era amato, e voleva un gran bene a lei: poteva tentare.
Essa lo trovò afflitto: le parole di lei lo afflissero di più - la baciò in fronte - si passò le mani sul viso - stette un pezzo in silenzio - e infine, con sua sorpresa -, rifiutò di tentare. Egli si trovava da un po’ di tempo in una nuova fase. I ragionamenti del suocero, che vedeva spesso, l’avevano completamente guarito dalle paure lasciategli dall’ultima conversazione con Cambiasi. Egli era ora ben persuaso che il socialismo fosse un’utopia, non capita, e nemmeno possibile a capirsi dalla gran maggioranza del popolo, e che non c’era ombra di pericolo serio. Di più, l’avevan confermato in questa certezza le sue osservazioni personali. Da ultimo, per riparazioni, aveva avuto per qualche giorno in casa il Peroni, poi un giovane imbianchino di vent’anni, coi quali, mentre lavoravano, egli, fumando, aveva, con un’arte che credeva sopraffina, cercato di scavar terreno riguardo al socialismo. Nel povero vecchio Peroni aveva trovato la completa incredulità d’una mente oscura e chiusa, e una muta rassegnazione, la rassegnazione del bove allo stato delle cose presenti. L’altro l’aveva più che rassicurato, gli aveva rallegrato l’anima. Era un pezzo di giovanotto roseo, grasso, ricciuto, allegro, schiattante di salute, con una faccia burbera, in cui brillavano due begli occhi azzurri e un po’ matti di tenta-ragazze, il quale, interrogato di socialismo, aveva risposto che non se ne "incaricava", che i socialisti avevan delle buggere per la testa, bevevan del vino cattivo, e poi, per star con loro, bisognava leggere e andar a sentir delle prediche, - lui non ci aveva testa - gli piaceva ballare e giocare alle bocce, gli piacevan le "socialiste", queste sì, - la settimana prima, incontrando in via Passalacqua uno sciame di scioperanti polsinettare che cantavano, gli avevan fatto una dimostrazione di simpatia, pizzicottandolo, in modo, che ne portava ancora i segni un po’ per tutto. E spingendo avanti le canzonature dei socialisti, che eran "quattro gatti", e gli scherzi sulle belle ragazze, era arrivato fino a dire delle oscenità, che il Bianchini aveva tagliato netto facendogli portare un bicchiere di marsala. E n’era uscito contento. Diceva d’aver: "sondato la classe operaia". Si poteva esser sicuri. D’altronde, il padre Geri, in lunghe passeggiate in piazza d’Armi, l’aveva persuaso del malthusianismo come dell’unico modo di guarire i mali delle società: era tutto orgoglioso d’aver capito le teorie della progressione aritmetica delle produzioni e della geometria della popolazione: ne parlava con molta serietà al caffè Londra: "l’amplesso preventivo" - non c’è altro. E non avendo più paura, non aveva più nessuna ragione di pencolare, come aveva fatto, verso il socialismo del figliuolo. Non faceva più il socialismo che in casa, per far dispetto a sua moglie, che passava il segno, facendo piangere persino la figliola. Ma sapeva tutto di lui, e aveva un doppio dolore di veder Alberto, il suo adorato Alberto andar incontro a dolori e danni per una causa insensata, da cui non c’era nulla da temere e nulla da sperare. Ma sapeva dei contrasti del figlio a scuola e della petizione, e questo gli stringeva l’anima. Non gli parlava più della quistione, non solo per la nessuna speranza di persuaderlo, ma per timore che egli, con la sua fede, con la sua eloquenza, gli facesse rinascer la paura. Ma lo covava con lunghi sguardi pieni di pietà e d’affetto, gli stringeva le mani con muta tenerezza, - metteva dei lunghi sospiri dopo d’averlo lasciato - tremava per lui, del provveditore, del suocero, del mondo, e più volte - sentendo il suo passo la notte nelle camere di sopra - pensando a tutto questo, si asciugava una lacrima. - No, figliuola mia -, disse a Giulia - con una voce trista e commossa - è meglio che non glie ne parli. Io lo conosco, mi conosco. Egli mi ridurrebbe a dargli ragione. Stiamo ad aspettare e rimettiamocene alla Provvidenza. Alberto è buono. Non ci vorrà dare a tutti un così grande dolore.
Quella sera, quando furon soli, essa gettò con straordinario affetto le braccia intorno al collo di suo marito. I loro rapporti duravano ancora. Pareva anzi che qualche volta essi si pigliassero con un nuovo e più vivo ardore, quasi con una rabbia d’amore, come per ottenere a forza in quel modo la comunione delle anime. Ma invano: c’era qualche cosa interposto fra la bocca dell’uno e dell’altro - e istintivamente essa non gli abbandonava più, come una volta, la testa sul cuore; ed egli sentiva, aspirava ancora con voluttà il suo odor di bambina ma come un odore che venisse di lontano. Essa gli sentiva fremere dentro tutta una vita di sentimenti, di pensieri, di visioni, in cui ella non aveva diritto di penetrare. E mentre nel passato la dolcezza del loro amplesso si rispandeva su tutta la giornata seguente, ora non più: la mattina, era come se tutti e due avessero dimenticato. Essa sentiva qualche cosa più forte della volontà di tutti e due, una fatalità che li separava. A volte, dopo un’espansione senza parole, quando essa rimaneva sola, sentiva una stretta al cuore, come se un estraneo fosse uscito dalla sua camera, e piangeva silenziosamente. E quella tristezza sorda, quell’amore inquieto, tormentato e geloso, alteravano la placidità del suo volto, vi mettevano un pallore di stanchezza e di mestizia, davano a tutta la sua persona un non so che di più molle e di più femminino; che l’occhio acuto del Geri riconosceva e divorava con dei lunghi sguardi ogni volta che l’incontrava, e che rinfiammavano tutti i suoi desideri. La seguiva con l’occhio dalla finestra alla piazza, tormentandosi i baffi - procurava più frequenti gli incontri - raddoppiava l’ossequiosità nei saluti e nelle poche parole che scambiava - mettendoci l’intenzione d’un amico che s’offra mutamente - con degli sguardi che mettevano un leggiero rossore sulle sue guance. Egli s’immaginava che oramai odiasse suo marito. Il frutto maturava sotto i suoi occhi, doveva un giorno staccarsi dall’albero e cadere, ed egli non avrebbe più avuto che da stender la mano.