Primo maggio/Parte quinta/VI
Questo testo è completo. |
◄ | Parte quinta - V | Parte quinta - VII | ► |
Nel momento in cui sua moglie rientrava in casa, Alberto arrivava all’ufficio della Quistione sociale, dove non s’era più fatto vedere da un pezzo. V’era stata un’adunanza; ci trovò ancora una folla, che rigurgitava fin nel cortile, sotto la neve. Stentò ad aprirsi il passo fin nello stanzone, pieno zeppo di operai, che si rimescolavano a fatica dentro a un’aria densa, in cui la luce del gas appariva velata come da un nebbia; e rumoreggiava gente anche nella stanza accanto. Si sentiva un mormorio, un fremito quasi di festa. Si vedeva in fondo il Rateri, in piedi, circondato d’un drappello di giovani che Alberto non aveva mai visti, e che gli parlavano vivacemente, quasi tutti insieme, con voci e visi allegri. Erano studenti, professori, impiegati, operai, che si spargevano ogni giorno di festa pei dintorni di Torino a tener conferenze, a diffondere giornali ed opuscoli, a far propaganda nelle società operaie, a preparare il terreno per fondar Circoli e Società di resistenza, e quella sera appunto, che era di domenica, rendevan conto delle loro gite a Lucento, a Pozzo di Strada, alla Madonna di Campagna, a Moncalieri ed altrove, dando nomi di nuovi soci, riferendo discussioni avute con Autorità, obbiezioni di catechizzati, contrasti, vicende e successi della loro propaganda, con la parola ardente e il gesto concitato di gente uscita da una lotta. In mezzo a questo gruppo spiccava la testa ardita e fine del Barra. Tratto tratto tacevano, e si sentiva la voce pacata del Rateri, che con frasi brevi e lucide chiariva dei dubbi e dava dei consigli, insistendo sulla raccomandazione consueta di far propaganda pratica, sfrondata d’ogni rettorica sentimentale, diretta sopra tutto a persuadere, con ragioni e fatti evidenti, che il socialismo non era già il proposito di rifare il mondo sopra un disegno concepito da alcuni, ma la coscienza della necessità assoluta di secondare un moto di trasformazione spontaneo, logico, già incominciato, irresistibile come lo svolgimento d’un organismo vivente. E i suoi ascoltatori assentivano col capo; ma i loro visi dicevano aperto che, alla prima occasione, si sarebbero lasciati andare egualmente agli impeti della natura e dell’età, preferendo l’eloquenza del cuore a quella della ragione. A stento, procedendo di fianco e strofinandosi alle giacchette umide di neve sciolta, Alberto arrivò fino al Rateri, che gli porse la punta delle dita e lo presentò ai suoi giovani vicini. Questi lo accolsero con festa; venti mani cercarono la sua; egli fu circondato, avvolto da un’onda di gioventù, che gli mise un soffio di freschezza nell’anima. Riconobbe dei suoi antichi compagni d’Università, che aveva conosciuti con tutt’altre idee, e dei figliuoli ventenni di personaggi noti di Torino, che avrebbero inorridito risapendo che il loro sangue bazzicava in quell’antro. Parecchi gli si presentarono da sé: c’erano avvocati e medici laureati di fresco, maestri municipali, scrivani, ragionieri, commessi di grandi negozi, studenti di tutte le facoltà, giovani che studiavan le quistioni sociali in tutti gli avanzi di tempo che lasciavan loro professioni e mestieri faticosi, che sacrificavano alla causa la lira del teatro e i quattro soldi del caffè, e rischiavano coraggiosamente il loro pane, tutti amici fra di loro, devoti gli uni agli altri, non ancor turbati da gelosie e da diffidenze reciproche, poiché l’entusiasmo comune le soffocava, tutti quasi segnati in fronte dall’Idea che legava i loro cuori e le loro vite. Fecero intorno a lui uno stretto circolo, intorno al quale se ne formò uno più folto di operai, e gli presero a raccontare gaiamente gli episodi delle loro gite della giornata, le mille difficoltà di trovare i locali per le riunioni, i rifiuti paurosi degli albergatori, le discussioni interminabili coi sindaci, e poi i contadini presi pel braccio a uno a uno, all’uscita della chiesa, e condotti come bovi alla conferenza, la gente chiamata a suon di tamburo da inservienti comunali coraggiosi, i discorsi pronunziati in un cortile d’osteria, sotto una tettoia di mercato, in mezzo a una piazza, dall’alto d’un carro agricolo, da un tavolino vacillante, da un mucchio di sacca; gli uditori stupefatti e ostili, le impertinenze degli interruttori, i pugni mostrati da lontano, e poi i primi segni di comprensione e di assenso, e i primi applausi, e le prime grida, e infine l’entusiasmo di tutti, le strette di mano, le promesse, i convegni, le bicchierate e l’addio. E Alberto li ascoltava commosso e ammirato del disinteresse generoso, della pazienza infinita, dell’ardente e infaticabile desiderio del bene che si rivelava nelle loro parole. Oh! se anche non fossero stati che sognatori, erano pur sempre delle anime nobili e belle, accese d’un santo ideale, e sovrastanti alla turba infinita degli egoisti soddisfatti del mondo quanto sovrasta il valore alla vigliaccheria, e non era a disperarsi d’una società in cui di tali giovani sorgevano di giorno in giorno a legioni. E prese a parlare anche lui, esprimendo la sua fede con un linguaggio appassionato e lampeggiante di cui vide subito il riflesso sui cento visi intenti e pieni di simpatia che gli erano intorno, fra i quali gli apparve un momento la larga faccia giubilante del Calotti; e già molti lo interrompevano, per fargli promettere di tenere una conferenza ai lavoratori, quando tacquero tutti ad un tratto, vedendo entrar Maria Zara.
Questa attraversò la folla lentamente per andar nell’altra stanza, salutando tutti col capo, senza guardar nessuno. Aveva un largo livido sotto un occhio, che tutti notarono. Passando davanti ad Alberto, lo guardò; e quello sguardo unico dato a lui in mezzo a quella folla, come un segno di preferenza, gli fece battere il cuore. Alcuni studenti l’accompagnarono nella stanza accanto, dove s’intrattennero qualche minuto con lei, e poi rientrarono con una notizia.
La Zara era andata in una soffitta, in via Gioberti, ad assistere il bambino d’una operaia, malata di difterite, che le era spirato fra le braccia. In quel punto era rientrato il padre, dopo tre giorni di stravizi, briaco d’acquavite e furioso come un bruto, e menando pugni alla cieca a sua moglie, aveva colpito lei sotto un occhio. Riconosciutala, era rimasto come trasognato, e lei allora, afferratolo per una spalla e mostratogli il morto, l’aveva buttato in ginocchio ai piedi della culla, dov’era scoppiato in singhiozzi. Bisognava raccogliere qualche lira per la sepoltura, e per dar da mangiare alla madre, rimasta senza un centesimo, con tre figliuoli affamati.
Un giovane, ancora imberbe, salì sopra una seggiola e, ottenuto il silenzio, raccontò il caso e propose una colletta. Poi soggiunse qualche parola per raccomandare alla generosità dei compagni un operaio tipografo licenziato dal padrone perché appartenente al partito socialista, e rimasto senza lavoro e senza mezzi. Detto questo, vuotò il suo magro portamonete nel cappello, e tese questo verso la folla.
Alberto si fece innanzi per dare il suo obolo; ma cento altri lo prevennero, pigiandosi e urtandosi per arrivare i primi, e il suono dei soldi che cadevano fitti l’uno sull’altro, come sopra un banco di tesoreria, gli scosse le più intime fibre come il suono d’una voce umana dolcissima che ripetesse senza fine una parola d’affetto. Egli guardò gli oblatori: molti eran mal vestiti, alcuni quasi laceri: con quell’oblazione, rinunziavano al sigaro, al bicchierino d’acquavite, a un pezzo di pane non superfluo, e non c’era un viso che non mostrasse la spontaneità lieta dell’atto, e via via che i soldi piovevano, si levava per tutta la sala un mormorio allegro e cresceva il rimescolio, un formarsi e un disfarsi di crocchi, in cui operai, studenti, impiegati, artisti, signori e poveri diavoli si mescolavano, si chiamavan per nome, discutevano, celiavano, con una maniera di familiarità che Alberto non aveva mai vista fra uomini di classi diverse, e che gli fece un effetto nuovo e strano, come l’indizio d’una società in isfacelo, che si rimescolasse per ricomporsi in una forma ringiovanita.
A un tratto si sentirono varie grida: - L’inno! Il maestro! Avanti il maestro! Cantiamo l’inno!
Si fece avanti un giovane piccolo e biondo, con gli occhiali, un maestro di musica, che aveva esercitato gli operai a cantar l’inno dei lavoratori, la folla gli si strinse attorno quasi da soffocarlo, e s’alzò un coro poderoso di voci rudi, ma non male intonate, che fece tremare i vetri e rintronare la casa come un concerto di trombe. I giovani cantavan tutti a piena gola; degli operai attempati, alcuni accompagnavano il canto a mezza voce, altri segnavano la misura scotendo il capo; molti visi eran pallidi, molti occhi s’inumidivano, in tutti balenava un pensiero, una speranza, un non so che di buono e di altero, che a chi non avesse inteso le parole avrebbe lasciato il dubbio se cantassero una preghiera o un inno di guerra. E mentre il canto s’alzava sempre più caldo e vibrante e tutti i visi si illuminavano, il solo Rateri, ritto in un angolo della sala con le braccia incrociate sul petto, rimaneva impassibile, guardando per aria coi suoi occhi fissi e velati, come se vedesse di là da quella folla un’altra folla innumerevole, altri millioni di bocche spalancate e nere, da cui uscisse col canto il soffio formidabile dell’avvenire.
E Alberto pure vedeva col pensiero quella moltitudine sterminata, e gli pareva che da quella, non dalla gente fra cui si trovava venisse il canto, e ne sentiva l’alito immenso nell’anima, e le faceva eco, dicendo che sì, che quel che volevano era giusto, che quello che speravano era santo, che quel che credevano era vero e grande e invincibile come la forza che move il mondo. E con una commozione più dolce e più profonda di quando aveva cantato da fanciullo gli inni alla patria, unì la sua voce al coro dei lavoratori.