Primo maggio/Parte quarta/III
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Finiva il novembre; gli alberi dei viali eran gialli, le Alpi già bianche, ma la stagione mite, e tutta giornate azzurre, terse da un’aria viva, che dava vigore e allegrezza. E Alberto era in uno dei periodi più sereni della sua vita. Dalla passione che lo dominava era svanita ogni ombra d’odio e d’amarezza, al suo affetto crescente per le classi povere andava unito un sentimento di grande indulgenza e di fede nella propria classe. Come Enrico George, egli sperava che la nuova morale sociale sarebbe diventata in tutti, a poco a poco, una fede così chiara e profonda da far cadere ogni egoismo e vincere ogni proposito di resistenza nell’animo della borghesia. Si trovava nella condizion di spirito di quei socialisti francesi, seguaci del Fourier e del Raspail, che dopo le giornate di Luglio, in mezzo alla tempesta politica, vivevano all’infuori d’ogni tristo pensiero e d’ogni bassa ambizione, non diffondevano che sentimenti umani e fraterni, credevan possibile riparare a tutte le iniquità sociali "serbando indulgenza per il passato e rispetto pei diritti acquisiti" e s’adoperavano per l’ordine e per la concordia "non profferendo parola che non potesse esser registrata ad onore del genere umano". In questa serenità s’era rimesso con vigore allo studio scientifico della grande quistione, risalendo alle origini del socialismo tedesco e affrontando lo Hegel per la prima volta, poiché s’era persuaso che senza la cognizione delle teorie hegheliane sul diritto, sulle società umane, sul corso della storia, sullo Stato; non avrebbe mai profondamente compreso il più grande degli scrittori socialisti, il quale aveva trasferito la dialettica del grande filosofo dalle regioni mistiche dell’idea nel dominio economico; e, infatti, comprendeva allora per la prima volta Carlo Marx, si trovava ogni giorno più stretto in quella sua rete così fitta e sottile che imprigiona gli intelletti e le coscienze più guardinghe e più ribelli, e anche i suoi ultimi dubbi dileguavano, e quanto più si fortificava nella fede, con tanto più entusiasmo lavorava al suo nuovo libro, sentendo in sé la verità di ciò che diceva il Machiavelli quando dettava le sue pagine più vitali: - Non temo più la morte.
La sicurezza della coscienza e il bisogno di parlare dell’opera sua lo spinsero di nuovo verso il Rateri e la Zara, a cui non s’era fatto più vedere da vari mesi, e v’andò con una certa commozione di figliuol prodigo che ritorna alla sua famiglia: ma l’incontro non ebbe nulla di drammatico. Il Rateri, ch’egli trovò solo nello stanzone nudo dell’ufficio, lo ricevette come se l’avesse visto il giorno avanti, con la sua solita cortesia gelata, e riprese subito con lui un discorso che aveva cominciato con se stesso, dicendo della necessità di persuadere gli operai che la reazione contro la politica oramai andava troppo oltre, che se era stato logico che ne rifuggissero prima, per diffidenza, dovevano ora, che eran forti, mutar registro, costituirsi in partito politico, e far sentire la loro forza coi voti, senza di che non si sarebbero mai disciplinati, né fatti prender sul serio, nemmeno dai renitenti della propria classe. E mentr’egli parlava, Alberto tornò ad osservare curiosamente, come se non li avesse mai visti, quegli occhi velati e fissi, che parevan guardare un orizzonte lontano, e quel viso di una bianchezza e d’una fermezza marmorea, dal quale non gli riusciva di comprendere quale fosse la prima e vera causa motrice dell’opera sua. Poi parlarono della dottrina, ed egli s’accorse che, dissimulando il proprio intento, quegli lo tastava per vedere se nel tempo che non s’eran visti egli fosse progredito negli studi. Con una lucidità mirabile gli spiegò l’errore in cui credeva che fossero i critici della teoria del valore del Marx, dimostrando come nel concetto "del tempo di lavoro socialmente necessario" si dovesse comprendere l’idea del "valore d’uso" che quelli non ci vedevano. Infine gli domandò bruscamente: - Cos’è questo libro, che sta scrivendo? - e lo stette a ascoltare con un viso così impassibile, che Alberto, benché molto eloquente, per solito, quando esponeva il concetto d’un’opera sua, si sentì fuggire l’ispirazione, e riuscì freddo e disordinato. Il Rateri approvava, nondimeno, con dei cenni del capo da esaminatore distratto, quando si fece più forte, nella stanza accanto, un bisbiglio di voci femminili che s’era inteso fin da principio. Eran giovani lavoranti crestaie, disse il Rateri, venute a consultare la signora Zara intorno a una quistione di salari; donne e ragazze, che passavan le notti a lavorare e uscivan prima dell’alba, facendo lunghissime corse a traverso alla città oscura e deserta, per ritornarsene alle loro case nei sobborghi, dove arrivavano così stanche, che si buttavan sul letto senza mangiare. E si sentì in quel punto la voce chiara e ferma della Zara, che parlava lentamente. Alberto fu scosso dal sentimento di sollecitudine materna che, più che nel suono della voce, era nei consigli pratici, ragionati, pieni di moderazione e di buon senso che essa dava alle operaie, citando esempi, facendo calcoli e confronti. Quando furon persuase, uscirono l’una dopo l’altra, attraversando lo stanzone in punta di piedi, e non ne restò che una, a cui parve che la Zara facesse un monito, con buon garbo. Poi se n’andò anche questa, e un momento dopo entrò la signora.
Fece un leggiero moto di stupore vedendo Alberto, e questi vide passar per la prima volta nei suoi occhi neri e tristi una rapida espressione di simpatia, quasi il barlume d’un sorriso indulgente di sorella maggiore, che ritrova il fratello pentito. Egli guardò se tendeva la mano; non la tese. Ma, rivolgendosi al Rateri, parlò in modo da far comprendere che dirigeva la parola a tutti e due. Disse che aveva fatto qualche rimprovero a un’operaia, il cui marito, ebanista, s’era raccomandato a lei, perché la riducesse alla ragione. Essa l’aveva conosciuta prima del matrimonio: era una ragazza intelligente; s’era innamorata di quel giovane, un operaio socialista dei più colti e operosi, e per piacergli, l’aveva assecondato, intervenendo alle riunioni del partito, mostrandosi delle più calde per la causa. Poi, fatto il matrimonio, sicura del fatto suo, aveva mutato idee, non s’occupava più che degli interessi propri, non voleva più che suo marito andasse né a riunioni né a conferenze, per timore che si compromettesse. Così facevan parecchie: facevan le socialiste per farsi sposare; sposate, ripiegavano la bandiera. E non c’era da meravigliarsene, poiché seguiva lo stesso in Inghilterra, dove gli operai delle Trade-unions si lagnavano delle donne, troppo paurose dei padroni, restie a entrar nelle Società, distratte dal pensiero del cappellino e del nastro, e così smaniose di matrimonio, che anche nelle adunanze più importanti bastava un’allusione d’un oratore a quell’argomento per farle andar tutte in visibilio, a mille miglia lontano dalla quistione. Ma, fra noi, il torto era in gran parte degli uomini, che non le conducevano alle conferenze, che non cercavano di persuaderle, che spesso anche cedevano e rinnegavano le proprie idee, per amor della pace. Quelli che resistevano non eran molti, e dovevan lottare con tutte le forze. Essa ne conosceva parecchi che avevan la vita avvelenata dalle continue liti domestiche, provocate dalla loro devozione attiva al partito, ed eran ridotti qualche volta alla disperazione.
E c’era nell’accento con cui diceva queste parole un senso di grande compatimento per tutti. Ascoltandola, Alberto notò che aveva qualcosa di trasandato nella pettinatura e nel vestito, non vedutole mai, e che gli spiacque; ma, continuando a guardare quel suo viso pallido, sul quale era l’espressione d’una tristezza immobile, e quasi del dolore d’una ferita antica, e quell’atteggiamento come d’una monaca altera, che celasse un’armatura sotto la tonaca, e seguitando essa a parlare con quella voce ferma ed eguale, in cui, sotto la dolcezza femminea, si sentiva una forza misteriosa, egli fu ripreso a poco a poco dal sentimento profondo e strano ch’essa gli aveva destato la prima volta, e pensò a Sofia Perowskaia, e rabbrividì, rivedendo al di sopra del suo capo l’immagine del patibolo, sul quale era certo che sarebbe salita con la stessa intrepidezza eroica della fanciulla russa, e le mandò un bacio in fronte, in cuor suo.
Essa continuò, discorrendo delle operaie che lavoran di notte, a frasi lente, come se parlasse a se stessa. Il lavoro notturno le rifiniva, le madri, specialmente. Tornate a casa la mattina, dovevano accendere il fuoco, preparar la colazione per i figliuoli: appena potevan dormire tre o quattr’ore. I bimbi che nascevano nel periodo di quei lavori avevan quasi tutti una costituzione infelice, molti morivano, molti nascevan morti. Ben a ragione era stato detto: lavoro notturno, mangiator di bambini.
Detto questo, prese un rotolo di carte sulla tavola, e fece l’atto d’andarsene; ma il Rateri la ritenne per annunziarle il libro d’Alberto; il quale, non meno che di quell’annunzio, rimase maravigliato della forma in cui ne spiegò il concetto, assai più esatta e compiuta di quella in cui l’aveva espresso egli stesso. La Zara approvò con un semplice atto del capo, e cambiando discorso, come per esimersi dal fare una congratulazione, gli disse, senza guardarlo: - Gli insegnanti possono far molto anche nella scuola.
- Ah, certo -, aggiunse il Rateri, - poiché lì è la fabbrica, dove si modellano i crani borghesi, ben chiusi, ben resistenti a ogni nuova idea.
E tutti e due lo fissarono come per interrogare il suo pensiero.
- Farò il mio dovere anche nella scuola -, rispose Alberto con semplicità.
- Rischierà la cattedra - disse il Rateri.
- Lo so -, rispose Alberto risolutamente, e, guardando la Zara, le rivide di nuovo negli occhi, rapida come un lampo, ma più chiara di prima, l’espressione dolce e grave di simpatia, con cui l’aveva guardato poc’anzi. Essa porse la mano al Rateri; parve che titubasse un momento, poi la porse anche a lui con un sorriso amichevole, e se n’andò senza farsi sentire, come un’ombra.
E con l’impressione viva, profonda, strana che gli fecero quel saluto e quel sorriso, si chiuse per Alberto il periodo più felice della sua nuova vita.