Primo maggio/Parte quarta/II

Parte quarta - II

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Parte quarta - I Parte quarta - III

Alberto aveva fatto in casa, quella sera memorabile, un’aperta professione della sua nuova fede; ma al padre non aveva detto nulla del libro, arditamente socialista, che stava scrivendo. Riguardo a questo s’era confidato soltanto con sua sorella, la quale si stringeva a lui sempre più forte, e pareva che diventasse bella per il riflesso della nuova passione che l’accendeva. Un giorno, peraltro, passò una nube per l’anima sua. Essendosi essa e l’operaio Barra incontrati per un momento nel suo studio, egli la vide arrossire, e sorprese uno sguardo di compiacenza di lui, e più tardi, parlandole di quella visita, la rivide arrossire come la prima volta. Al pensiero che sua sorella si fosse innamorata di quel giovane, egli si risentì e s’adontò, sul primo momento, come d’un oltraggio. Ma si vergognò quasi ad un tempo di quel risentimento. E che! Non era naturale che ella sentisse una viva simpatia per un giovane onesto, di cui egli le aveva detto la lotta eroica con la povertà, il profondo amore per la madre, gli studi faticosi, le alte aspirazioni? E non sognava egli stesso una società in cui, confuse le classi e distrutti i pregiudizi, l’amore non avrebbe più avuto né a discendere né a salire? Andiamo, era anche quello un ultimo resto d’orgoglio borghese da vincere, e lo vinse, e non ci pensò più, e tornò a sua sorella con più affetto di prima. Ella stava leggendo allora di quel movimento maraviglioso sorto nella Russia, quando centinaia di giovani ricchi e di signorine di grandi famiglie, mosse da un impeto generoso di amore e di speranza, lasciavano i palazzi, le ricchezze, tutti i piaceri della vita per "andar nel popolo", a confortarlo, a istruirlo, a organizzare i lavoratori, a lavorare con essi, a vivere dei loro stenti e a soffrire dei loro dolori. La storia di quelle fanciulle patrizie che si sformavan le dita a impastar il pane pei contadini le strappava lacrime d’amore e d’ammirazione. Essa avrebbe voluto imitarle, aveva bisogno di espandersi e d’operare, e si sentiva nella famiglia come in un carcere, soffriva di dover vivere così legata, imbavagliata, soffocata, impotente. Non potendo far altro, osservava con curiosità, dalle finestre la vita della povera gente della sua casa, il Peroni che mangiava sull’uscio, dei piccoli falegnami della "Casa dei derelitti" che lavoravan nel cortile, le operaie che andavano e tornavano dal lavoro. Per mezzo della cuoca, di nascosto, mandava qualche po’ di biancheria a donne delle soffitte e qualche soldo a un vecchio fabbro ferraio che non poteva più lavorare, si privava della frutta per gettarla ai ragazzi, baciava i bimbi scalzi che incontrava per le scale salendo da suo fratello, e la sera dei dì di festa, quando udiva grida e minaccie di operai briachi contro le loro mogli, s’addolorava, s’impietosiva per quelle povere donne, pei loro fanciulli, era presa da una compassione triste anche per gli uomini, e si rammaricava di non poter esser là a confortar gli uni, a ragionar gli altri, a metter pace. E quanto più, leggendo e pensando, s’eccitava in questi sentimenti, tanto più addentro l’offendeva la durezza con cui sua madre rintuzzava ogni più timida manifestazione ch’ella ne facesse, e più faticava a contenere i suoi impeti di ribellione. Un giorno, infine, si ribellò, e senza volerlo tradì il segreto del fratello. Erano a tavola: leggendo nel giornale la notizia d’un ricchissimo signore russo che, nell’ultima grande carestia, aveva dato fino all’ultimo rublo ai poveri delle sue terre, e messo le sue figliuole a far le governanti, essa non poté trattenersi di dirlo a suo padre, con parole d’ammirazione.

- E tu l’ammiri? - domandò la signora Bianchini - Per me è un birbante matricolato.

La ragazza fremé. - Oh mamma! - disse - Crede lei che Gesù, se fosse stato ricco, non si sarebbe spogliato di tutto per dar da mangiare agli affamati?

La madre le diede una risposta sbalorditiva: - Gesù non aveva figliuoli... Un padre che riduce alla miseria la sua famiglia è un padre scellerato.

- È un uomo sublime!

- Io non lo saluterei.

- Io gli bacierei i piedi.

Era la prima volta che osava tanto con sua madre. Questa la guardò come per accertarsi ch’era proprio lei ch’aveva parlato, e poi la fulminò con le solite parole, ma con un accento più sprezzante del solito: - Sei una sciocca ridicola!

- Allora -, rispose la ragazza, non contenendosi più -, sarà uno sciocco ridicolo anche Alberto! Lei vedrà! Nel nuovo libro che sta scrivendo dirà ben altre cose che nel primo!

A quelle parole la madre ammutolì come all’annunzio d’una sventura domestica, e il signor Bianchini, per nasconder l’effetto del colpo, corse alla finestra a prender aria.

Ma gli parve che gli mancasse l’aria anche alla finestra e, fatti due o tre giri inquieti per la casa, andò su dal figliuolo per domandargli "se era vero". Col proposito, se rispondeva di sì, di persuaderlo a desistere con ammonizioni e preghiere. Ma quando Alberto, credendolo ancora nella sua ultima fase socialista, dopo avergli chiesto scusa di non essersi confidato prima con lui, gli espose con calore il disegno del suo libro, e gli disse dei suoi studi sugli operai, dei progressi rapidi della propaganda e della organizzazione, e d’un grande moto non lontano in cui sperava, non si sentì la forza di contraddirgli e non fece che rispondergli due o tre: - Bene - benissimo - con voce di malato e una cera da far compassione. E poiché credeva tutto, e anche di più di quel che aveva inteso, fu preso da un turbamento profondo, che neppure le raddoppiate libazioni di Barolo non gli poteron più quetare. Eh, fin che si parlava di teorie e di ideali, di ingiustizie da proclamare, di diritti da riconoscere, di socialismo in astratto, insomma, egli ci era stato, e di buon cuore; ma oramai era un altro affare: suo figliuolo praticava dei settari, riferiva dei fatti, conosceva le forze del partito; non si trattava più di chiacchiere e chiassi; il lavorio era formidabile, la società minacciata, il pericolo vicino. Aveva un bel dirgli il signor Moretti, col suo beato ottimismo cantante in voce di galletto, che il grande mutamento si doveva produrre per effetto d’una lenta penetrazione della nuova morale in tutti i cervelli e in tutte le coscienze, d’una "infiltrazione insensibile del principio socialista in tutti gli organi, in tutti gli strati più vitali della vecchia compagine della società" in modo che questa si sarebbe convertita nella nuova, come un quadro dissolvente si muta in un altro, quasi fondendosi, senza che alcuno se n’accorgesse. Minchionerie di rimbambiti! La società non è un quadro dissolvente, egli si diceva. Ci sono i contrasti d’interessi, gli elementi malefici, le impazienze, gli odi, le ire d’iddio! E il suo figliuolo che stava per soffiare in tutto questo con un libro di quella fatta! Che cosa sarebbe accaduto, santo cielo, che cosa gli sarebbe toccato di vedere coi propri occhi? E con la paura lo tormentò una curiosità morbosa di sapere, non già come la rivoluzione sarebbe scoppiata, ché di questo l’aveva già edotto abbastanza il Cambiasi, ma con che procedimento si sarebbe operata la trasformazione, in qual maniera si sarebbero "riassestati gli affari" che cosa ci fosse da rischiare e da perdere, a quali sacrifizi determinati fosse necessario di prepararsi. E in casa del figliuolo, di nascosto, sfogliò qualche libro; ma non vi trovò quello che cercava; era costretto a lavorar con l’immaginazione, la quale, non avendo alcun fondamento di cognizioni esatte, non gli rappresentava che cose mostruose. Doveva interrogare il figliuolo? Ma questi, col suo entusiasmo, avrebbe tutto appianato e abbellito. A che lumi ricorrere?

Fu anche questa volta il Cambiasi che lo illuminò, e di che luce! Andato una sera a cercarlo, lo intoppò sotto i portici di corso Vinzaglio, e dopo avere divagato un po’ col discorso, venne all’argomento che gli premeva con un passaggio così poco naturale, con una ostentazione così forzata di leggerezza, come se avesse intavolato un soggetto unico, che il Cambiasi indovinò subito il sentimento opposto all’espressione, e prese nel rispondergli, per far più colpo, il tuono serio ad un tempo e spigliato di chi predice delle cose tristi, ma inevitabili, a cui ha l’animo preparato da un pezzo.

- Che cosa faranno? - gli disse, ripetendo la sua domanda. - Su quello che faranno non c’è, purtroppo, il minimo dubbio, prima perché, se non s’arrischiano a dirlo chiaramente, lo lasciano però comprendere, e poi perché, per forza delle cose, non potranno far altro che quello. Già, lei sa come io la penso: io credo che il socialismo s’impadronirà del potere non col voto, ma con la forza.

- Eh! Questo è chiaro! - rispose il Bianchini, sorridendo, a modo suo. - Ma dopo che si saranno impadroniti... quando avranno vinto, insomma, come se la caveranno? Che cosa faranno, subito? Lì li voglio vedere!

- Ma è tutto prestabilito. Naturalmente, per prima cosa, in tutti i punti dove saranno riusciti vincitori metteranno le mani sulle casse pubbliche e sulle banche, costituiranno dei poteri rivoluzionari locali e nomineranno dei delegati nelle città e nei comuni. Poi... armeranno il popolo, formeranno un esercito provvisorio per premunirsi da una riscossa possibile della borghesia... Prenderanno anche, secondo l’uso, degli ostaggi nella classe vinta: alti impiegati, uomini politici, generali, magistrati, capitalisti.

- Grandi capitalisti - osservò il Bianchini, lanciandogli un’occhiata interrogativa, di traverso.

- Eh, dio mio -, rispose il Cambiasi - in casi simili non si fanno le scelte... con tanta cura, si piglia a retate, si capisce, come vien viene... Nello stesso tempo... e questo, credo, sarà uno dei primi provvedimenti per impedire al capitale di fuggire o di rimpiattarsi... ordineranno a tutti i grandi industriali e commercianti di mantener provvisoriamente nello statu quo fabbriche e case, personale e salari, fin che il nuovo governo non assesti le cose..., e frattanto, per provvedere ai bisogni urgenti e per legare le moltitudini al nuovo governo, faranno a tutti quelli che n’avran bisogno una larghissima distribuzione di buoni per vestiario, nutrizione, alloggio... riscaldamento...

- Riscaldamento?... Una bagatella!... E in seguito?

- In seguito... Le dico il mio parere, badi, quello che mi pare logicamente argomentabile dai principi e dalle teorie che enunciano... In seguito, è probabile che tutti i poteri locali designeranno dei rappresentanti, i quali, riuniti, costituiranno un potere centrale, che darà un impulso unico e regolare al movimento, affiderà i grandi stabilimenti industriali e commerciali agli operai e impiegati che già vi lavoreranno, abolirà l’imposta fondiaria, toglierà la leva, soprattutto il debito pubblico...

- Sopprimerà...? Eh, già, è inevitabile.

- Sopprimerà il debito pubblico e avocherà allo Stato tutte le grandi proprietà private, immobili e mobili, seguendo l’ordine indicato dalla graduazione presente del loro accentramento, ossia, cominciando dalla proprietà finanziaria...

- Si comincierebbe dunque dalla finanziaria...

- Naturalmente, essendo la più facile a prendersi!

- E così, senza indennità, senza pagare riscatti?

- Ma si capisce! E chi ci crede alle indennità? Sarebbe un voler fare l’impossibile, il nuovo stato andrebbe in rovina issofatto. Si farà casa nuova, sarà una dittatura di classe, comprende? un governo che, per qualche tempo, farà tutto quello che vorrà e gli parrà a esclusivo vantaggio delle classi lavoratrici, preparando intanto la nuova legalità socialista.

- E le piccole proprietà agricole? - domandò il Bianchini, pensando al suo podere di Val di Susa.

- Ma! Quelle pare che saranno lasciate ai loro proprietari...

- Meno male.

- Ai proprietari che le coltiveranno personalmente, si sottintende, e questo è logico; ma le lascieranno ai proprietari sul fondamento di questa persuasione: che, a capo di qualche anno, comprendendo i vantaggi della produzione e del possesso in comune, essi fonderanno spontaneamente le loro piccole proprietà nella proprietà pubblica.

Il Bianchini rimase qualche momento muto e pensieroso. Ma, non avendo inteso parlare della proprietà edilizia, gli rimaneva il conforto d’una speranza riguardo alla sua casa di Borgo Vanchiglia, anche perché l’avocazione allo Stato, la distribuzione pubblica d’una tal proprietà gli pareva inattuabile. E domandò, sorridendo male: - Ma... e la proprietà edilizia, dunque, la proprietà edilizia? Questa, se non altro, sarà lasciata stare... per necessità!

- Sarà lasciata stare? - domandò a sua volta il Cambiasi, fermandosi e guardandolo in viso. - Ma la proprietà edilizia è considerata dal socialismo come la più ingiusta, la più vessatoria delle proprietà, si comprende. Lei non sa che quando scoppiò la rivoluzione sociale in Spagna, nel ’73, il Comitato di salute pubblica di Siviglia, con due righe di decreto, ridusse della metà tutte le pigioni, e, noti, soltanto "per cominciare" come provvedimento preparatorio della liquidazione sociale. Le case al Comune, caro signor Bianchini, non c’è dubbio; le case al Comune. C’è un solo caso in cui sarebbe possibile che lasciassero le case ai proprietari, una sola condizione, che fu accennata in un congresso socialista in Germania...

Il Bianchini tese l’orecchio.

- E la condizione è questa: che per ricompensare gl’inquilini, i quali, abitando le case, ne impediscono il deterioramento, si obbligassero i proprietari a pagar loro una somma annuale da stabilirsi, proporzionata, s’intende, all’ampiezza del quartiere che essi conservano in buon stato.

Allora il Bianchini scoppiò. - Ah! questo è troppo! Queste son pretenzioni da malfattori e da pazzi! Questa griderei che è un’infamia se mi vedessi schierati davanti tutti i socialisti d’Europa!

Il Cambiasi rispose con aria di rassegnazione filosofica: - Sarà dura, ne convengo.

- E lei crede che questo sarà? - domandò il Bianchini, col viso acceso.

- Sarà... intendiamoci: faranno la prova; che la prova riesca, è dubbio; credo di no, per conto mio; ma che si debba venire a quel punto, caro signor Bianchini, lo tenga pure per certo, come è certo che due rette convergenti s’incontrano.

Tutta la collera del Bianchini cadde a quelle parole per dar luogo a uno scoraggiamento profondo. Egli tacque per un po’; poi, con voce debole, domandò al Cambiasi se, dopo la vittoria, dato il caso che vincessero, egli credeva che avrebbero fatto vendette, violenze sulle persone, che si sarebbe ritornati ai "bei" giorni del Terrore.

Il Cambiasi ebbe un lampo di sorriso negli occhi; poi mise un sospiro, e rispose: - Vorrei non crederlo, caro signor Bianchini; ma non posso. A vedere come vanno aizzando il popolo ora, non c’è da sperare che quando avrà fracassata la gabbia si porterà da bestia mansueta. Non sarà soltanto una rivoluzione, purtroppo, caro cavaliere; sarà una reazione, e con l’accompagnamento inevitabile di persecuzioni, di proscrizioni... d’orrori.

Rimaneva un’ultima speranza al Bianchini. Sì, vendette, violenze ci sarebbero state contro i renitenti, contro tutte le persone conosciute per avversione accanita alle nuove idee; ma le persone note - e pensava a suo figlio -, per aver aiutato, precorso il movimento, per aver sempre professato quelle idee a viso aperto "con la parola e con la penna" queste, almeno, e le loro famiglie, non avrebbero avuto nulla da temere! E stette aspettando con ansietà la risposta.

- Ahimè! - rispose il Cambiasi - L’esempio del passato non ci conforta a sperarlo. S’è visto nella rivoluzione francese. Il popolo non faceva alcuna distinzione fra i suoi più arrabbiati nemici nobili e preti e quelli che s’eran mostrati sempre liberali, che erano stati i primi a portar la coccarda, che avevan dato danari per le officine nazionali, che s’erano spogliati per riparare ai mali della carestia. Tutti erano sospetti e odiati, tutti perseguitati e accoppati ad un modo. Bastava avere "la pelle fina".

- E allora - proruppe il Bianchini, invasato dall’ira della disperazione, arrestandosi sotto i portici e brandendo la canna, - allora è una causa iniqua, è la causa dei barbari, un vituperio, che ci sia della gente che la difende, è... - e le altre parole gli moriron soffocate nella strozza.

- No, signor Bianchini -, gli rispose con affettata solennità l’ingegnere - la causa è giusta. Soltanto, sono ingiusti gli uomini, i quali abusano d’ogni diritto e macchiano ogni vittoria. Così hanno fatto per le più sante cause, così faranno sempre. Non ci resta che a rassegnarci.

E il Bianchini tornò a casa sconcertato, addolorato, furioso, in un tale stato d’animo che, entrato nell’anticamera e udita la voce d’Alberto nella sala da pranzo, gli fece il più fiero atto d’ostilità di cui fosse capace: se n’andò a letto senza salutarlo.

Ma quando, un’ora dopo, mentre s’agitava nel letto senza poter dormire, sentì il passo del figliuolo nella camera di sopra, pensando che sarebbe stato presto travolto dal movimento socialista, che i suoi operai l’avrebbero trascinato in piazza con loro, e che forse sarebbe stato ucciso sopra una barricata, fu vinto da una profonda e triste tenerezza, gli perdonò, si pentì di non averlo abbracciato, e tutte le sue ire e le sue paure si perdettero in un sentimento di grande pietà per lui, per se stesso, per la sua famiglia, per tutta quanta la povera borghesia riserbata al ferro e al fuoco della barbarie.