Primo maggio/Parte quarta/IV
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La classe sociale, di cui aveva disertato la bandiera, cominciò a fargli sentire la sua zampa irritata nella scuola.
Fin dal principio dell’anno scolastico egli aveva posto a se stesso il quesito: se fosse suo dovere e suo diritto, non d’inculcare nei suoi alunni le proprie idee, ma di illuminarli, se non altro, intorno alla natura e all’importanza della grande quistione che agitava il mondo. E, dopo maturo esame, la coscienza gli aveva risposto di sì. Egli aveva pensato che "educare" non significa nulla se non si educa per l’avvenire, e che però un insegnante di lettere, che è pure un educatore civile, deve apparecchiare i giovani alla vita nuova, aprire il loro spirito alle idee che sorgono, essere nell’insegnamento una forza attiva e impulsiva. Ciò posto, era incontestabile ch’egli dovesse parlar loro della quistione sociale, che avrebbero incontrata a ogni passo e sotto tutte le forme e per tutte le vie nel cammino della vita, prepararli alle lotte e ai sacrifizi che avrebbero dovuto sostenere per essa, qualunque fosse stata la loro fede, e senza abusare della sua autorità per spingerli più dall’una che dall’altra parte, predisporli a considerar la quistione serenamente, combattere in loro quell’istinto di resistenza cieca, dura, intrattabile alle nuove idee, che, rispondendo alla ragione col dileggio, opponendo ai lamenti le minacce, e negando i mali che la spaventano, irrita gli animi, inasprisce le dispute, provoca le violenze, e a coloro stessi che la esercitano restringe l’intelletto e intristisce il cuore.
Su questo egli non aveva più dubbio; ma, per incertezza riguardo al modo da tenere, non s’era ancora determinato a mettere in atto il suo pensiero. Le parole di Maria Zara gli diedero l’ultimo impulso.
Cominciò cautamente, senza toccar la quistione principale, esprimendo idee e sentimenti che vi si riferiscono, di volo, quando il destro gli si presentava. Si oppose da prima all’uso, invalso in molti insegnanti, di suscitar nelle scolaresche antipatie e rancori contro altri popoli, di servirsi della storia a gonfiar la superbia nazionale, di deprimere ingegni stranieri, che i giovani non conoscono, con raffronti inopportuni ed ingiusti, storpiando il loro giudizio letterario a benefizio d’un patriottismo vanitoso ed angusto. Biasimò poi l’entusiasmo insensato e iniquo per la guerra in se stessa, l’ammirazione irragionevole per tutti i grandi macellatori fortunati, la consuetudine trista di descriver le stragi famose con un linguaggio barbarico, confondendo col valore e con la forza d’animo l’indifferenza pei dolori umani e il disprezzo brutale della vita. Prese a correggere, qua e là, nei componimenti degli alunni e a riprovare nelle pagine degli scrittori la tendenza alla glorificazione iperbolica di chi è posto dalla legge al di sopra d’ogni censura, all’osanna obbligatorio cacciato in fondo a ogni scritto o discorso per coprire il vuoto d’un’idea, alla lode non dettata dal cuore, non misurata dalla ragione, non giustificata dall’opportunità, convertita in ritornello inconsapevole come l’avemaria della beghina illetterata, ridotta un’abitudine servile dello spirito, che falsa il concetto degli uomini e dei fatti, predispone i caratteri giovanili a genuflettersi e ad arrampicarsi, e rivolta l’animo, senza dubbio, anche a chi ne è l’oggetto...
E fin qui, egli non osservò nei suoi giovani che qualche leggiero segno di stupore. Non riseppe se non più tardi che l’esortazione a rispettare e ad amar tutti i popoli l’avevan fatto accusare di "mancanza di patriottismo", che il suo modo di pensare riguardo ai macelli degli eserciti era stato definito "fiacchezza, sentimentalismo d’imbelle" e che le sue idee intorno alla dignità umana e civile avevan fatto dire: - È repubblicano -
Ma quando, con la pacatezza d’un pensatore spassionato, cominciò a parlare d’una quistione che ingigantisce di giorno in giorno all’orizzonte dell’avvenire, a dire che è dovere di tutti di riconoscerne l’esistenza e di misurarne la grandezza, che per esser cittadini onesti non basta più vivere con spensierata onestà nel proprio canto, badando soltanto a istruirsi, ad arricchire, a farsi un nome e a godere, come se il benessere o il malessere, la ricchezza o la miseria, l’ignoranza o l’educazione, la bontà o la perversione degli altri membri della società non ci concernessero in nulla; ma che bisogna studiare i mali, desiderare e cercare i rimedi, e educarsi a lottare e a soffrire nella grande trasformazione sociale che si prepara, allora le cose mutarono. I giovani capirono che egli entrava nell’ordine di idee per cui aveva già fatto parlar di sé e accolsero le sue parole in modi diversi. Fra i molti o indifferenti o attenti con curiosità imparziale e con animo incerto, egli vide alcuni illuminarsi di simpatia, altri assumere un atteggiamento ostile e sarcastico; fra quelli, il fratello del Rateri, a cui ogni sua parola cavava un baleno dagli occhi; fra questi, il figliuolo del Geri, a cui egli lesse in viso, giorno per giorno, il tenore dei commenti che doveva far suo padre sulle parole che gli riportava. E scoperse subito tra il Geri e gli altri ostili a lui un’intelligenza, un fremito concorde ad ogni accenno ch’egli facesse all’argomento, uno scambio di sguardi e di sorrisi sfuggevoli, che preannunziavano la critica derisoria in cui si sarebbero accordati all’uscita, e le relazioni dei suoi discorsi che avrebbero fatte alle loro famiglie, caricandone le parole e falsandone le intenzioni. Notò assai presto, infatti, nel suo buon Preside una certa inquietudine, un adombramento insolito, il quale gli fece sospettare che qualche parente dei suoi alunni si fosse venuto a lagnar di lui. E non s’ingannava. Prima un impiegato della Prefettura e un vecchio medico, padri di due dei suoi scolari simpatici, erano venuti a fare delle rispettose rimostranze, dicendo che da qualche giorno i loro figliuoli tenevano certi discorsi, avevan pel capo certe idee...; poi era venuto un colonnello in riposo, messo su dal figliolo stesso, con due gran baffi grigi irritati, il quale, senza cerimonie, aveva chiamato gli avvertimenti del professore: discours da birichin. E il buon Preside s’era turbato, aveva tentato di palliare la cosa, promesso d’informarsi e di provvedere; ma, buono e affezionato com’era al Bianchini, e mal preparato sull’argomento, non s’era ancor deciso a parlare. Un fatto, però, gli forzò la mano.
Comparve un giorno sul giornale Il vecchio Piemonte un articolo senza nome, diretto contro i professori che facevan dalla cattedra propaganda di idee sovversive, che tradivano il proprio ufficio e la fiducia delle famiglie, abusando dell’ingenuità dei giovani per insinuar loro dottrine mal digeste e funeste, le quali non li stornavan soltanto dagli studi, ma dalla via dell’onestà e della rettitudine. V’eran qua e là delle allusioni assai chiare alla sua persona, e diceva la chiusa: "Vadano a rizzar cattedra in quelle Società operaie che escludono dalle loro sedi i ritratti dei nostri Sovrani: troveranno là un uditorio più propizio alla stravaganza e all’audacia delle idee sociali in cui cercano un appagamento alla loro ambizione delusa nel campo dell’arte".
Alberto lesse l’articolo una mattina, andando alla scuola, e impallidì dallo sdegno: l’istinto l’avvertì che doveva esser del Geri; ma sarebbe bastata a farglielo credere l’ultima allusione, poiché sapeva che il Geri aveva cacciato due operai dalla sua fabbrica di prodotti chimici, perché appartenenti a una Società operaia iconoclasta. Arrivato a scuola, capì che l’articolo v’era già noto, s’accorse dai visi accesi che la sua entrata aveva troncato una discussione su quel soggetto, e un sorriso del giovane Geri gli tolse ogni dubbio intorno all’articolista innominato. Ma durante la lezione si calmò, e, appena tornato a casa, stese un articolo di risposta. Cominciò con pacatezza, non parlando di sé, trattando impersonalmente la quistione "se a un insegnante di lettere d’un liceo fosse lecito di parlare ai giovani, quando l’opportunità se ne presentava, della quistione sociale". E affermava di sì. Ma come! Si doveva parlar loro dell’avvenire della letteratura, dell’evoluzione della scienza, di tutte le forze e le forme del progresso civile, e tacere di ciò che a tutto questo si collega e sovrasta come l’effetto alla causa, come la meta alla via? Non era lecito di far conoscere ai giovani lo stato della società in cui son nati e dovranno vivere? Dovevano entrare in questa società, tutta fremente dalla lotta di classe, scossa e minacciata fin nelle fondamenta da una corrente formidabile di nuove passioni e di nuove idee, più ignoranti di questo moto di quel che non fosse il più inculto operaio? Ma doveva venire il giorno in cui quella sarebbe parsa la più grande assurdità pedagogica che si fosse mai data nel mondo. Certo, l’insegnante doveva toccar l’argomento senza spirito di parte, mirando, più che ad altro, a combattere i preconcetti e le passioni che impedivano di considerarlo con mente lucida e con animo tranquillo; e facevan così gl’insegnanti di coscienza e di senno. Ma il non parlarne punto, il fingere che la quistione non esistesse, questo era un tradimento vero della gioventù, e accusar di traditori del proprio ufficio coloro che d’un tradimento appunto non si volevan macchiare, era una stupida calunnia. Ma qui il risentimento contro il calunniatore, riacceso tutt’a un tratto, gli faceva perder le staffe; e uscendo dalla quistione scolastica, egli ammoniva la borghesia ostinata nella sua imprudente negazione, con le parole del cardinal Manning: - Vano è chiudersi gli occhi con le mani per non vedere l’abisso -. L’anima del socialismo era una legittima aspirazione dell’umanità che si sentiva matura per un ordinamento in cui fossero più rispettate la giustizia e la solidarietà umana "e il suo trionfo era una necessità di fatto" "una fatalità storica, il regno del numero", profetato da Enrico Heine, il quale doveva avvenire, e sarebbe avvenuto, poiché s’è visto sempre nella storia che le cose imperiosamente necessarie trovano il modo di compiersi. E cela sera, concludeva con Benedetto Malon, e che non si capisse da tutti era una prova della sentenza: "che Dio colpisce di cecità le classi sociali che vuol perdere", e metteva compassione l’indolenza dell’ultimo festino di Baldassarre che s’inebbria spensierato mentre già la mano fiammeggiante scrive sulle pareti dorate la fatidica trilogia.