Primo maggio/Parte prima/VIII

Parte prima - VIII

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Quando, dopo la discussione col padre, Alberto e la signora salirono in casa propria e sedettero a tavola col ragazzo, nella bella sala da pranzo che dava sulla piazza e sul corso, Alberto s’accorse che sua moglie aveva cambiato umore. Ogni volta che essa aveva qualche cosa con lui, non attaccava già briga, non si mostrava irritata: taceva soltanto, pigliava un atteggiamento passivo, una cert’aria di rassegnazione indulgente, che si esprimeva in un sorriso leggerissimo. E questo gli era insopportabile. Egli preferì di lottare sull’atto.

- Ti pare - le domandò - che io abbia detto dei grossi spropositi?

Essa tardò un momento a rispondere; poi disse: - Non dico questo; ma... ti confesso che m’ha fatto pena sentirti dir quelle cose.

- Perché?

- Perché... non so... mi pare che tu ti sia messo per una strada... che non è la tua; per una strada che ti potrebbe condurre...

- Alla perdizione?

- No... ma che so io? ... alla volgarità. Non è forse la parola giusta, non so esprimere bene la mia idea... Non mi parevi più tu, mentre parlavi.

- Ma come? - domandò il marito sorridendo - È volgarità il dire che il mondo è pieno d’ingiustizie e di miserie, e che a questi mali si può metter riparo?

A quella domanda la signora rispose con uno dei suoi soliti scambietti donneschi, che era di sfuggire a una quistione saltando in un’altra.

- Ma perché - domandò dolcemente - non tieni conto di tutto quello che si fa per la gente povera, di tutti i denari che si spendono in carità, in ospedali e in tante altre cose? A sentir te, pare che tutto questo non sia nulla.

- Ma, cara mia; io ho parlato d’ingiustizia. Alla ingiustizia non si ripara con la carità, supposto anche che questa bastasse ad alleviare tutti i mali; e tu vedi che non basta, che è come un rigagnolo che si perde in un deserto di sabbia. La carità presuppone il male, ossia la povertà, l’abbandono; è dunque la causa del male che bisogna sopprimere, e questa causa è l’ingiustizia.

- Ma quale ingiustizia? - domandò la signora, con sincero desiderio di comprendere.

- Ma l’ho detto dianzi, un’ingiustizia patente. È che la ricchezza, che è prodotta tutta dal lavoro, invece d’esser ripartita equamente tra i lavoratori che la producono, si riduce in poche mani, nelle quali resta e si moltiplica, formando nella società una classe privilegiata, che dispone di tutti i mezzi di sussistenza del maggior numero, e perpetua in sé la facoltà d’arricchire, d’istruirsi e di godere, mentre tutte le altre rimangono forzatamente povere e ignoranti.

La signora stette un po’ sopra pensiero; poi disse: - Non capisco.

E soggiunse: - Ma la ricchezza non s’acquista lavorando?

- Facendo lavorar gli altri -, vuoi dire.

- Facendo lavorar gli altri? ... Ma il nostro vicino Ferreri, per esempio, ch’è ricco, non lavorò per arricchire? Sai che principiò facendo il muratore.

- Ebbene, egli principiò ad arricchirsi appunto quando cessò di fare il muratore, per prendere degli appalti, con cui faceva lavorare altri muratori. Se avesse continuato a lavorare come i suoi compagni non sarebbe arricchito mai.

- Ma ha continuato a lavorare in ogni modo: ha calcolato, ha diretto... che so io? s’è dato moto, ha messo in opera la sua intelligenza.

- E ti pare che i tre o quattro millioni che mise insieme, con cui potrebbero vivere duecento famiglie, siano un compenso giustamente proporzionato al lavoro di calcolo e di direzione che egli fece? E che sia giusto che le centinaia di lavoratori, che concorsero alla formazione della sua ricchezza, e senza dei quali non avrebbe potuto far nulla, abbiano avuto appena da campare stentatamente, faticando dieci ore al giorno, logorandosi la salute e rischiando la vita, per finir all’ospedale? Ti par giusta la ripartizione?

- Ma allora, secondo te, tutte le ricchezze sono di mal acquisto?

- Davanti alla legge, no; davanti al diritto naturale, sì.

- Vuoi dire che sono di mal acquisto anche i denari di mio padre?

- Ma, scusami, tuo padre non li ha nemmeno acquistati, li ha ereditati.

- Bene, li ha ereditati: sarebbero dunque di mal acquisto quelli di mio nonno, che li guadagnò facendo l’avvocato. Li ha forse guadagnati, lui, facendo lavorar gli altri?

- No, in apparenza. Ma egli poté, come avvocato, farsi una fortuna in grazia dell’esistenza d’una classe privilegiata, che era in grado di pagarlo in misura sproporzionata all’utilità sociale del suo lavoro, appunto perché s’è arricchita ingiustamente essa medesima. Sicché, in fondo, è la stessa cosa. Rimonta alla sorgente di qualunque fortuna, ci troverai sempre un’ingiustizia.

La signora scrollò il capo, in atto di negazione, e disse che non sapeva rispondere, che non sapeva dimostrare l’errore essenziale del ragionamento, ma che non era persuasa, che "sentiva" che c’era un errore. E concluse: - Parliamo d’altro -, col suo sorriso di indulgente rassegnazione.

Era quel sorriso che indispettiva suo marito, un sorriso che arieggiava quello del suocero.

- È inutile -, disse Alberto, un po’ secco; - queste cose non le puoi capire. E non è colpa tua. Tutte le donne son così. Alla donna manca assolutamente l’amore della giustizia per se stessa. Sente pietà per la miseria, per il dolore che vede; ma non per le miserie, per i dolori lontani delle moltitudini. Non sentite che la pietà acuta. E siete caritatevoli perché la carità vi dà delle soddisfazioni; non siete giuste, perché nella giustizia v’è un disinteresse assoluto.

La signora tacque per qualche momento. Poi rispose in tuono conciliativo: - Sarà così. Non ti voglio contrariare. Tu intenderai queste cose meglio di me. Soltanto, ti prego d’una cosa. Giovedì sera, quando saremo in casa di tuo padre, per l’anniversario del suo matrimonio, e ci sarà anche il mio, non entrare con lui in questi discorsi. Tu puoi immaginare come la pensi, e io lo so, perché l’intesi avantieri: siete, come si dice, ai due poli opposti. Sai com’è lui, così assoluto nelle sue idee, così... ombroso. La conversazione cadrà certamente sul 1° Maggio. Promettimi di non dir nulla.

La raccomandazione sortì un effetto opposto al suo scopo. Da un pezzo gli dava noia quel suocero, il Commendatore, senz’altro, come lo chiamavano, messo sempre innanzi da sua moglie e dai suoi come l’autorità suprema dei due casati, il principe intellettuale della parentela, il nume che non bisognava né offendere né irritare. Egli rispose con finta pacatezza: - O perché mai? ... delle opinioni che esprimerei in pubblico non dovrei osar di esprimerle in presenza di tuo padre? Che a lui non paiano giuste, non è una ragione perché io debba mentire. Delle verità sgradevoli se ne senton dire anche i re; ne può sentire egli pure, non può mica pretendere ch’io faccia violenza alla mia ragione, alla mia coscienza, e al mio cuore...

- Ma non è questo ch’io intendo di dire! Ma ragiona un po’... non t’alterare.

Non t’alterare: era una delle sue frasi abituali, che lo irritava.

- Nessuno - riprese la signora - pretende che tu parli diverso da quel che pensi. Io ti prego soltanto di evitare il discorso per evitare dei guai.

- Dei guai? ... Il peggior guaio che mi possa accadere è che egli mi dia torto.

- Ma tu sai come s’irrita e quanto gli dura l’irritazione. Questo solo dovresti evitare, per prudenza. Si debbono dei riguardi a un uomo come lui.

- Eh cospetto! - esclamò Alberto, alzandosi - se ne debbono a me pure. E ti dico schiettamente, poiché è un pezzo che l’ho in cuore, che quella specie di magistratura intellettuale ch’egli vuole esercitare sopra di me, mi secca e mi offende, e che non glie ne riconosco il diritto né per la cultura né per l’ingegno.

La signora impallidì leggermente, s’alzò, e pigliando fra le sue una mano del ragazzo, che guardava l’uno e l’altro, maravigliato di quella disputa insolita, disse a bassa voce: - Non mi hai parlato mai così di mio padre. M’hai fatto una ferita al cuore.

- Cara Giulia -, rispose Alberto, raddolcendosi a un tratto -, ne ho una anch’io che è sempre aperta.

Essa capì, e disse col pianto nella gola: - È una tua immaginazione. Sei tu che non gli hai mai voluto bene.

- Non se l’è mai fatto volere.

- Ah questo non è vero! - ribatté la signora e voleva dir altro; ma non poté, e mentre il ragazzo usciva quieto quieto dalla sala, ella s’andò a sedere sul terrazzino, rivolta verso la piazza, con le braccia incrociate sul petto, in atto di protesta.

Alberto si mise a sedere sul sofà, dal lato opposto della sala, col cuore un po’ stretto. Altre volte avevan disputato per piccole gelosie di lei, o per giudizi discordi intorno a persone di comune conoscenza; ma la discussione non s’era mai inasprita: sua moglie aveva sempre ceduto tutt’a un tratto, con un buon sorriso, mostrandosi sinceramente persuasa d’aver torto. Era la prima volta che la trovava resistente, e col presentimento confuso d’una resistenza durevole. No, essa non l’avrebbe mai seguito sulla via delle sue nuove idee; il suo carattere, la sua educazione vi si opponevano. Era buona e gentile d’animo; ma v’era nella sua bontà una certa mollezza, qualche cosa di rattrappito e di inerte, che le impediva d’uscire dal cerchio egoistico della famiglia, di estrinsecarsi in qualsiasi sacrifizio che non avesse per oggetto quelle poche persone la cui felicità faceva parte della sua. L’educazione tradizionale che si dava alle ragazze della sua condizione aveva fatto di lei quello che essa fa di quasi tutte: un’anima divisa in tanti piccoli scompartimenti, nei quali si trovava un po’ di religione, un po’ di pietà, un po’ di letteratura, un po’ di gentilezza mondana e un po’ d’alterigia di classe, tutto dosato in quella certa misura e messo a posto con garbo, perché fosse tutto in buon ordine e bello a vedersi; ma nessun sentimento abbastanza forte, nessuna idea abbastanza larga e profonda, da poterne uscire un ordine di idee e una passione come quelle che avevan preso dominio nella sua mente e nel suo cuore. E forse non li poteva comprendere nemmeno. Che peccato! Perché egli l’amava.

Una mossa che sua moglie fece in quel punto, appoggiando una guancia sopra una mano, gli ricordò l’atteggiamento che soleva prendere, per fargli il broncio, quando egli di tredici anni essa di dodici, s’eran conosciuti la prima volta, trovandosi le loro famiglie a villeggiare accanto, nei dintorni d’Avigliana. Avevano cominciato allora a volersi bene, rincorrendosi nei giardini, con un riso che non era più fanciullesco. Con quell’atteggiamento essa gli ricordava i primi turbamenti dei sensi, le prime mestizie, l’ebbrezza violenta e maravigliosa del primo bacio. Poi non s’eran più ritrovati insieme per anni; ma per anni ella era stata il suo desiderio, l’alimento quasi continuo della sua immaginazione; egli aveva sempre portato con sé il profumo dei suoi capelli e delle sue braccia nude di bambina; e quando il caso, riavvicinando i loro parenti a Torino, li aveva rimessi l’uno in faccia all’altro già poco più che ventenni, lei nel fiore della bellezza, lui raggiante della sua prima gloria di scrittore, egli era stato preso da una passione così ardente, da sgomentare quelli che l’amavano, ed essa da un amore meno impetuoso, come voleva l’indole sua, ma così risoluto e tenace, che suo padre e sua madre avevan dovuto rinunciare a combatterlo. Il padre, ricco, avrebbe voluto un genero pari suo, e di natura più affine alla propria, e di professione più conforme alle sue simpatie: anzi, n’aveva già uno in cuore, ignorato da lei, e che s’era già dichiarato: il figliuolo del dottor Geri, suo vecchio amico; ma egli pure, oltre che vinto dalla volontà immutabile della figliuola, s’era lasciato un po’ abbagliare, lì per lì, da quel bel giovane biondo, già quasi celebre, che pareva amato da tutti, e a cui egli pensava che la gloria letteraria avrebbe aperto un giorno altre vie; e aveva acconsentito così al matrimonio, se non di gran cuore, di buon garbo. Ma Alberto aveva sentito fin d’allora fra sé e il suocero un’antipatia di temperamento, e poiché, parendogli lo sposo ancor molto giovane, quegli aveva espresso il desiderio che la coppia prendesse casa vicino a lui o al padre Bianchini, egli era venuto a stare vicino a suo padre, per non aversi a trovar sovente con l’altro, e per sottrarre a l’influsso di lui la sua sposa, nella quale già pur troppo, benché l’adorasse, riconosceva una vaga impronta paterna.

In quel momento appunto, essendosi sua moglie voltata di fianco, egli osservò la rassomiglianza che essa aveva col padre nella parte superiore del capo: la natura, per fortuna, ravvedutasi in tempo, s’era arrestata alla radice nel naso. Ma essa riportava suo padre in altre piccole cose, in certi movimenti del collo, nel modo di pronunziare certe parole, e sopra tutto in quel sorriso leggerissimo, con cui accoglieva ogni suo motto o giudizio che stimasse strano o contrario al buon senso o ai gusti dominanti nella classe signorile: sorriso diverso affatto da ogni altro suo solito, e che gli pareva il riflesso dell’anima del suocero, compenetratasi un momento con la sua. Ma non c’era di più, e ne ringraziava il cielo, poiché la sua antipatia per quell’uomo era andata crescendo cogli anni, a poco a poco, come un malessere sordo. Egli aveva scoperto in lui un sovrano disprezzo per ogni dote o forma d’attività dello spirito che non portasse l’uomo in alto sulla scala della gerarchia ufficiale, a un grado, a un titolo, all’esercizio d’una qualsiasi autorità riconosciuta, e sotto a quel disprezzo, un’avversione profonda per lo scrittore e per il poeta, come per un nemico istintivo dell’ordine sociale, per un avvocato nato della mala gente. Non doveva aver mai letto un libro di letteratura. Egli l’osservava alle volte, quando ne apriva uno per caso nel suo studio, e ne scorreva qualche rigo; gli vedeva errare sulla faccia un barlume di sorriso compassionevole, qualunque fosse l’autore ed il passo, come a chi legga delle puerilità, delle stramberie, delle gherminelle da burloni oziosi, delle quali gli sfugga il significato; e gli faceva rabbia il gesto col quale, abitualmente, richiudeva il libro d’un colpo e lo buttava sul tavolino. E come s’era mutato con lui, benché si sforzasse di nasconderlo, dopo che, tradito dall’ingegno e dalla fortuna, egli era rimasto un semplice professore di liceo, con le ali della gloria spennate! Egli capiva bene che lo considerava come un fallito, e che il suo disprezzo per le lettere doveva esser cresciuto a più doppi da poi che gli avevano dato quel disinganno in famiglia. Nessuna simpatia comune v’era tra lui e il suocero, né di idee, né di persone o di cose; mai non usciva da quella bocca una frase che esprimesse un sentimento suo; tutte le mosse di quell’uomo, tutti gli sguardi dei suoi occhi sporgenti, d’un luccicore di cristallo, il riso grasso e forzato, persino il suo modo di camminare maestoso e pesante, come s’egli sradicasse i piedi da terra per trapiantarli più avanti, fino ai suoi minimi atteggiamenti, che Alberto osservava senza farsi scorgere, per forza d’antipatia attrattiva, eran tutti l’espressione muta di pensieri indeterminati che s’urtavano coi pensieri segreti di lui. In dodici anni non gli era ancor riuscito di dargli del tu. E sarebbe stato un sacrifizio superiore alle sue forze l’andare qualche volta a casa sua, se non fosse stata la suocera, la signora Paola, una buona signora all’antica, tutta casa e chiesa, semplice e dolce, piena d’umile ammirazione per il marito, ma che voleva bene a lui come a un figliolo.

Come mai era uscita da un tal uomo la donna che egli doveva amare? Eppure, ripensandoci in quei momenti, egli ritrovava qualche altra rassomiglianza, pur troppo, tra il padre e la figliuola: una mancanza d’ideali, un’ombra di scetticismo, una punta, benché appena sensibile in lei, e solo a quando a quando, e in certe cose soltanto, di gretteria. E in essa pure pareva che dormisse il sentimento dell’amicizia. Fuor di casa non aveva mai avuto che un affetto, a cui era legata una storia dolorosa. E mentre essa continuava a tenere il broncio, seduta sul terrazzino, Alberto, quasi per riabbellirsi nell’animo l’immagine sua, riandò col pensiero a quella storia, che le aveva inteso raccontar tante volte, e ogni volta con nuovi particolari, e sempre con viva commozione. Il fatto risaliva a sei anni avanti che si sposassero, quando essa era in villeggiatura vicino a un paesetto dell’alta valle del Po, dove, l’anno prima, aveva preso una grande simpatia per la maestra comunale, che veniva a darle qualche lezione di botanica: una ragazza bella e colta, certa Angiola Lariani, di pochi più anni di lei (allora quindicenne), rimasta orfana da bambina, d’indole austera insieme e dolcissima. Essa era tornata quell’anno alla villa con grande desiderio di riveder la sua amica. Ma, nel corso di quell’anno, questa era stata oggetto d’una ferocissima persecuzione da parte d’un signorotto campagnuolo, assessore comunale e tirannucolo dei dintorni; il quale, offeso a sangue dalle sue ripulse sdegnose e dalla manifestazione pubblica del suo disprezzo, l’aveva calunniata, diffamata, torturata, fatta sospender dalla scuola e dallo stipendio, e ridotta alla miseria e alla disperazione, suscitando contro di lei le ire di tutto il paese. Tornata là la signorina, mentre la quistione stava nelle mani delle autorità di Torino, e ignorando nei primi giorni, del pari che la sua famiglia, ogni cosa, la maestra aveva ripreso le sue lezioni senza far parola dei propri casi, stringendosi a lei con un affetto sviscerato, che essa le ricambiava con tutta l’anima, ma impensierita e turbata dalla sua profonda tristezza; della quale non le riusciva di farsi dire né d’indovinar la cagione. La cagione era che in quei giorni appunto le autorità avevan mandato un ispettore a fare un’inchiesta, che bottegai, contadini e ragazzi, comprati e intimiditi, avevan mentito infamemente, che l’ispettore era stato ingannato o corrotto, che la calunnia aveva vinto, che la maestra era stata condannata e la sua espulsione promessa, e che mentre questo accadeva, ella si trovava ridotta alle privazioni estreme, e che la pallidezza mortale che la sua alunna cercava di colorire, scherzando, col suo bacio affettuoso, era la fame. La signorina non aveva sospetto di nulla. Ma un giorno quella era mancata alla lezione: suo padre, informato d’ogni cosa, l’aveva licenziata bruscamente. Inquieta di non vederla, essa s’era decisa a andar di nascosto con la giardiniera a cercarla nel paese vicino. Ma fatti pochi passi per una viottola, avevano udito un rantolo disperato, che veniva di dietro una siepe. Era lei che s’era buttata in una gora immonda, carponi, lei già immersa col capo e col busto nell’acqua che si contorceva orribilmente, delirante e frenetica, cercando la morte nel fango. Strappata di là con forza, ché s’ostinava a voler morire, già enfiata d’acqua, col viso infangato, convulsa, sformata, quasi moribonda, gridando aiuto, accorsa gente, l’avevan presa a braccia per trasportarla, e mentre la prendevano, le eran caduti da una tasca del vestito fradicio alcuni soldi e una crosta di pan nero. Appena vistala salva, la signorina era svenuta, e portata a casa, s’era ammalata. Finita la malattia, non grave, ma lunga, le avevan detto tutto, e che, divulgata la notizia del fatto dalla stampa, era seguito nel paese un rivolgimento degli animi, stata compiuta una nuova inchiesta, la ragazza riconosciuta innocente, chiamata a Torino, rifatta dei danni, e mandata maestra dove aveva chiesto, in un villaggio del Lodigiano. Di là essa le aveva scritto, dopo qualche tempo, una lunghissima lettera, in un quaderno, in cui era raccontata la storia intima dei suoi casi e dei suoi dolori, ed espresso il suo infinito affetto per lei, con parole che l’avevan fatta singhiozzare per una giornata; ma dopo quella, non gli eran più pervenute altre sue lettere, benché ella le scrivesse più volte. Soltanto l’anno appresso aveva risaputo che era stata trasferita in Sicilia, dove n’aveva perso ogni traccia. Ma di quell’avvenimento era rimasta nel cuor suo una impressione incancellabile: una pietà sempre viva, una venerazione per quell’amica perduta, per la sua forza d’animo eroica e per ogni atto o detto suo di cui si ricordasse, come per una santa, e una cura amorosa di quel suo manoscritto, come d’una cosa sacra; e congiunto a questi affetti, un certo concetto tristo dell’umanità, nato dal disprezzo, dall’orrore che le dava la memoria di tutta quella gente, uomini e donne, poveri e signori, bugiardi e vigliacchi, che avevano vituperata e martoriata quella povera creatura... Sì, da questa fonte, pensava suo marito in quel momento, doveva esser derivata quella sua freddezza che le amiche le rimproveravano, quella mancanza d’affetto umano che spiaceva a lui. E questo solo, in fondo, le mancava! Non occorreva che un’idea, che un sentimento di più per dar vita, piena e fiammante a quella bella persona, ch’egli amava ancora come nei primi giorni ch’era sua.

E fissandosi in questo pensiero, la guardò. S’era messa in piedi sul terrazzino, e spiccava con tutto il busto, stretto in un semplice vestito lilla, sul verde vivo delle acacie della piazza. Essa serbava inalterate ancora le sue forme di ragazza, d’una snellezza e d’una eleganza che attiravan gli sguardi per la via; rispondeva appunto a quell’ideale di donna alta di statura e di contorni virginei, che egli aveva vagheggiato fin dai suoi sogni di giovinetto, e aveva in ogni atto e in ogni posa una mollezza e una grazia, che l’occhio d’Alberto studiava ancora, qualche volta, come per scoprire il segreto della sua forza di seduzione. Nel suo viso bianco, coronato di folti capelli castagni ondulati, gli occhi azzurri e i denti bianchissimi erano come due splendori, che non lasciavan vedere l’imperfezione dei lineamenti, e la rendeva più bella un’aria abituale di canzonatura infantile e benevola, sotto alla quale traspariva la sensitività squisita, per cui mutava viso sotto una carezza, con un’espressione di languore incantevole. Con questa forza teneva ancora potentemente suo marito, e lo sapeva, e non sorgeva un dispetto in lui o un malumore, che essa non riuscisse a vincere, non con impeti violenti di passione, ma solo con la infinita dolcezza che metteva nel suo abbandono. Egli le sentiva ancora nei capelli la freschezza odorosa della fanciullezza, e sulle labbra il sapore dei primi baci, mentre il suo braccio non s’accorgeva quasi di non stringer più la vita d’una bambina, e gli pareva insensato, impossibile in quei momenti che avesse mai a sorgere fra di loro, lungo il giorno, un’ombra di discordia. E questo pensiero gli rese in quel punto più doloroso il dissenso di poc’anzi. E appoggiato il capo alla spalliera del sofà, chiudendo gli occhi, pensò qual nuovo e potente legame avrebbe stretto fra loro la comunione di quella grande idea, come avrebbe rifuso tutti i loro pensieri e tutto il loro sangue, acceso un secondo amore, aperta una seconda vita, suggellate l’una all’altra le loro bocche più tenacemente, col fremito d’una rinnovata e più ardente giovinezza. E ciò pensando, con gli occhi chiusi, mise un sospiro di rammarico, che si sentì troncare da un bacio.

- Facciamo la pace - gli disse carezzevolmente sua moglie, chinata su di lui, posandogli le mani sulle spalle - E sentendo nel bacio di lui che la pace era fatta, soggiunse con dolcezza: - Ma io faccio la pace e ti perdono ad un patto: promettimi almeno che giovedì sera non entrerai in quel discorso per il primo, e che se ci sarai tirato dal papà, esprimerai le tue idee con moderazione... e con rispetto.

Egli sentiva il suo alito sulla fronte: promise, e le cinse la vita col braccio.

Ma quella, lanciato uno sguardo per la finestra alla piazza, gli sguizzò di mano, dicendo: - C’è la signora Luzzi che guarda col cannocchiale.

Alberto guardò e vide infatti a una finestra della casa di faccia, dall’altro lato della piazza, la signora Luzzi che teneva il binocolo appuntato verso di loro.

- Che impertinente! - disse.

- Non lo dire -, rispose la moglie ridendo -; nella signora Luzzi, vedi, c’è la stoffa d’una socialista.

Egli prese quello per uno scherzo, e ne rise anche lui, mentre il ragazzo, rientrando e vedendoli riconciliati, faceva un atto d’allegrezza e correva ad abbracciare suo padre.