Primo maggio/Parte prima/IX
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La sera del sei di maggio la casa del cavalier Bianchini sfolgorava. Ma, come accade spesso nelle famiglie, il ricevimento fu preceduto da una burrasca. La signora aveva fatto un colpo di testa. Informata dal maritò delle nuove idee del figliuolo, dopo avergli promesso di serbare il segreto, aveva creduto atto di alta saggezza l’andar di nascosto ad avvertire il suocero "Commendatore" affinché venisse preparato al trattenimento e, giovandosi dell’uditorio che avrebbe fatto eco alla sua voce e rincalzato la sua autorità, riconducesse il giovane alla ragione; e quella sera stessa, a desinare, aveva annunziato al cavalier Bianchini il suo tradimento con una così baldanzosa sicurezza d’aver fatto bene, ch’egli n’era andato fuori dei gangheri. Quando il buon Moretti, arrivato il primo, entrò nel salotto col suo viso rosato e ilare di vecchio ottimista, vide ancora il suo amico con una faccia fremente, su cui si confondevano le vampe del Barolo e quelle della collera, e la signora con l’aria altera e ostinata di chi ha difeso tenacemente un’idea.
Ma il Bianchini sperava ancora di scongiurare la battaglia a forza di diplomazia. E si mise subito all’opera. Tirato da parte il Moretti, gli raccomandò, con viso grave, che non facesse nella serata cadere il discorso sul "primo maggio" e sulla quistione sociale perché, su quell’argomento, sarebbe potuto seguire un urto tra il suocero e il suo figliuolo, che la pensavano diversamente. - E perché mai? - domandò il Moretti con maraviglia - La discussione fa la luce: proverebbero a intendersi. - Ah! È impossibile! - rispose il Bianchini, e insisté, fin che quegli promise.
Entrarono quasi a un tempo Alberto e sua moglie, col piccolo Giulio, e il vecchio dottor Geri insieme col figliuolo e col nipote: un ragazzo di sedici anni, ch’era scolaro d’Alberto. Questi formavano una triade curiosa: somigliantissimi l’uno all’altro nonostante le grandi differenze d’età: si vedeva che il ragazzo sarebbe stato fra vent’anni il ritratto miniato del padre, e dopo altri venti quello del nonno: erano una dinastia secca e fegatosa; tutti e tre lunghi e un po’ curvi, tutti e tre sorridenti ad un modo, con la contrazione facciale di chi si spazzola i denti. Il vecchio aveva un viso scialbo e sbarbato, che pareva livido per effetto della parrucca nera e degli occhiali affumicati; di sotto ai quali sporgeva un gran naso, incurvato a becco sopra una bocca torta e inquieta, che rivelava i sentimenti non manifestati dagli occhi sempre bassi e vaganti, come se cercassero qualche cosa per terra. Tutti e tre risposero con lo stesso sorriso acre alla cortesia festosa con cui furono accolti; cortesia che il vecchio Geri, come padron di casa, scroccava; essendo tirato a tal segno, che da anni il cavalier Bianchini ordinava e pagava di proprio ogni minima riparazione, per non spender con lui parole inutili. La sua avarizia era proverbiale anche fuori di casa sua. Non affrancava mai una lettera, non dava mai una mancia, e d’estate, per le strade di Torino, quando arrabbiava dalla sete, prendeva una limonata da mezzo soldo dagli acquaioli delle cantonate. E non solo non faceva mai una elemosina, ma la vista d’un mendicante lo esasperava al punto che, se avesse osato, l’avrebbe battuto. Aveva esercitato in altri tempi la medicina, e poi smesso, perché gli era sfuggita tutta la clientela, a causa della sua indiscrezione. Da anni tutte le gioie della sua vita si riducevano a quella d’esser padrone di casa. Per lui un padrone di casa era un cittadino insigne e benemerito, una colonna dello stato, che aveva diritto al più ossequioso rispetto delle autorità e ai più delicati riguardi della cittadinanza. Scriveva ogni settimana una letterina a qualche gazzetta, firmata con le iniziali, per lagnarsi dei canti notturni, dello strepito dei carri, delle trombe dei soldati, dello schiamazzo degli scolari, d’ogni cosa che potesse turbar la quiete del suo "stabile". E ripeteva come un intercalare, interpretandola a modo suo, la sentenza del Goethe, che non è un uomo degno davvero di questo nome chi non ha fatto un figliolo, o piantato un albero, o fabbricato una casa. L’umanità, per lui, si divideva in padroni di casa e pigionali, e questi eran d’una razza inferiore.
Appena i tre Geri furon seduti, il cavalier Bianchini fece loro a bassa voce la stessa raccomandazione che al Moretti. - Capiranno... c’è dissenso d’idee... se si potesse evitare... Il vecchio fece le maraviglie. Il figliuolo sorrise, cercando con gli occhi la signora Giulia, soddisfatto di scoprire un lato odioso e ridicolo nel giovine professore che, per opposizione di natura, gli era sempre stato antipatico. E stava per fare una domanda, quando entrarono il Cambiasi e sua moglie.
Entrò con loro come un soffio di salute e di buonumore. Quella bella bruna rotonda, semplice e allegra, e quel pezzo d’uomo dal viso aperto, su cui s’univan la bontà, l’intelligenza e l’astuzia, tutti e due pieni di vita e di parlantina, erano l’immagine della loro casa: una casa di onesti chiassoni, affollata di figliuoli d’ogni sesso e statura, dove si recitava, si ballava, si correva in bicicletta per le camere, si andava a letto al tocco di notte e si mangiava a tutte le ore, senza che alcuna contrarietà o piccola disgrazia scolastica o domestica interrompesse mai il corso delle visite, dei pranzi, delle scampagnate, in cui si profondeva ogni anno quanto c’entrava. E in mezzo a quella babilonia il Cambiasi lavorava di forza e con fortuna, smarrendo e ritrovando conti e disegni fra i balocchi e i giornali di mode, suonando il piano nei ritagli di tempo, schiassando con la prole, leggendo un po’ di tutto da letto e corteggiando per spasso le amiche di sua moglie, la cui ridente spensieratezza e ingenua ignoranza di buona e bella baliona gli rallegravano la vita.
Scambiati i saluti, il cavalier Bianchini condusse in un canto il Cambiasi, e gli fece la raccomandazione. Quegli sorrise da prima; poi si mise sul serio, per cortesia. Certo, il genero e il suocero eran due teste da non dover lasciare che cozzassero in una quistione di quella natura. E gli domandò se Alberto fosse sempre fermo nelle sue idee. Il Bianchini gli rispose di sì, risolutamente, e soggiunse piano: - E ha ragione! Io son con lui! Sono anch’io per la verità e per la giustizia! - Il Cambiasi lo fissò, sospettando che fosse brillo. Ma il Bianchini gli voltò le spalle per andare incontro al signor Luzzi e alla sua signora, che entrò con uno slancio di ballerina.
Il Luzzi e sua moglie formavano la coppia più bizzarra della compagnia. Lui era vice direttore d’una società d’assicurazioni, una figura mingherlina di scolaretto infrollito, mezzo calvo, con due occhietti di topo, due minuscoli baffetti neri, che parevan dipinti sulla pelle con del sughero bruciato; un viso su cui mostrava un’astuzia che non aveva, dandosi l’aria di pensare, di sapere, di capire molto di più che in realtà non facesse. Non si poteva indovinare quanti anni avesse di là dai quaranta. Passava per un’autorità nella sua professione poiché dedicava tutto il suo tempo a escogitare progetti di riforme amministrative della società, studiando gli ordinamenti di tutte le società assicuratrici dell’universo; progetti che eran presi sempre in grande considerazione, e non attuati mai. Si diceva che avesse una fortuna; ma egli lo negava risolutamente, con un sorriso sfuggevole. E parlava pochissimo; ma, fingendosi raccolto nei suoi pensieri, non perdeva una parola di nessuno. Nessuno capiva come si fossero appaiati lui e sua moglie, ch’era una brunetta ardita di trent’anni con due occhi che bruciavano, con un neo graziosissimo sulla guancia sinistra, con un corpicino di ragazzetta precoce, somigliante a quelle elastiche donnine giapponesi, che s’appallottolano e s’acchiocciolano così bene sulle stuoie delle sale e sulle ginocchia del marito, e vestita sempre con un’eleganza e un gusto perfettamente conformi alla sua bellezza minuta e irrequieta, tutta guizzi e scatti e capricci che mettevan voglia d’afferrarla. E con questo mostrava una serietà così intelligente, quando voleva, che un uomo di stato le avrebbe parlato di politica come a un provetto giornalista. Da due soli mesi suo marito era stato trasferito da Venezia a Torino, dove la signora Giulia aveva riconosciuto in lei un’antica compagna di collegio, perduta di vista da più di vent’anni; ma ricordata sempre fra altre cento come lo spirito più turbolento e più ribelle della scolaresca.
Colto un momento opportuno, il cavalier Bianchini fece la raccomandazione al signor Luzzi, nell’orecchio. Costui senza guardarlo, strizzò un occhio. Poi gli domandò in tuono di compatimento: - E anche lei, cavaliere, è uno di quelli che credono che esista una quistione sociale?
Il Bianchini rispose gravemente: - Esiste.
E l’altro: - È un’allucinazione della borghesia - Nondimeno promise di tacere.
Dopo questo, andato a raccomandar un’ultima volta la prudenza al suo Alberto, che lo rassicurò, il cavalier Bianchini si soffermò in mezzo al salotto e girò uno sguardo soddisfatto sulla bella compagnia; fra la quale durava ancora il baratto dei saluti e dei complimenti con quella strascicata e verbosa cortesia borghese, che è la contraffazione della gentilezza aristocratica. Si vedeva, però, e si sentiva che mancava ancora qualcuno, l’invitato più cospicuo, un personaggio tenuto da tutti, per coscienza o per compiacenza, in gran conto, e da tutti designato con lo stesso titolo: - Il Commendatore - Verrà il Commendatore? - Non c’è ancora il Commendatore? Quando avremo il Commendatore?
La cameriera annunziò ad alta voce: - Il signor Commendatore.
Entrò per la prima la signora Paola, una nanetta vestita di scuro, con la sua aria timida e dolce di buona divota, e la sua inseparabile croce d’oro appesa al collo, e poi la faccia larga del Commendatore, coi baffi alla Bismarck e i capelli grigi ravviati ad arco sulle tempie: un gran vecchio solido e pulito, che poteva riuscir simpatico a chi non notasse l’espressione di durezza che aveva sulla bocca un po’ ricascante dai lati, e una luce indecifrabile che gli brillava a fior d’occhi, non derivata di dentro, simile al riflesso della palline di vetro. Si vedeva che era venuto di mala voglia, per puro dovere di parente.
Alberto, che non lo vedeva da più giorni, andò tra i primi a porgergli la mano, che quegli strinse col suo fare solito, come un direttore generale a un giovine impiegato.
Quando tutti l’ebbero riverito, egli rimase in un canto coi due Geri, gli altri sedettero un po’ da tutte le parti, e incominciò un vivo cicalìo, il solito scambio di domande che non chieggon risposta, di risposte non udite da chi le ha chieste, di racconti cominciati e non finiti, attraversati e rotti da altri discorsi smozzati, da risatine di signore, da esclamazioni di finto stupore e di finto piacere, da quel palleggio di riempitivi, di ripetizioni, di tritumi di frasi e di pensieri, che si fa in tutte le riunioni, prima che siano avviate le conversazioni particolari. E questo cicalìo continuò fin che i padroni di casa invitarono gli ospiti a passare nella sala da pranzo, dove ogni anno, in quella sera, era preparata loro un’improvvisata, che s’aspettavano. Era, sotto una illuminazione da altar maggiore, una mostra appetitosa, in cui fra i mazzi di fiori e le torricelle di confetti, s’alzavan le punte variopinte dei gelati, i colli scintillanti delle bottiglie, le piramidi odorose dei mandarini, sparsi con arte su varie tavole, in mezzo a uno sfoggio di maioliche, d’argenteria e di cristalli, che, al primo entrar nella sala, faceva passare un lampo d’alterezza negli occhi ai due coniugi, concordi in quell’unico sentimento.
Qui la società si divise in gruppi, secondo le affinità elettive: sul sofà più grande, addossato a una parete, le signore giovani e la ragazza; sopra un sofà d’angolo, la padrona di casa e la signora Paola, col Moretti, fido cavaliere delle vecchie signore; dalla parte opposta il Commendatore coi suoi due Geri; gli altri uomini, ritti accanto alla gran tavola del mezzo; e i due ragazzi sul terrazzino. Era una bella serata; dagli alberi della piazza veniva una buona fragranza di fogliame fresco, e le facciate delle case attorno, imbiancate dalla luce elettrica, facevano alle finestre aperte uno sfondo teatrale, che accresceva la gaiezza della sala.
I vassoi erano già a mezzo sparecchiati e le conversazioni parziali avviate da un pezzo, e nessun discorso s’era ancor inteso, che accennasse a quello pericoloso: il cavalier Bianchini si cominciava a rassicurare. E ne aveva una viva soddisfazione d’amor proprio, perché, in fine, era lui, lui Antonio Bianchini, che con la sua saggia politica, con la eloquenza delle sue raccomandazioni, gravi di profondi significati, aveva ottenuto il grande scopo. Gli restava un vago timore, che il Commendatore assalisse, anche non provocato; ma dal viso non gli pareva, e udendo che ragionava della gran quistione della fognatura di Torino, che era una delle sue intestature, scacciò anche quel timore, e se n’andò, tutto sereno, a dir delle barzellette alla signora Cambiasi.
Alberto, dal canto suo, risoluto di mantener la promessa fatta alla moglie, di non attaccare il lucignolo per il primo, non era neanche scontento d’esser lasciato in pace. E discorrendo d’affari di scuola, in mezzo alla sala, col Cambiasi e col Luzzi, osservava tratto tratto la moglie di questo, che gli destava ancora la curiosità d’una persona nuova, non avendo, nei due mesi da che la conosceva, scambiato con lei che qualche parola.
Ma, a un certo punto, continuando il suo discorso, egli colse a volo una frase del suocero che discorreva coi Geri:
- Chiunque fa sperare un miglioramento alle classi povere per altra via che quella della moralità e dell’educazione, le inganna.
Alberto s’interruppe, e disse piano al Cambiasi e al Luzzi: - È il solito giro vizioso. L’educazione non è possibile senza un certo grado di prosperità materiale; non c’è moralità che resista alla prova prolungata del bisogno... È un voler curare un malato con una medicina che non può inghiottire.
- Certo -, disse il vecchio Geri, rispondendo al Commendatore -, la moralità è nel lavoro.
Alberto scrollò una spalla e mormorò: - Nel lavoro umano, non nel lavoro che abbrutisce.
Il suocero riprese: - È provato, d’altra parte, che c’è dieci volte più poveri per vizio o per indolenza che per sfortuna. Le statistiche son là. E quel tanto di povertà che deriva dalla sfortuna non è in potere degli uomini di toglierlo appunto perché non è causato da loro. È una verità antica come il mondo.
- E così il problema è risolto -, disse Alberto un po’ più forte.
A quelle parole, il cavalier Bianchini s’avvicinò, col viso del contadino che vede una minaccia di gragnuola all’orizzonte.
Il Commendatore, che aveva sentito, si rivolse direttamente al giovane, e gli disse con accento autorevole: - Non è risolto perché non è risolvibile, caro il mio professore. Nessuna riforma potrà mai far sì che la maggioranza degli uomini non sia condannata a un lavoro duro e poco pagato. La povertà del maggior numero è un male costituzionale, cronico, della società; è l’effetto d’una legge sociale a cui è assurdo di ribellarsi.
A quelle parole, dette con la sicurezza di non aver ribattuta, tutti tacquero, fiutando una battaglia.
- Non è effetto d’una legge - rispose Alberto; ? ma di leggi.
- E sia pure, di leggi! Ma di leggi naturali del mondo economico, altrettanto fisse e immutabili quanto quelle del mondo fisico.
- Fisse?... - domandò Alberto, correggendo con l’accento rispettoso l’irriverenza della forma interrogativa -, immutabili?... Perché? Senza dubbio, sono fondate su fatti; ma questi fatti son forse necessità, sono tali da potersene dedurre dei principi assoluti? I fatti mutano; possono dunque mutar le leggi che vi si fondano.
Il Commendatore sorrise.
- Sogni! - disse poi - Non muta, non muterà mai il fatto principale, che la vita dell’uomo è una guerra permanente contro tutto e contro tutti, che la fortuna è dei vincitori, e che tutti non possono vincere. La sola cosa a farsi è di mantener libera, com’è ora, la concorrenza, che è l’anima d’ogni progresso. Non negherai questo, voglio sperare.
- Mi scusi -, rispose Alberto -, lo nego.
Il Commendatore dilatò gli occhi.
- Non c’è libertà di concorrenza -, proseguì il giovane - dove le forze sociali non sono a disposizione che d’un piccolo numero; e non ci può essere fin che non siano parificate fra tutti i membri della società le condizioni iniziali della lotta.
- Le fa forse pari la natura?
- No; ma non si tratta di sopprimere gli effetti delle diseguaglianze che fa la natura, si tratta di sopprimere le diseguaglianze esistenti fin dalla nascita fra quegli uomini che la natura ha fatto uguali.
- Queste son legate a quelle, e se anche si potessero sopprimere, rinascerebbero necessariamente.
- No, quando non fosse possibile altra proprietà che quella che è frutto del lavoro personale.
- Alla buon’ora! - esclamò il suocero, con una risata, alzandosi da sedere. - La soppressione dell’eredità! A questo sei già arrivato? Accetta le mie sincere congratulazioni.
Prima che il figliuolo avesse tempo a rispondere, il cavalier Bianchini si mise in mezzo, e con un sorriso che tradiva l’affanno, palpando il petto ad Alberto e rivolgendosi al Commendatore: - Nessuna discussione -, disse - nessuna discussione. I giorni di festa non si discute. Questa sera comando io. Se sento ancora una parola, spengo i lumi e sciolgo l’assemblea.
I due disputanti si chetarono, voltandosi ciascuno a dir le proprie ragioni al suo crocchio, mentre ripigliava il cicaleccio generale. Ma tutti e due avevano il viso mutato, e sorridevano con sforzo, un po’ ansanti. Si capiva che, tra poco, avrebbero incrociato i ferri da capo.
Il dottor Geri, intanto, la riprese subito per conto suo, parlando al Commendatore e al proprio figliuolo. Per lui non c’era altro rimedio ai mali sociali che nel porre un limite alla moltiplicazione della specie, con tutti i mezzi possibili, che egli conosceva e accettava tutti, anche i più duri e i più ributtanti. Tutte le altre proposte gli facevano pietà. Era un’idea fissa, che gli era stata trasmessa, come un tic ereditario, da suo padre medico, il quale aveva conosciuto nel 1830 il Malthus, quand’era professore d’economia a Haileybury, e s’era entusiasmato della sua persona e della sua teoria. Per lui, il Malthus era uno dei più grandi benefattori dell’umanità. E lo nominò dieci volte in trenta parole.
La signora Cambiasi, a cui tutti i nomi celebri riuscivan nuovi, stupita e contenta di conoscer quello, si voltò verso il vecchio Geri e gli disse ad alta voce: - Ah! Malthus! Quello che non vuol più bambini?
Tutti risero, perfino il Geri. Ma subito si rifece serio e ripigliò il suo discorso: - L’avvenire è per la sua dottrina. Quando il basso popolo ne sarà persuaso, e la metterà in opera, il mondo sarà mutato.
- Ah, signor dottore! - disse la signora Luzzi, - non parli di quel tristo prete, un misantropo, nemico dell’amore, un uomo brutale e repugnante.
Ma il vecchio Geri non discuteva con le signore. E continuò: - Frenare la produzione degli affamati, non c’è altro. Tutti i nostri mali derivano dall’essere in troppi a voler star bene.
Il Moretti saltò su dall’angolo opposto della sala, gridando con la sua voce di galletto: - No, signor dottore! Non c’è un uomo di troppo sulla terra! Ogni uomo è un produttore! Tre quarti della terra sono incolti per mancanza d’uomini!
Il Cambiasi disse: - In nessun paese s’è mai verificata la teoria delle due progressioni.
Il Moretti rincalzò: - Col moltiplicarsi degli uomini, si moltiplicano, e più presto, le piante e gli animali che li alimentano.
E Alberto soggiunse: - Migliorate le condizioni economiche delle classi inferiori e saranno meno prolifiche per la stessa ragione che lo son meno le altre classi.
Il dottor Geri fece un segno di compatimento a tutti e tre, e domandò in aria di dubbio ad Alberto: - Conosce lei la teoria del Malthus?
Alberto si piccò. - La conosco - rispose - e mi pare una teoria molto comoda per dimostrare che la miseria è inevitabile e salvare il nostro egoismo da ogni rimprovero della coscienza.
- Queste sono ragioni di sentimento -, ribatté il dottore - Il fatto innegabile è che per far aumentare i salari dei lavoratori non c’è che diminuire l’offerta delle braccia. Questa è matematica. Che altro mezzo propone lei?
Il Commendatore lo toccò col gomito, e gli disse con ironia: - Ma non l’ha già detto, che il mezzo è l’abolizione della proprietà?
Alberto si voltò, punto nel vivo, e rispose: - Loro dicono abolizione della proprietà come direbbero abolizione della luce, o qualche altra cosa soprannaturale e impossibile. Ma questa divina proprietà non è esistita sempre né da per tutto. Come la società l’ha istituita, la può togliere, o piuttosto, trasformare; ché infatti non si tratta d’altro. La forma della proprietà non è forse in stato di variazione continua? Tutte le forme di essa, che ora ci paiono più strane, esistettero, e ne esistono ancora degli esempi. La proprietà ha seguito le trasformazioni della produzione. Ora la produzione è diventata collettiva, la proprietà dei mezzi di produzione è rimasta individuale. Di qui tutti i mali e tutti i disordini. E questi non cesseranno che quando cesserà l’antagonismo che li produce.
- Parole sonore e vuote come i tamburi -, replicò il suocero - E tu credi che nello stato attuale della civiltà sia possibile lo svolgimento della personalità umana e l’ordine della società e il buon assetto della famiglia, senza la proprietà?
- È indispensabile la proprietà a questo fine, secondo lei?
- E chi può dubitarne?
- E allora, come mai trova giusto che i sette decimi della popolazione, che lavorano e non hanno proprietà nessuna, ne vogliano la loro parte; ciò che è im-pos-si-bile a ottenere senza far la proprietà collettiva?
Il suocero fece un atto di commiserazione, alzando gli occhi alla volta: - La proprietà collettiva! Dei del cielo! C’è ancora qualcuno che ne parla sul serio? Io credevo il collettivismo sotterrato e decomposto da un pezzo!
Alberto fece per rispondere; ma il Geri figlio, col suo sorriso sprezzante, prendendo la parola per la prima volta, lo prevenne con l’argomento solito: - Un momento... Tolta la proprietà individuale, che è quanto dire la speranza d’arricchire, dove sarà lo stimolo al lavoro?
- Scusi -, rispose Alberto, con freddezza -, la grandissima maggioranza dei lavoratori d’adesso è la speranza d’arricchire che li stimola al lavoro? E i cento mila impiegati che mandano avanti tutte le amministrazioni piccole e grandi, lavorano per arricchirsi?
Il Geri scrollò il capo - Ma al lavoro libero, a quello dei più intelligenti della nostra classe, che lavorano il doppio del dovere d’ogni onest’uomo, e unicamente per far fortuna, che stimolo rimarrebbe?
- Ma se hanno coscienza di fare un lavoro utile alla società... Ma no, questo è un tasto che non suona. Le dirò invece: crede lei che l’eccesso d’attività che quelli spiegano ora per far fortuna vada tutto a vantaggio della società? Non conta per nulla tutte le birbonate che per far fortuna si commettono? e il danno che si fa agli altri? e la vita arrabbiata che si conduce? e la corruzione che si semina?
Il Geri scambiò uno sguardo e un sorriso col Commendatore; ma prima che rispondesse, entrò di mezzo il Moretti, dicendo ad Alberto: - Un’obbiezione capitale, caro amico, capitale. Lasciamo da parte il lavoro meccanico. Che stimolo avrebbe il più difficile, il più prezioso, il più benefico dei lavori, quello degli inventori?
- Ma signor Moretti! - esclamò la signora Luzzi dal suo sofà - Non si dice anche adesso che tutti gli inventori muoiono all’ospedale?
Molti risero. Alberto guardò con curiosità la signora; poi disse: - A lei, signor Moretti, risponda - Ma mentre questi cercava la risposta, il Commendatore, irritato che al giovane rimanesse anche solo un’apparenza di vittoria, gli andò a piantare davanti la sua mole maestosa, con l’aria di volerla far finita, e fra l’attenzione di tutti, che aspettavano il colpo di grazia, gli domandò: - Dunque, tu sei per lo stato collettivista?
- Sì-, rispose Alberto.
- Sei per lo stato che sopprime l’industria e il commercio privato, che resta solo ed unico proprietario di tutto, che regola i prodotti, che tiene in bilancio tutti gl’interessi, che governa la vita e il progresso d’un popolo come il cammino d’una mandra di pecore? Dimmi questo soltanto. Dimmi se hai pensato, almeno per un quarto d’ora, all’assurdità di questo Stato prepotente e strapotente, che avrebbe bisogno, per funzionare, d’un sistema burocratico appetto al quale il nostro è un congegno da bambini, e che riprodurrebbe centuplicati tutti i difetti e gli errori di lentezza, di imprevidenza, di confusione, di spreco che già si rimproverano allo Stato attuale? Dimmi se hai pensato a questo, perch’io sappia se debbo continuare o no a ragionare.
Dando uno sguardo intorno prima di rispondere, Alberto vide sua moglie col capo basso, come già vergognata della cattiva figura ch’egli stava per fare: n’ebbe dispiacere e ne prese animo.
- Stia tranquillo - rispose - potrà continuare a ragionare. Lo stato che lei ha definito non è quello del socialismo. Loro giudicano questo da quello, come se l’uno non fosse che l’altro ingrossato, e qui è l’errore. Lasciamo pur stare che neanche ora lo Stato fa tutto male, come non fa tutto bene l’iniziativa privata; che se non fa sempre bene, non è almeno interessato a far male, come i privati son spesso, e che se bene non può fare in molte cose è perché, fuor della classe privilegiata di cui è in mano e che lo sfrutta, non trova, per questa ragione appunto, che diffidenza e ribellione. Lasciamo anche stare che, con tutta la vostra tenerezza per la libera concorrenza, voi invocate l’intervento dello Stato per sopprimerla, ogni volta che avete un interesse di classe da salvare, e che è assurdo il parlar di libera concorrenza quando ogni industria non si sviluppa che accentrandosi, ossia creando un enorme monopolio. Ma è una fiaba che il socialismo voglia uno stato onnipotente, un autoritarismo senza limiti: vuole uno stato che serva la nazione, non che governi nel senso d’ora, che sia subordinato alla società, non che la domini. E non ha da esser un organismo prefisso ed immobile, ma una forza d’organizzazione che si perfezionerà semplificandosi, ripartendo la propria azione in organi secondari, in corpi di governo locali, in un gran numero di meccanismi inferiori, i quali si formeranno per necessità, a poco a poco, sotto l’impulso del nuovo principio a cui sarà informata tutta la vita sociale.
- Fata viam invenient - disse il Cambiasi.
Il Commendatore voltò verso l’ingegnere il sorriso compassionevole che aveva preparato per il genero, e gli disse: - Signor Cambiasi, avrebbe anche lei perduto il lume dell’intelletto?
- Ma no -, rispose questi tra il faceto e il serio, con l’aria di chi gode a soffiar nelle dispute - Trovo giusta l’idea d’Alberto, che per l’organizzazione della società, come i socialisti la vogliono, si debba anche tener conto della cooperazione dei fatti. L’edifizio futuro si costrurrà come s’è costrutto il presente, che fu tirato su e accomodato a poco a poco dalle generazioni, secondo i loro bisogni, che mutavano, e secondo le norme successive dell’esperienza. Non si può giudicare fin d’ora quello che sarà per l’appunto lo Stato socialista, né pretendere che qualcuno lo dica. Si vedrà. - E soggiunse, accarezzandosi il mento: - Sapeva la borghesia francese dell’89 che governo avrebbe costruito? Voleva il potere politico per fare i suoi affari a comodo suo; ma non prevedeva nemmen la repubblica, non prevedeva nemmeno che cosa sarebbe stata la sua costituzione economica -. E non essendo guardato dal Commendatore, mise fuori due dita di lingua.
Quegli lo fissò, quand’ebbe finito, e disse dondolando il capo: - Lasciatemi dire una cosa: mi fate pietà tutti e due. - E voltò le spalle, mentre il Cambiasi si stropicciava le mani, come chi ha fatto uno scherzo ben riuscito, e il cavalier Bianchini rivolgeva un atto supplichevole al figliuolo, perché tacesse. Questi acconsentì, mordendosi le labbra. Ma il vecchio Geri tornò all’assalto.
- Mi dica un po’, signor professore! ? disse con voce dottorale - Tutte le istituzioni sociali, proprietà, famiglia, stato, religione, son legate fra di loro intimamente; non si può toccare l’una senza toccare l’altra: che cosa farà lei della religione e della famiglia?
- Sì, sentiamo -, dissero altre voci -, che cosa farà della famiglia?
E il Geri giovane, dando un’occhiata alla signora Giulia, soggiunse: - Avrebbe in proposito le idee di Maria Zara?
Quasi tutti risero. - Che orrore! - esclamò la signora Giulia. La vecchia Bianchini fece un atto di ribrezzo. Non avevan mai letto nulla di lei; ma sapevano chi era, una specie di petroliera, un’apostolessa e praticante dell’amor libero, la ganza di tutto il partito, una donna da non nominarsi fra gente per bene. La sua reputazione era così orribile che Alberto non s’attentò neppure a difenderla.
- Che cosa farà lei della famiglia? - domandò di nuovo il dottor Geri.
Alberto non aveva ancora delle idee ferme su quell’argomento, che era il più pericoloso di tutti; ma capì che non poteva cader su quello, senza lasciare il sopravvento agli avversari anche negli altri. - Non creda di sgomentarmi con questa domanda -, rispose, ostentando sicurezza d’animo - Neanche la famiglia non è una istituzione immutabile: si modifica e progredisce col progredire della società, col mutarsi della condizione sociale della donna. Questa è molto mutata dal passato e muterà ancora. Come la famiglia d’oggi non è più quella del medio evo, così essa assumerà necessariamente un’altra forma quando la donna sarà affrancata dalla servitù economica e avrà tutti i diritti dell’uomo.
S’alzò un grido di protesta.
- Le idee di Maria Zara! - esclamò il Geri figlio.
- E di Luisa Michel! - gridò il suocero - ora fammi l’apologia degli orrori della Comune!
- Eh, lasciamo stare gli orrori! - rispose Alberto, cominciando a irritarsi - In servigio di tutte le cause si commisero degli orrori; la religione ebbe i roghi e la tortura, e la difesa della proprietà male acquistata fu sempre più feroce che gli assalti della fame!
- Ma se lo dicevo -, gridò il Commendatore - che avresti anche difeso i fucilatori dei prigionieri!
- Non è vero! Io non difendo né chi ammazza i prigionieri in nome della rivoluzione, né chi li macella in nome dell’ordine!
- E non fa differenza fra gli uni e gli altri! - ribatté il suocero, esplodendo.
Qui s’intromise da capo il Bianchini padre, supplichevole, e con lui la signora Giulia e la sorella d’Alberto, accarezzando l’uno e l’altro e sospingendoli dolcemente da due parti opposte, fin che il cerchio si spezzò in vari gruppi, e la battaglia si ruppe in una serie di scaramucce.
Vicino alla finestra, nacque una discussione intorno alle condizioni degli operai fra il dottor Geri, il Cambiasi e il Moretti, ai quali s’aggiunse la signora Luzzi. Il dottor Geri affermava che i salari erano aumentati in proporzione del prezzo delle derrate.
- Questo vorrebbe dire -, osservò il Cambiasi sorridendo -, siccome erano scarsi prima, sono insufficienti ancora adesso.
- Il pane è ribassato.
- La carne è rincarata.
- È scemato il prezzo del riso.
- Ma son rincarati il vino, l’olio, lo zucchero, il caffè, lo spirito...
- E le pigioni, signor dottore? - domandò la Luzzi.
- Ma che pigioni! - rispose il dottore - Badiamo ai fatti generali. Il fatto è che gli operai si vestivano di grossa tela, ora si veston di panni; andavano a piedi nudi, ora portan le scarpe; e sono alloggiati meglio d’una volta. Oltreché, godono dei vantaggi comuni della civiltà progredita: strade ferrate, gas, luce elettrica, acqua potabile, giardini pubblici, musei aperti a tutti...
- Ma questi vantaggi li pagano con le tasse.
- E che tasse paga chi non ha quattrini?
- Ma come! Non sa che ogni operaio che guadagni tanto da vivere paga il venti per cento del suo salario in tasse indirette?
- Ma che venti per cento! Si sa come si fanno questi calcoli... E poi, consideri le case operaie, gli istituti ospitalieri, i bagni popolari, la maggior igiene, che diminuisce le malattie infettive. Una volta eran decimati dal vaiolo...
- Già -, disse scherzosamente la Luzzi - come osano di lamentarsi? Son vaccinati!
Fu una risata. Alberto, sopraggiunto in quel momento, le disse: - Brava, signora Luzzi! Val più una delle sue bottate che tutti i nostri ragionamenti.
La discussione continuò; ma da qualche minuto il Cambiasi s’era staccato dal gruppo, e discorreva con la signora Paola, seduta accanto alla madre d’Alberto; questa sdegnata, quella stupefatta e quasi tremante della disputa che aveva ascoltato. L’ingegnere finiva di confonderle la testa dicendole che il socialismo non era che la risurrezione del Cristianesimo, e citandole cardinali e vescovi tedeschi, inglesi e americani che avevano espresse idee socialiste.
- Ah! non è possibile -, rispose la signora - Non scherzi su questo soggetto, signor ingegnere!
- Come, non è possibile? Ma, cara signora, sono fatti sacrosanti. E i padri della chiesa? Lei rispetterà i padri della chiesa. Ebbene, San Clemente ha detto che "tutto dovrebbe appartenere a tutti", San Basilio ha detto che "il ricco è un ladro", San Giovanni Crisostomo "che tutti i beni dovrebbero essere in comune".
La signora lo guardò, poi scosse la testa. - Ma non avran detto proprio così. Lei mi ha l’aria d’inventare. Se il mondo è com’è, è perché il Signore vuole che sia così. Se Sua Santità benedice anche i ricchi, vuol dire che la ricchezza non è una colpa.
- Sua Santità? Ma Sua Santità è un socialista dichiarato. Non sa che in una sua pastorale, quand’era vescovo di Perugia, ha detto che gli operai sono "sfruttati da una cupidità senza viscere"?
- L’avrà voluto dire in un altro senso. Lei si vuol burlare di me. Che gusto ci ha a tormentarmi?
- Ma no, lei vedrà... finirà a diventare anarchica. - E le parlò del suo famoso anarchico, il Baldieri, che aveva un libro terribile di propaganda tutto fatto con frasi delle Sacre Scritture, e che a sentirlo parlare, alle volte, pareva un sacerdote sul pergamo.
- Ah! Che profanazione! E lei sta a sentire di quegli orrori?
E si voltò a chieder soccorso alla signora Bianchini. Ma questa s’era avvicinata a un crocchietto dove il Geri figlio, ridendo, ma schizzando bile dagli occhi, metteva in burletta lo stato collettivista: - ...e così avremo lo Stato muratore, fabroferraio, calzolaio, contadino, filatore, stampatore, impresario d’omnibus e di tranvai. Il debito pubblico sarà trasformato in "titoli di consumazione" e invece della moneta s’avranno i "buoni di lavoro". E siccome i valori delle cose non saranno più determinati che dal tempo necessario a farle, così, vedete, non si comprerà più, per esempio, un soprabito da cento lire, ma un soprabito da cento ore; si comprerà tre quarti d’ora di sapone, un quarto d’ora di spago, cinque minuti di zolfanelli. E le fatiche più penose essendo le meglio retribuite, un’ora di lavoro alle fogne conterà come due ore di lezione d’un professore di letteratura. E non più proprietà privata. Ciascun italiano sarà proprietario d’un trentamillionesimo della proprietà nazionale. Non ci sarà più né mercato, né borsa, né pigioni di casa, né lusso, né servitori, né serve: la cucina sarà un’istituzione sociale...
Gli uditori ridevano. Ma egli tacque vedendo avvicinarsi Alberto, che l’aveva inteso, e tutti e due si fissarono, con un sorriso sarcastico. La signora Bianchini prevenne l’urto, facendo in là il suo figliuolo, e gli disse a voce bassa, risentita: - Ma dove hai la testa? Per che via ti metti? Il Commendatore è indignato! Non ricominciare. Che cosa diventa la nostra casa?
Alberto non rispose. Aveva ancora un peso sul cuore, un bisogno prepotente di lotta e di sfogo, stimolato anche dallo stato d’eccitazione in cui si trovava tutta la compagnia. Uno dei più eccitati era il Moretti, che incantucciava ora l’uno ora l’altro, per esporgli i suoi progetti, con cui risolveva la gran quistione. Sguisciatogli di mano il cavalier Bianchini, che aveva altro pel capo, egli afferrò il signor Luzzi, per comunicargli una nuova idea: fondere insieme tutte le società cooperative di consumo, formarne una sola immensa, che abbracciasse tutti i generi, e in cui entrassero a poco a poco tutti i cittadini dello stato. - Stia bene a sentire. La cifra degli affari di questa società sarebbe uguale alla cifra totale della consumazione dell’Italia, e pari a un dipresso a quella della produzione. Ebbene, quando questa gigantesca cooperativa sarà in grado di comperare tutta la somma della produzione annuale della nazione, è evidente che sarà assolutamente padrona, non solo del commercio (si sottintende), ma di tutte le industrie produttive; e allora le potrà comprare, e le comprerà; ed ecco sciolta pacificamente la gran quistione che affama il mondo.
Ma il Luzzi, che non credeva alla "gran quistione", sogghignò, come se non prendesse sul serio né il progetto di lui, né tutte le altre chiacchiere che sentiva da un’ora.
Allora il Moretti, con l’immaginazione sempre più accesa, agguantò il Cambiasi, e mise fuori un’altra pensata. Chi sa, la quistione sociale avrebbe avuto forse una soluzione affatto diversa da quella che il socialismo proponeva; una soluzione fatta balenare dall’ultimo congresso dei naturalisti a Berlino, nel quale s’era espresso il concetto che, per mezzo dell’elettricità, fosse possibile trasformare la materia prima in alimento. Non aveva detto il chimico Meyer che si potrebbero convertire in cibo le fibre legnose, e un altro, che si sarebbe fatto una specie di pane con la pietra?
- Ma certo! - rispose il Cambiasi - E sarebbe una cuccagna, per noi, che abbiamo gli Appennini e le Alpi! - Ma lasciò ad un tratto il Moretti, udendo Geri il giovane e Alberto, che discutevano acremente in mezzo alle signore.
- E crede lei - domandava il Geri - che una massa d’operai ignoranti potrebbe da sé sola mandare avanti le industrie?
- E chi le dice che le manderebbero avanti degli operai ignoranti? E adesso, sono forse i capitalisti, in generale, gli azionisti, i padroni, che mandano avanti le industrie più grandi? Non sono dei salariati come gli operai, dal primo ingegnere all’ultimo computista? Che cosa sarebbe mutato con la soppressione del capitalista, rimanendo nella società il capitale? E crede che tutta l’intelligenza e la scienza che ora fa andare il mondo non accetterebbe, per necessità, la nuova condizione di cose, continuando a fare la parte sua?
- No, mai! - rispose il Geri - Piuttosto si farebbe uccidere. Non si piegherebbe mai al vostro dispotismo.
La signora Luzzi lo rimbeccò - No, signor Geri -, disse - Si convertirebbero a mille per volta, come s’è sempre visto. E tutti proverebbero con dei documenti d’esser stati socialisti fin dall’infanzia.
Il Geri le lanciò uno sguardo come una frustata, e Alberto la guardò con più viva simpatia. Ma la discussione riprese, inasprendosi, e cadde d’un subito sulla quistione del diritto al lavoro. - Non c’è senso comune! - disse il Geri - come ci sarà del lavoro per tutti se ora già ne manca e se, soppressi i ricchi, avverrà un’enorme diminuzione dei consumi?
- Non ci ha altro argomento?... Ma questa diminuzione sarà ampiamente compensata dal maggior consumo della grande maggioranza, messa in condizioni migliori; maggioranza che ora, per la scarsità dei salari e per la disoccupazione, consuma appena lo stretto necessario, e anche meno!
Il Geri levò gli occhi in alto, come per dire: - Che spropositi! - Ma come si farà allora -, riprese - a mantener la produzione all’altezza dei nuovi bisogni, che cresceranno enormemente, e in corrispondenza all’aumento della popolazione, che sarà effetto della vita migliorata?
- E c’è bisogno che io glielo spieghi? Ma raddoppierà il prodotto della terra in virtù della grande cultura razionale, impossibile ora per il frazionamento della proprietà; si svolgerà largamente il macchinismo, limitato ora dalla sovrapproduzione, dal basso prezzo del lavoro umano, dalla insufficienza del capitale privato, e ci sarà un maggior numero di lavoratori per la soppressione dei parassiti, degli intermediari, dei produttori di cose inutili. - E vedendo il Geri ridere, soggiunse bruscamente: - Ma come non lo capisce?
- Ma come non capisce lei che gira in un povero circolo vizioso?
- Lei lo chiama vizioso perché non è capace d’uscirne!
In quel punto, per fortuna, il dottor Geri prese per un braccio il figliuolo, e gli fece osservare che non era conveniente il prolungar quella discussione col professore in presenza del suo scolaro, che stava lì a sentire, con gli occhi scintillanti di compiacenza maligna. E nello stesso tempo Alberto si sentì tirare il vestito da sua moglie, che lo scongiurava di quietarsi.
Seguì una breve tregua agitata, mentre la cameriera riportava attorno i vassoi, e il cavalier Bianchini notò con vivo rammarico che il Geri, il Commendatore ed Alberto, nell’atto di recare il bicchiere alla bocca, avevan le mani tremanti: un pessimo segno.
Intanto tutte le signore, meno la moglie dell’ingegnere, eran passate nel salotto, dove commentavano a bassa voce la discussione. La signora Paola e la madre e la moglie d’Alberto erano turbate, avevano tutte un presentimento che sarebbe finita male, che qualche cosa di triste per la famiglia dovesse accadere quella sera. Soltanto la signorina Ernesta taceva, ma col viso pensieroso, con due fiammelle guizzanti nei piccoli occhi neri e dolci, che annunziavano un fermento insolito d’idee. Nella sala da pranzo si tornavano a sentir delle voci concitate. Sopraggiunse la signora Cambiasi, ridendo, e disse: - Hanno ricominciato. Oh, questi uomini! Tiran fuori delle parole così stravaganti! - E provò, ma non riuscì a dire: "socializzazione della terra". - Non ci riesco: mi fa starnutare. Provi un po’ lei, signora Luzzi. - Ma, vedendo che la signora Giulia era inquieta, la esilarò per un momento, dicendole con la più grande ingenuità: - Ma io credo che il signor Alberto faccia per celia, per stuzzicare un poco quei signori. Lo dirà all’ultimo, vedrai, e tutto finirà in una risata.
Poi fecero tutte dei complimenti alla signora Luzzi per lo spirito che aveva mostrato nella conversazione, e il Cambiasi, entrando, ci aggiunse il suo. E mentre le altre non sentivano, le disse piano, con gravità comica, guardandola negli occhi: - Lei è socialista?
- Non so -, rispose la signora -; ma ho le mie idee. Non fosse altro che perché il socialismo vuol fondare il matrimonio sull’amore, sulla dignità umana, mentre ora non è che un contratto mercantile!
- Lei vuole la libertà della donna?
- Certo.
- È forse schiava, ora? Non è forse la donna che impera?
- Sì, la donna bella. Ma le altre?
- Perché s’interessa lei delle altre?
La Luzzi rispose seria: - Un complimento non è una ragione.
Il Cambiasi la fissò ancora, e gli balenò il sospetto che quel socialismo non fosse schietta farina, che nascondesse un suo disegno sopra il bel socialista, a danno del brutto vice direttore. Ma udendo la voce del Commendatore che parlava con un’acrimonia straordinaria, rientrarono tutti in fretta nella sala da pranzo.
L’oratore parlava ai due Geri, in piedi, fingendo di non badare ad Alberto, della lotta fra capitale e lavoro. No, per quanto armeggiassero con società di resistenza, coalizioni internazionali e l’inferno, il capitale non sarebbe stato mai soggiogato; anche a costo di far da per tutto come a Melbourne, in occasione dello sciopero famoso dei cavatori di carbone, degli accenditori del gas e dei facchini, quando s’erano uniti in lega ingegneri, avvocati, ecclesiastici, impiegati, studenti, e avevan lavorato alle officine, improvvisata l’illuminazione elettrica, caricato e scaricato le navi con le proprie braccia. No, piuttosto di subire la prepotenza del numero, sia d’operai che di contadini, si sarebbero inventate macchine su macchine, si sarebbe ridotta a pascolo mezza l’Europa, si sarebbero fatti venire lavoratori industriali ed agricoli dalla China e tratti dall’Africa i negri!
- E le scimmie! - aggiunse Alberto, non potendosi più contenere. - Finisca il mondo, purché si salvi il capitale e duri lo sfruttamento!
Il suocero si voltò, come sferzato da quest’ultima parola, che gli era intollerabile, e urlò quasi: - Eh! Finiamola una volta con questa parola bugiarda, di cui ci empite gli orecchi! Di che sfruttamento andate cianciando? In che maniera il capitalista sfrutta l’operaio, se questi può accettare o respingere le condizioni che egli propone? Come può il capitalista esser tiranno se l’operaio è libero?
- Libero?... - ribatté Alberto - E io dico dal canto mio: finiamola con questa parola bugiarda di libertà. Chi non ha nulla non è libero perché non può aspettare e non si può muovere. Il capitale può aspettare e può muoversi. Non c’è libertà reale di contratto fra chi ha bisogno del pane e chi può rifiutarlo.
- E allora non è libero neppure il capitalista perché è costretto dalla concorrenza a dare il meno possibile: la intendi?
- Poiché la intende lei! Ma il male è appunto nella concorrenza, che il socialismo vuol sopprimere.
- Ah! È dunque una forza maggiore che il capitalista subisce. Che ci venite a blaterar d’ingiustizia, allora?
- Ma l’ingiustizia c’è egualmente, e patentissima. È che il capitale pretende e si appropria una parte che non gli spetta.
- E quale parte? - domandò il suocero, sogghignandogli in viso.
- Quale parte? - domandarono insieme i due Geri.
- Ma è chiaro. Quando il capitalista ha prelevato dal guadagno gl’interessi del capitale che impiegò nella produzione, e tutte le spese, e la quota annua d’ammortizzamento, ed anche un largo compenso per il suo lavoro personale (se lo presta), con qual giustizia s’appropria il resto, invece di ripartirlo fra tutti i lavoratori che hanno concorso alla produzione?
Il Commendatore e i due Geri si guardarono un momento in aria di stupore, come credendo d’aver frainteso; poi diedero una risata. - Questa è enorme! - esclamò il suocero, fingendosi esilarato - ma se l’appropria come premio per il rischio che ha corso il suo capitale! Negherai, professore, che c’è un gran numero d’industriali che vanno in rovina?
Alberto fremé a quell’intonazione burlevole; ma il suocero non gli lasciò il tempo di rispondere - Venga lei -, disse -, signor Cambiasi, che pure poco fa gli dava ragione: venga lei a spiegare questa elementarissima verità al suo amico.
Il Cambiasi, col suo sorriso astuto, s’avvicinò al gruppo, lisciandosi il mento, e disse con molta placidità - In questo, mi scusi... sarei piuttosto d’accordo col mio amico. Il rischio esiste per questo o per quel capitalista, per Tizio o per Caio; ma non per la classe intera, nella quale rimangono ad ogni modo i profitti, poiché, non essendo i capitalisti collegati, ma in lotta fra loro, quello che l’uno perde l’altro guadagna. Mi spiego? Per la qual cosa, se taluni si rovinano, se il lavoro dei loro salariati non ha dato un prodotto rimuneratore, non se ne può dedurre... dico il mio parere... che debba il lavoro fortunato degli altri operai essere defraudato d’una parte del compenso che gli spetta, e questa parte accumularsi tutta a vantaggio del capitale.
- Ecco l’argomento - disse Alberto.
I tre avversari guardarono prima il Cambiasi e poi si guardaron tra loro, come per dirsi: - Costui vuol fare il buffone alle nostre spalle. - Ma questi sono miserabili cavilli da avvocati -, rispose il Commendatore - ma appunto perché non son collegati tra di loro, è logico e giusto che ciascun capitalista pensi a sé solo!... - Poi scrollò le spalle. - Ma io son ben ingenuo a risponderle. Lei non parla sul serio. Io non discuto più né con chi manca di sincerità, né con chi manca di senso morale.
Alberto si scosse. - Mi spieghi -, disse con accento quasi di comando - perché manco di senso morale.
- E hai bisogno che te lo spieghi! Ma è perché non comprendi, non senti che non si potrebbero attuare le tue idee senza commettere un’odiosa spogliazione, senza violare il più sacro diritto!
- Quale più sacro diritto? C’è qualche diritto superiore a quello che ha la società di modificare i propri ordinamenti? Lo stato moderno non è forse fondato sul diritto delle maggioranze? Chi si potrà opporre alla maggioranza quando vorrà valersi di questo diritto per la revisione del diritto di proprietà?
- Non alteri il senso delle parole, signor professore di letteratura; non si tratterebbe di revisione; ma d’una vera e propria spogliazione delle classi abbienti.
- Adagio un po’!... - entrò a dire il Cambiasi, con viso d’innocente - non si tratterebbe che di riscattare, io credo. Ai capitalisti espropriati si farebbe un pagamento rateale in forma di mezzi di godimento... per un tempo da convenirsi...
- Buffonate! - rispose- il suocero, perdendo la pazienza - chiamate almeno il latrocinio col suo nome!
- Latrocinio? - domandò Alberto, con quanta calma gli fu possibile - C’è latrocinio, c’è spogliazione quando si toglie a un cittadino ciò che possiede, in onta alla legge che glielo guarentisce. Ma quando la legge si muta, quando lo si espropria in virtù della legge stessa, in nome d’un interesse pubblico superiore al privato, dov’è il latrocinio?
- Dov’è il latrocinio? Ma con che faccia...? Ma sarebbe un latrocinio tanto più sfacciato, tanto più odioso perché fatto con leggi e coi carabinieri, senza possibile difesa! Ma il tuo senso morale non te lo dice? Ma con chi parlo, alla fine?
- E io mi rivolgo al suo senso morale, alla sua coscienza di cittadino e di patriota. Ma la storia degli ultimi secoli, lei lo deve sapere, non è che una storia di continue spogliazioni, fatte in nome del bene pubblico. La monarchia ha spogliato i grandi feudatari, la borghesia ha spogliato l’aristocrazia e il clero, l’Italia ha confiscato il patrimonio ecclesiatico, l’America ha espropriato i possessori di schiavi. Ma noi saremmo ancora al Medio Evo se non si fosse fatto tutto questo!
- Non barattar le carte. Qui non si tratta d’una espropriazione parziale, tu lo sai; si tratta d’una spogliazione, d’una ruberia universale, perpetrata per fondare uno stato di cose che nulla assicura debba esser migliore del presente, che tutto fa presagire peggio mille volte. Qui si tratta di rubar tutto ed a tutti!
- No, non rubare, ma riprendere; non a tutti, ma a un’infima minoranza, a una piccola casta, che senza il popolo non può sussistere, e di cui il popolo non ha più bisogno.
- Non dire castronerie: non è una casta, poiché tutti vi posson entrare.
- V’entra uno su mille; e intanto essa sfrutta ed opprime tutti quelli che ne restan fuori.
Il suocero fece un visibile sforzo per frenarsi, passandosi una mano sulla fronte, e cercando a un tempo un’idea, una frase che troncasse la discussione, in un modo onorevole per lui, senza essere una troppo grave provocazione. E in quel mentre, tra il mormorio vivace di tutti, il cavalier Bianchini, tutto sossopra, diceva piano ai vicini: - Alberto passa il segno... passa il segno... Ma anche il Commendatore è un po’ duro... Ah! è troppo duro... Parla con un tuono... Che cosa crede alla fine?... Ma Alberto passa il segno... - E sballottato fra gli argomenti contrari, desiderava insieme che il figliuolo avesse il di sopra, per onor del suo nome, e che il Commendatore la finisse con una ragione vittoriosa, per esser rassicurato sull’avvenire della società. Tremò, vedendo che quegli si moveva per uscire, senza dir nulla.
Ma arrivato a un passo dall’uscio, il Commendatore si arrestò, e voltandosi verso Alberto, gli disse con una pacatezza di voce, che il tremito della bocca smentiva: - Senta, signor professore. Il modo di rifare la società non l’hanno ancora trovato nemmeno i socialisti. Se l’avessero trovato, sarebbero già padroni del mondo, perché gli interessati a crederci e a seguirli sono la maggioranza. Se non riescono a tirar questa con sé, è perché non possono persuaderla delle loro idee. E non solo la maggioranza non n’è persuasa, ma non ci arriva neppure col pensiero. Il popolo non si moverà mai, ne sia certo, per una dottrina che non capisce.
- Non la capisce per ora -, rispose Alberto - non perché non sia chiara e logica, ma perché egli è ignorante. Ma l’ignoranza va scemando. La capirà tra poco, e capire ed esser persuaso, esser persuaso ed agire, agire e vincere, saranno per lui una cosa sola.
Il suocero si rimbrunì. - È quello che si vedrà -, disse, avviandosi di nuovo per uscire - Provatevi! La società è più solida delle vostre teste, e ve le spezzerete come contro un muro di granito.
- Così si diceva anche prima della rivoluzione francese.
Il Commendatore tornò indietro vivamente: - Il confronto è insensato. L’ordinamento attuale è ben altrimenti forte che il governo francese dell’89, e l’impresa del socialismo è tutt’altra, perché vuol rovesciare l’edifizio dalle fondamenta. La proprietà assalita sarà ancora la più grande forza del mondo. Avrete una Vandea che vi sterminerà come uno sciame d’insetti.
- Ci ho i miei dubbi! La borghesia è divisa, scettica e sfibrata. E poi, badate, l’esercito dei vostri futuri eroi s’assottiglia di giorno in giorno, poiché in tutti i campi della proprietà i grossi vanno mangiando i piccoli, e questi passano dalla parte opposta. Già tutto lo strato inferiore della borghesia non ha più nulla da perdere ad abbandonarla.
- Oh! basterà a difendersi da se stessa, con un fucile da una mano e uno scudo dall’altra!
- Sarà troppo tardi per offrir lo scudo.
- E allora v’ammazzerà senza offrirlo.
- Bah! Non oserà nemmeno di barricarsi in casa!
A quelle parole, seguì un improvviso mutamento sulla faccia del vecchio: egli guardò il giovane con un’espressione di viva curiosità, poi gli s’avvicinò, e gli domandò con un accento di comica commiserazione: - Ma chi t’ha messo su? Con chi pratichi? Chi t’ha attaccato questa peste?
- Il socialismo non è una peste -, rispose Alberto, sdegnoso -, è la guarigione d’una peste, della peste dell’egoismo, che ci accieca e c’infradicia tutti. Nessuno m’ha messo su. Non ho avuto bisogno d’istigatori per diventare un galantuomo.
L’ultima frase fu come un pugno nel petto al Commendatore, che diede un passo indietro, livido, e poi scoppiò, balbettando dalla rabbia: - Ah! sei diventato un galantuomo... Questo vorrebbe dire... Il socialismo è la guarigione... Te lo dirò io che cos’è il socialismo!... È la malattia dei cervelli dissestati e incompresi, è la maschera delle ambizioni malsane... in voi altri; e negli altri, sai che cos’è? È l’orrore del lavoro, è la frenesia dell’invidia, l’odio d’ogni superiorità, il furore di godere a ufo, lo scatenamento di tutte le più basse passioni e di tutti i più tristi istinti, che tendono a sopprimere la responsabilità personale, a cancellare ogni dovere, a onorare il vizio e a giustificare il delitto. Ecco che cos’è il socialismo. Ed ora ho finito.
Mentre egli parlava, tutti gli s’affollarono intorno per quetarlo, cercando di prenderlo per le mani o pei panni, di modo che, all’atto di rispondergli, Alberto si trovò solo in mezzo alla sala, come se combattesse contro tutti; e così ritto e risoluto in quella solitudine, col capo biondo che pareva d’oro, colla fronte alta ed accesa, era bellissimo. Ma mentre tutti s’aspettavano una risposta fulminea, rimasero stupefatti al vedergli gli occhi inumiditi, all’udir la sua voce raddolcita a un tratto, e quasi supplichevole.
- Ma come è possibile? - disse con profonda commozione, battendosi una mano sulla fronte - Io non capisco! Ma perché infuriate tutti a codesto modo quando s’esprime la fede in un miglioramento del mondo? Come non sentite che, se anche l’idea è erronea, la passione è generosa e santa? Come mai il cuore non vi dice nulla? Come non sentite almeno un po’ di pietà? Che cos’è quest’astio, quest’ira implacabile contro chi cerca il bene e difende i deboli e vuol scemare la miseria, il dolore, l’odio, il delitto? Mai, mai che v’esca un grido d’affetto dall’anima! Perché fate battezzare i vostri figliuoli nel nome di Cristo?
A quel punto sua sorella si spiccò dal gruppo degli uditori e gli si lanciò al collo d’un salto. - Ah! Brava! - esclamò la Luzzi. Ma la madre la tirò indietro con uno strappo, e le disse piano in viso: - Ridicola - mentre il Commendatore, irritato anche più da quell’atto, asciugandosi la fronte col fazzoletto come dopo un assalto di scherma, rispondeva ad Alberto: - Se tu credi di mutare il mondo con delle tirate sentimentali!... - E finì di versare tutta la sua compassione in una parola: - ... Poeta!
- Piglio atto della parola ingiuriosa -, ribatté Alberto con un sorriso amaro. - Ma se non salveremo il mondo noi col sentimento, lo condurrete alla rovina voi con la vostra ostinazione, con la vostra negazione eterna, col vostro inesorabile egoismo di classe...
- Siete voi, che lo conducete alla rovina -, gridò il suocero, rifacendo il viso torvo - voi col lavorìo infernale che fate tra le classi povere per renderle tanto più malcontente quanto più la società si sforza di migliorarne lo stato, voi che pervertite il popolo adulandolo, ubbriacandolo di illusioni e stillandogli il veleno nel sangue! Voi, le serpi che noi ci scaldiamo nel seno!
- E credetelo pure. È forse meglio. Voi date ragione ai violenti, secondo i quali non si può ottener nulla che con la forza, e convertite in violenti anche i miti. Provocate la forza, la subirete.
- Anche delle minacce! Non occorreva più altro! Ma per fortuna, signor genero, c’è ancora della polvere e del piombo!
- Non li avrete sempre.
- Questo è un pensiero scellerato!
- E il suo è sanguinario e inumano.
Tutti s’interposero; ma il Commendatore era fuori di sé, si sciolse da tutti, si slanciò verso Alberto e mettendogli il viso contro il viso, pallido e convulso, gli gridò in faccia con un riso stridente di disprezzo: - Ah! Povero mentecatto!
- No, no, papà! - gridò la signora Giulia quasi piangendo e mettendogli una mano sulla bocca. Alberto rimase muto, immobile, bianco. Il suocero se n’andò a passi impetuosi, in mezzo a un gran disordine, a un mormorio di esclamazioni, di preghiere e di commenti e un momento dopo, approfittando della confusione che durava ancora, se n’andò anche Alberto, seguito dal ragazzo spaventato e dalla moglie tremante, senza badare a suo padre che lo chiamava, trinciando l’aria con dei gesti di naufrago, fra le condoglianze degl’invitati.