Primo maggio/Parte prima/II

Parte prima - II

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La mattina dopo svegliandosi, fresco di forze e chiaro di mente, al primo pensiero che il 1° Maggio era passato, il Bianchini ebbe un grande piacere, e si vergognò un poco del turbamento e delle sinistre previsioni da cui s’era lasciato abbattere la sera avanti. Ma nell’animo rassicurato gli risorse più forte lo sdegno contro l’audacia dei perturbatori che avevano fatto passare a un galantuomo par suo una così triste giornata. Certo, egli era più inclinato che sua moglie alla benevolenza per le classi inferiori; ma questa era d’una natura particolare: era la pietà che prova un uomo ben pasciuto e buono diavolo, per chi mangia male ed è malcontento. L’idea d’un diritto qualsiasi del maggior numero ad una sorte migliore non gli era mai passata per la mente. Il mondo è fatto così - era la massima fondamentale della sua filosofia, ed egli non aveva mai visto la società, nemmeno di sfuggita, da un punto di vista diverso da quello in cui la fortuna l’aveva posto. Tutto il movimento d’idee del socialismo gli era affatto ignoto. Anni prima aveva letto in un giornale che divisa la ricchezza di tutta la provincia di Lipsia, una delle più ricche della Germania, per il numero totale della popolazione, sarebbero toccate 300 lire a ciascun abitante, una volta per sempre; ciò che avrebbe impoverito i ricchi e non migliorato la sorte di nessuno. E questa era rimasta il caposaldo delle sue idee intorno la quistione sociale, l’argomento che citava in ogni occasione. - Non c’è rimedio - ripeteva. Per questo quel moto popolare che aveva visto, a ripensarci a mente fredda, gli pareva una cosa da pazzi, e i particolari di violenze che lesse nella Gazzetta quella mattina lo indignarono. Sì aveva ragione il Geri. Il Governo, le autorità si mostravano troppo deboli; ma perché non eran spalleggiati, perché era debole la cittadinanza. Era tempo che tutti i galantuomini si schierassero risolutamente in difesa della causa dell’ordine, bandissero le condiscendenze e le transazioni pericolose, e facessero sentire alta la loro voce contro i principi sovversivi che guadagnavan terreno. La sera sarebbe andato al caffè Londra a dir l’animo suo agli amici. La traccia del suo pensiero, per quel giorno, eran le parole del Geri.

Quella mattina alle dieci, tornato dalla sua passeggiata solita, mentre sua moglie e sua figlia erano andate a messa, gli capitarono in casa Alberto e la nuora.

Egli si lanciò verso il figliuolo come se non l’avesse visto da un mese. Entrarono nella grande stanza da lavoro inondata di luce, tutti e due così freschi, belli, vestiti bene, splendidi di gioventù e di letizia, che il Bianchini mandò un’esclamazione di allegrezza, e rimase un momento a contemplarli tutti e due. Oh! Quell’Alberto! Quel caro figliuolo, era l’idolo e la gloria, e l’orgoglio suo! Ogni volta che lo vedeva, era tentato di cacciargli le mani in quei suoi folti capelli biondi arricciolati, come glie le metteva quand’era bambino, che ci si perdevano, come in un mucchio di matassine di seta! Non era molto alto di statura, ma di membra ben proporzionate e robuste, ed aveva il viso di suo padre, raffinato di forme, ma nobilitato dalla luce dell’ingegno, e la sua aria di bontà, ma ingentilita, e mista a una bella espressione d’alterezza virile. Egli provava ogni volta davanti a lui la gioia d’un artista mediocre a cui è scappato un capolavoro, il cui successo inaspettato lo stupisce e lo esalta. Ed egli godeva a metter giù davanti a lui ogni aria d’autorità paterna, a dimostrargli che sentiva la sua superiorità, per fargli meglio comprendere il suo affetto e la sua gratitudine.


Sedettero un momento tutti e tre intorno a una tavola rotonda, di contro alla finestra, donde entrava un raggio di sole. E il Bianchini interrogò subito il figliuolo sugli avvenimenti del giorno innanzi, scherzando, parato a una scrollata di spalle di lui, che viveva tutto nella letteratura, e d’ogni altro argomento non si curava.

- Hai visto, eh! - gli domandò - hai sentito ieri sera, quei mascalzoni?

Il figliuolo rispose indifferentemente: - Ho visto. - E tacque un momento, come se gli rincrescesse di soggiungere quello che aveva in mente. - Ma che vuoi... - disse dopo - per me... mi fa pena una società che, quando quelli che la fanno vivere domandano un po’ meno di lavoro e un po’ più di benessere, per tutta risposta, mostra loro le baionette.

Il padre lo guardò.

- Capisco -, rispose poi - ma lo domandino in un altro modo.

- È un pezzo che lo domandano in altro modo - osservò il figliuolo sorridendo - Che cosa hanno ottenuto finora?

- Bisogna vedere se le loro domande sono ragionevoli. Insomma, la condizione degli operai s’è migliorata molto... da una volta.

- È opinione discutibile. Se migliorata per alcuni, s’è peggiorata per altri, è diventata più precaria per tutti. Riconosco che stessero peggio una volta... ti parrebbe giusto negare a un giovane negro un diritto, per la ragione che suo padre non ne aveva nessuno?

Il Bianchini non afferrò lì per lì l’argomento.

- Però ? disse - lasciamo andare; il migliorare la propria condizione dipende anche in gran parte da loro. Facciano anche un po’ d’economia, smettano i vizi, s’istruiscano...

- Ma caro papà - gli disse con un sorriso amorevole il figliuolo -; quando il salario basta appena alla vita come vuoi che basti a fare economia? I vizi! Dio mio, noi lo sappiamo bene che grandi vizi si possono avere senza danaro! E che tempo è lasciato loro per istruirsi?

- Che tempo è lasciato loro per istruirsi! - ripeté il padre - dunque, tu sei per le otto ore di lavoro?

- Certo.

- E credi che le otterranno?

- No. Gl’industriali dicono che non possono ridurre le ore, se in tutti i paesi i governi non le riducono; ciò che è vero. E i governi dicono che non possono perché le condizioni dei vari paesi, per industrie, clima etc., son troppo diverse.

- Vedi dunque che lo stato attuale delle cose è inevitabile.

- No, papà. Tu vuoi dire lo stato attuale delle cose era inevitabile che avvenisse, se prodotto necessariamente, come ogni fase d’uno sviluppo; questo è vero; ma è un’altra cosa. Come lo stato attuale è derivato da un altro, così un altro, col tempo, succederà a questo, necessariamente, per forza indipendente dalla volontà dei proletari e dei governi.

Il Bianchini poi con stupore scrollò il capo, non persuaso. Poi domandò improvvisamente: - In che maniera?

- Ah! quanto a questo - rispose sorridendo il figliuolo - io non lo posso sapere. Si può prevedere a che cosa arriverà la società, ma non segnare la via o le vie per cui passerà per arrivarvi.

- Vorresti dire una rivoluzione? - domandò il padre fissandolo.

- Può anche essere, o se non una rivoluzione, una serie di scosse violente, di convulsioni sociali, che, a poco a poco, modificheranno radicalmente lo stato attuale.

- E credi che comincerà presto questa... serie di rivoluzioni? - domandò il padre con un sorriso di chi dubita se il discorso sia serio o faceto.

- Credo che sia già cominciata - rispose, serio, il figliuolo.

A quelle parole suo padre e sua moglie s’alzarono tutti e due insieme ridendo, come per far capire che non dubitavano più d’uno scherzo - Da quando in qua hai queste idee? - gli domandò la moglie. E il padre ripeté la domanda, mettendogli scherzosamente una mano sulla spalla: - Giusto - da quando in qua hai queste idee?

Alberto s’alzò, un po’ piccato, e rispose: - Ho parlato sul serio. Come potete pensare che io scherzi sopra un argomento di questo genere?

Il padre si fece serio - E perché allora non ci hai mai espresso le tue idee?

- Perché prevedevo che non ci saremmo intesi. E vedete bene che avevo ragione.

- Ma insomma - disse il padre prendendosi la fronte colle dita riunite della mano - dimmi proprio chiaro e preciso quello che pensi.

Il figliuolo rispose con pacatezza quasi dolce: - Ecco quello che penso. Penso che la parte che è data ai lavoratori sul prodotto generale della ricchezza non è proporzionata alla parte che essi rappresentano nell’opera generale della produzione della ricchezza medesima. Penso che non è giusto che quella parte della società che fa il lavoro più faticoso e più necessario per nutrire, vestire, alloggiare e dare a l’altra parte i mezzi e l’agio di educarsi, non guadagni abbastanza da nutrirsi, vestirsi e alloggiarsi umanamente, e sia esclusa dalla possibilità di istruirsi. Penso, insomma, che il lavoro non raccoglie i benefici che arreca il progresso della civiltà, perché questi benefici gli sono intercettati da un difettoso organamento sociale.

La signora intervenne, con la sua voce placida: - Ma, Alberto, come vuoi che tutti si trovino nelle stesse condizioni di fortuna?

Il padre approvò l’argomento col capo.

- Non dico questo -, rispose Alberto - ma perché si debbono tenere nelle condizioni peggiori quelli che lavorano di più e che sono più necessari? Perché ci dev’essere tanta gente che lavora troppo, e non mangia abbastanza, e tant’altra gente che, lavorando la metà, vive nell’agiatezza, e tant’altra che, non lavorando punto, nuota nell’abbondanza?

- Ma perché il mondo è fatto così, figliuolo mio - rispose il padre, sorridendo, quasi stupito dell’ingenuità del figliuolo - e perché così è sempre stato.

- No, papà, così non è sempre stato. C’era la schiavitù e il servaggio, e non ci son più; c’era il feudalesimo, c’era il dispotismo, e sono scomparsi; c’era l’ineguaglianza civile e politica delle classi, ed è stata soppressa. Vedi che il mondo è mutato, e se si è mutato, si può mutare; se si può mutare non è una legge soprannaturale che sia com’è al presente.

- Ma come dovrebbe ancora mutare, poiché hai detto tu stesso che abbiamo la libertà e l’eguaglianza, che è quanto dire che tutte le strade sono aperte a tutti per migliorare la propria sorte?

Il figliuolo s’eccitò. La contraddizione, di cui era intollerantissimo, cominciava a irritarlo, e malgrado l’affetto che aveva per suo padre, lo irritava di più la contraddizione di lui, appunto perché in tutte le altre quistioni l’aveva sempre trovato ossequiente. Un leggiero rossore gli salì alle guance.

- Ecco l’errore! - esclamò. - La libertà e l’eguaglianza furono una conquista di fatto per alcuni; una parola muta per tutti gli altri. L’eguaglianza non può sussistere fin che l’esistenza del maggior numero dipende dal capriccio o dalla fortuna buona o cattiva posta nelle mani del numero minore, fin che c’è da una parte chi ha tutto e dall’altra chi non ha nulla. La libertà non è che per chi ha mezzi e cultura. Chi non ha né gli uni né l’altra, è schiavo della miseria, dell’ignoranza e del caso. La strada a migliorare non è aperta a tutti, perché tutti quelli che nascono in migliori condizioni di fortuna si trovano già a mezza via, e non c’è uno su mille degli altri che li possa raggiungere. Pensaci un poco, papà. È una rivoltante ingiustizia. Se noi non ce n’accorgiamo, è perché i nostri interessi ci hanno falsata la coscienza.

Il padre lo guardò grandemente stupito. Poi si ribellò - Oh insomma - disse - ripetendo una frase udita - il mondo è di quelli che se lo presero, che son stati i più forti.

- Saranno stati i più forti una volta, ora non son che i più pochi e i più fortunati. Ma ammettiamo i più forti. Vuol dire che quando, mettendosi d’accordo, saranno i più forti i lavoratori, avranno diritto di metterci sotto i talloni, come noi facciamo di loro!

Il Bianchini ebbe una scossa.

- Ma Alberto! - esclamò la moglie scandalizzata, guardandolo come gli vedesse una faccia nuova.

- Ma, figlio mio -, disse il padre con una severità trista che non aveva mai usato col suo figliuolo - chi t’ha ispirato queste idee... indegne di te!

Un moto di sangue salì al viso del giovane:

Indegne di me?... - rispose, contenendo la voce. Ma, scusami, a me pare che fossero indegne di me quelle che avevo prima. E non ho detto la metà di quello che penso. Penso che, così com’è ora, la società è tutta organizzata e diretta a beneficio d’una piccola minoranza, che sfrutta tutte le energie dei lavoratori, con la protezione della legge, che ha fatto essa sola e per sé sola; che tutto l’edifizio si regge sull’ignoranza e sull’abbrutimento delle moltitudini; che è la sola violenza che lo tiene insieme; che questo stato di cose ci corrompe tutti, è come un’infezione nell’atmosfera morale; la causa prima di tutte le più tristi passioni e delle più nefande azioni e dell’affanno di tutti, e della menzogna d’ogni istituzione e d’ogni parola; e che questo stato non può durare, e non durerà, e che è sacro dovere d’ogni uomo onesto il far tutto il possibile perché non duri, se anche si dovesse sconvolgere il mondo.

La moglie, turbata, con uno slancio gli mise una mano sulla bocca. Il padre lo guardò un momento con gli occhi maravigliati, e poi, afferrandogli le due mani e mettendosele sul petto, gli disse a bassa voce, con accento di profondo affetto e di sincero dolore.

- Ma, Alberto, figliuol mio, sei in te, sei proprio tu, che dici queste cose?

- Son io - rispose con un sorriso nervoso, il figliuolo, liberando dolcemente le mani - mi rincresce di spiacerti. Ma con chi dovrei esser sincero, se non con mio padre? Io vedo ora il mondo sotto un aspetto nuovo, che è il vero. Credevo che il mondo fosse la bellezza, la scienza, la politica, e tutta la gente fortunata che s’occupa di queste cose: e non vedevo altro: ora vedo che il mondo è la moltitudine quasi relegata fuor del progresso, che alla società dà tutto e non ne riceve presso che nulla, che suda sopra la terra, e sotto la terra, e si logora nelle officine e copre delle sue ossa i campi di battaglia, senza cavarne altro frutto che di non morire di fame; che per miseria è costretta a vendere la carne e l’anima, l’onestà delle donne, il sangue dei fanciulli, e per miseria minaccia, ruba, si dispera, impazzisce, uccide, s’uccide, fa del mondo un inferno; mentre un piccolo numero, in disparte, canta degli inni alla patria e alla civiltà, e trova che è bella la vita. Ma io mi son persuaso che a tutto questo c’è rimedio, come altri millioni d’uomini se ne son persuasi. Questa convinzione m’è entrata nell’animo come un raggio di sole. Sarà un errore: il rimedio non sarà quello, saranno altri. Comunque sia, la prima cosa a farsi per guarire un male, per sopprimere un’ingiustizia, è quella di riconoscerla, è di proclamare il buon diritto di chi si lamenta. Non posso far altro; faccio questo; faccio eco alla voce degli oppressi, degli sfruttati, dei miserabili, - rifiuto la complicità del mio silenzio - all’oppressione - e protesto. Non posso più aver pace e dignità di coscienza che nell’adempimento di questo dovere. E lo adempirò a qualunque rischio e a qualunque costo!

Il padre diventò pallido. E gli domandò con voce alterata: - E tu scriverai queste cose? E le dirai queste cose che bisogna mutare le cose a patto anche di sconvolgere il mondo... le pubblicherai, col tuo nome, a rischio di rovinare la tua carriera, di mettere la discordia in famiglia, di alienarti tutti gli amici? Senza il minimo dubbio?

- Le scriverò - rispose con fermezza Alberto.

- Ma tu non sei in te! - esclamò la moglie, afferrandogli una mano.

Il Bianchini stette un momento a guardarlo, tremante di collera. - Ebbene, gli gridò poi, tu sei un altro da quello ch’io credevo. Tu non hai amore né per tuo padre, né per tua moglie, né per il tuo bambino. Tu hai perduta la coscienza e la ragione. Non riconosco più il mio figliuolo!

E si slanciò nell’altra camera.

La signora, spaventata da quelle parole, gli corse dietro, chiamandolo; ma egli chiuse l’uscio con violenza.

- Alberto -, disse allora severamente a suo marito, stentando a raccoglier la voce: - Perché non m’hai confidate mai queste tue idee?

Il marito, commosso profondamente dalla scena del padre, la più grave, la sola grave ch’egli gli avesse fatta in vita sua, si ricompose a fatica, e rispose con voce commossa, ma risoluta:

- Perché m’avresti fatto come papà... hai veduto.

- No - rispose la moglie - ma avrei cercato di moderarti, di farti riflettere prima... Avevo diritto a sapere... T’avrei impedito di dare a tuo padre questo dolore!