Primo maggio/Parte prima/III
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Il Bianchini padre rimase dopo quella scena come chi, rientrando in casa dopo un’allegra cena, trovasse nell’anticamera una bomba esplosiva con la miccia accesa. Bisognava provvedere senza indugio, darsi moto, tentare ogni mezzo per arrestare il figliuolo sull’orlo del precipizio. A prenderlo di fronte con la ragione non pensò neppure, perché aveva coscienza che non gli bastavan le forze della mente, e poi soffriva troppo a contraddirlo, e sentiva che, toccato nella corda del sentimento, sarebbe stato vinto alla prima. Ci voleva un amico autorevole. Pensò subito al Cambiasi. E appena fu libero, corse da lui. Sì, quello era l’uomo. Amico d’Alberto fin dall’Università, suo testimonio allo sposalizio, affezionato alla famiglia, esperto del mondo, pieno di buon senso e di cultura e ragionatore finissimo, era il solo che potesse riconvertire o frenare il suo figliuolo, e dare anche a lui una norma di condotta, di fronte agli avvenimenti, che minacciavano la pace della famiglia. Lo trovò in casa, e senza preamboli, in presenza della signora Cambiasi, in quel grande studio disordinato, ingombro di disegni architettonici, di balocchi e di cianfrusaglie delle signorine, mentre in una stanza accanto si sonava il pianoforte e in un’altra saltavano i ragazzi da sfondare il solaio, egli disse il caso suo e lo scopo della sua visita con un affanno così eloquente, con gli occhi così pronti a bagnarsi di lacrime, che il Cambiasi ne fu commosso. Ma non si stupì della cosa: n’aveva da qualche tempo un presentimento. Intanto ch’egli stava pensando, la bella signora tonda e sciocchina diede dei consigli di suo e da pari sua. Il meglio che si potesse fare era di mandar Alberto a passar quindici giorni a Superga: si sarebbe distratto, avrebbe mutato pensiero. Poi le balenò un’idea anche più luminosa: - Dica alla signora Giulia che gli tolga tutti i libri e tutti i giornali. - Ma il Bianchini non le badò: rifiatò soltanto quando l’ingegnere gli ebbe promesso di parlare ad Alberto: ci aveva già pensato; temeva egli pure che il suo amico si tirasse addosso dei guai. Non credeva però opportuno di parlargli subito, perché doveva essere ancora troppo eccitato dagli avvenimenti del 1° Maggio; era meglio aspettare che si fosse quetato un po’, cogliere il buon momento, e allora, con tutto il cuore, egli avrebbe tentato di persuaderlo, se non altro, a moderarsi, a esprimer le sue idee con più riserbo, sopra tutto fuori di casa. Il Bianchini allargò le braccia in atto di gratitudine, e poiché il Cambiasi doveva uscire, s’offerse con un mar di parole d’accompagnarlo fin dove andasse, mentre le donne di servizio e i ragazzi gli cercavano il cappello, la canna e il portasigari, correndo e gridando per tutte le stanze, come se fosse preso fuoco alla casa.
Quando furon sul corso Vinzaglio, il Bianchini ricominciò a esporre diffusamente i suoi affanni e a domandar dei consigli; poi, soffermandosi, disse tutt’a un tratto, con un accento che voleva nascondere la sua curiosità inquieta: - Ma, insomma, mi dica un po’ lei, caro Cambiasi: che cos’è, proprio, questo socialismo? Che cosa vogliono questi signori socialisti?
L’ingegnere lo fissò, gli lesse dentro, e la sua natura faceta, riprendendo subito il di sopra, gli suggerì un’idea, che egli tenne nascosta, durante tutta la conversazione, sotto una grande serietà.
- Buon dio -, rispose - ...Come si fa a definire esattamente... Il socialismo è, o meglio, i socialisti vogliono uno stato sociale in cui i capitali della nazione, ossia gli strumenti di produzione, appartengano alla nazione medesima, la quale gli affidi, gl’impresti, diremo così, gratuitamente, ai lavoratori, raggruppati in associazioni.
- Sarebbe a dire? - domandò il Bianchini, spalancando gli occhi.
- Sì... - riprese l’ingegnere -, uno stato sociale in cui tutti lavorino direttamente per la società, la quale accentri i prodotti del lavoro e li ripartisca fra i suoi membri, o in ragione dei bisogni individuali, senz’altro, o in ragione della qualità e quantità del lavoro di ciascuno.
Il Bianchini accennò col capo, ma non mostrò col viso, d’aver capito. - Già -, disse con aria d’indifferenza -, e per venire a questo, naturalmente, bisogna abolire il capitale privato?
- Fuor d’ogni dubbio -, rispose il Cambiasi -, perché, secondo la dottrina socialista, il capitale privato non deriva che dalla "spogliazione del lavoro" ossia non è altro che "accumulamento di lavoro altrui non pagato" per la qual cosa, a giudizio dei socialisti, la proprietà dei ricchi non si deve chiamare "proprietà", ma "altruità".
Il Bianchini fu colpito da quella strana parola.
E ripeté con accento di stupore: - Altruità!
Poi scattò. - Ma dunque -, disse, facendo un passo indietro -, noi siamo considerati come ladri?
- No... non per l’appunto. Cioè, ladri senza colpa, ladri per forza d’un ordinamento sociale, che non abbiamo creato noi, che ci è stato imposto; di un sistema, vale a dire, di cui siamo gli effetti necessari, e di cui siamo costretti ad approfittare e a vivere, come i bachi del formaggio dove son nati. Siamo ladri, dirò così, oggettivamente, e, soggettivamente, galantuomini.
Il Bianchini si fermò, e lo guardò, corrugando la fronte in un modo che esprimeva chiaro il suo pensiero: egli voleva dire che non si credeva ladro né oggettivo né soggettivo; ma tacque perché non conosceva il senso esatto delle due parole.
- E crede lei che si verrà a questo stato di cose? - domandò, dopo un breve silenzio.
- Credo -, rispose l’ingegnere accarezzandosi un baffo -, che si tenterà d’attuarlo. Oh, quanto a questo, caro signor Bianchini, ne ho la più profonda certezza. Tutto vi tende. Noi andiamo diritti a una rivoluzione. Scoppierà in occasione d’uno sciopero universale, sinfono e sincrono, di tutti i lavoratori d’Europa? O in conseguenza d’una grande guerra? O per effetto d’un enorme cataclisma finanziario, verso il quale corrono tutti gli stati europei, coi loro cento miliardi di debito? Chi lo può sapere? Ma scoppierà, senz’ombra di dubbio.
Il Bianchini stette un po’ sopra pensiero; poi disse risolutamente, scrollando il capo: - Non lo credo, non lo credo, non lo credo. Non ci sono le cause, non ci sono le forze, non ci sono i sintomi (Erano tre argomenti che aveva inteso dal padre della nuora) - E dicendo: - Non ci sono i sintomi, guardò intorno per aria, come per chiamare in testimonianza della sua affermazione quel cielo sereno, quei passanti flemmatici, quella bella regolarità geometrica delle strade di Torino, che eran l’immagine dell’ordine e della pace. E soggiunse: - I socialisti sono un’infima minoranza; la campagna non è con loro; i governi, in questo momento, son forti, gli eserciti disciplinati... Non lo credo.
Allora, crudelmente e pacatamente, andando giù per via della Cernaia, senza guardare in viso il suo uditore, col tuono di chi è costretto a dir delle verità di cui è dolente e impaurito, il Cambiasi gli accennò i passi maravigliosi, e che faceva la nuova idea in Europa e in America. Nella Germania, il socialismo diventato "un fattore di primo ordine" della politica interna, con trentacinque deputati al Reichstag, eletti da un millione e mezzo di voti; quasi tutte le cattedre di economia politica infette di quella peste di dottrina; seicento mila abbonati a cento giornali del partito. Nella Francia, quattrocentocinquanta socialisti entrati nei consigli comunali, Parigi pronta a rifar la "Comune" alla prima occasione, ma con le moltitudini conscienti e con ben altri capi che nel 71. In Austria, un socialismo meno scientifico, ma radicato nel popolo anche più profondamente che in Germania, e il 1° Maggio celebrato a Vienna con una processione silenziosa di trecento mila operai per il Ringstrasse: uno spettacolo da metter lo sgomento nell’anima. In Inghilterra le Trades unions, formate da un millione e mezzo di lavoratori, quasi già convertite al socialismo, e l’agitazione in favore della "nazionalizzazione della terra" crescente con "moto uniformemente accelerato". E nel Belgio? Il partito organato come un esercito, quasi tutto l’insegnamento universitario avviato su quella china, in certe città delle "organizzazioni socialiste quasi compiute" come isole di nuova formazione, sparse per il mare del vecchio mondo, che la prima scossa tellurica avrebbe riunito in un continente. Nella Danimarca, nella Svezia un movimento più lento, ma continuo e sicuro, e più saldamente concorde che in ogni altro paese. Perfin nella Spagna, nella sola Andalusia, più di cento e trenta associazioni socialiste, con cinquantamila affigliati nelle campagne. Perfin la pacifica Olanda, la China d’Europa, turbolenta da un capo all’altro, minata e scossa da dimostrazioni e da rivolte di migliaia di lavoratori. Quanto alla Svizzera, bastava dire che era il luogo di rifugio dei più pericolosi agitatori di tutti i popoli, una specie di quartier generale della rivoluzione europea. Negli Stati Uniti, in fine, il people’s party, sorgente tra lo sfacelo dei due grandi partiti politici tradizionali, il solo che avesse per sé l’avvenire, delle associazioni gigantesche, un fermento terribile di rivoluzionari d’ogni razza, centosessantadue scioperi in due anni, accompagnati da lotte sanguinose, una stampa formidabile, e tanto danaro da mandare dei millioni per il mondo a sostegno della causa. E non parlava dell’Australia, dove l’ordinamento socialista era già attuato in molti dei suoi principi, dove le classi lavoratrici spadroneggiavano già nella legislazione, nella giustizia, nel commercio, nelle industrie, nelle scuole, dove la vecchia società andava a pezzi di giorno in giorno, d’ora in ora, come un edifizio divorato dalla termite. Era, in somma, una vertigine universale, una febbre epidemica che si propagava da per tutto, e risaliva dalle classi inferiori alle sovrastanti, e invadeva l’aristocrazia, la chiesa, la scienza, gli eserciti, la letteratura, e attaccava la nuova generazione fin dall’infanzia. - Eh, caro signor Bianchini -, concluse, sbirciandolo - noi ci illudiamo perché siamo addietro; ma se osserva il movimento internazionale, gli si agghiaccia il sangue nelle vene.
Il Bianchini non rispose: il suo pensiero volava per l’Europa e per l’America, esterrefatto.
- Ma anche tra noi -, riprese l’ingegnere, abbassando la voce -, lei che dice che non ci sono i sintomi, non vede lei la straordinaria rassomiglianza di sintomi che c’è fra il nostro tempo e gli ultimi anni che precedettero la rivoluzione francese? - Egli la notava ogni giorno; era una cosa da far strabiliare, da dar negli occhi anche ai ciechi. Anche allora, come adesso, prevalevano lo spirito scientifico e lo scetticismo alla religione, non più considerata dalle classi superiori che come un’istituzione politica e un freno morale per il popolo. La borghesia della fine del secolo decimonono era lo specchio fedele dell’aristocrazia della fine del diciottesimo. Imbevuta, come quella, di massime umanitarie e radicali, lavorava, anch’essa, inscientemente, a scalzare i propri privilegi. C’eran gli stessi stranissimi tipi d’allora, smaniosi di popolarità, che volevano godere ad un tempo, come quei nobili francesi, i vantaggi del loro stato privilegiato e le soddisfazioni d’una filosofia demagogica. Era la stessa esaltazione dello spirito di beneficenza, lo stesso fervore di studi economici, la stessa illusione di riparare a ogni male coi palliativi delle piccole riforme e delle consolazioni pietose, la stessa cecità davanti ai pericoli imminenti. E in quegli animi come in questi si lamentava l’affluire soverchio della popolazione campagnuola alle città, la decrescente sicurezza della proprietà agricola, il moltiplicarsi continuo dei disoccupati, la frequenza ogni dì maggiore delle riunioni popolari, il pullulare degli oratori, la colluvie degli opuscoli d’argomento sociale, la tendenza generale del popolo a ordinarsi in associazioni, in circoli, in sodalizi. E anche allora, come al presente, quanto si faceva per migliorare la condizione del popolo, non riusciva che a inasprire in lui il sentimento delle sue miserie. Nelle memorie dei signori di quel tempo si leggevano le medesime osservazioni, le medesime parole che si dicono da quelli d’adesso: la mancanza di rispetto, l’insubordinazione della "bassa gente" più manifesta di giorno in giorno, il contadino che non si leva più il cappello, l’operaio che lancia il motto sardonico dietro al signore ozioso che passa - E il quarto stato - concluse l’ingegnere - ricanta ora al terzo, con frasi identiche, la stessa stessissima arietta che cantava allora il terzo agli altri due: "Noi siamo per noi stessi una nazione compiuta, non deficiente d’alcun organo vitale, la quale per sorgere e svolgersi non ha bisogno che di cacciarsi di dosso i parassiti; non abbiamo più bisogno di signori per governarci, e vogliamo governare noi perché siamo la maggioranza, e dov’è la maggioranza è il diritto." Tutto, fin nelle minime cose, nell’intimo e alla superficie della società, tutto è come allora. E questo, signor Bianchini, è un segno infallibile e tremendo.
Il Bianchini, per qualche momento, non riuscì a spiccicare parola: si sentiva un peso enorme sul petto. Poi si fece un po’ d’animo, e domandò con forzata disinvoltura, girando un rapido sguardo per la piazza Pietro Micca: - Ma quando, ma in che maniera può cominciare questa rivoluzione?
- Eh, dio buono! - rispose il Cambiasi - Il quando non si può dire. Il presente stato di cose è così malfermo, così pericolante, che il precipizio può seguire per un qualunque accidente. Siamo come in un magazzino di sostanze infiammabili: c’è da tremare anche d’un cerino. Quanto alla "maniera" in cui comincerà, è ben chiaro. Come con la rivoluzione francese c’è l’analogia nei sintomi, ci sarà anche nei principi. Si può anzi giurare che accadrà tal quale. Comincerà, come allora, con una recrudescenza generale di crimini contro la proprietà... col formarsi di piccole bande minacciose nelle vicinanze delle città grandi... Naturalmente, tutta la feccia delle società cittadine, tutti i vagabondi, i malfattori, tutti i nemici disperati d’ogni legge, sbucheranno di sotto terra, cominceranno a mostrarsi arditamente alla luce del giorno; la folla delle città, a poco a poco, muteranno aspetto; si rivedranno i club all’aria aperta, i tribuni nelle piazze, ci saranno delle dimostrazioni formidabili che faranno morir di spavento parecchi, come il segretario di Luigi XVI; poi delle piccole rivolte, represse in un punto, rinascenti in un altro, crescenti di numero, simultanee in molti luoghi, nelle città, nei villaggi, nelle campagne, come fiammate intermittenti d’un vasto incendio, con le solite vendette personali, coi soliti saccheggi di case, di cantine, di edifizi pubblici; poi delle grosse e furiose insurrezioni parziali, in cui rimarranno duecento o trecento morti, come nell’assalto della casa Reveillon a Parigi... L’ira del popolo sarà esasperata dal pericolo e dalla resistenza, il terrore della reazione spingerà alla rivolta anche la massa degli indifferenti e dei poltroni, la forza armata diverrà impotente a resistere, le autorità svaniranno l’una dopo l’altra, la immensa forza bruta della moltitudine rimarrà padrona del campo... Sarà prima una rivoluzione, anche questa volta, poi una dissoluzione della società, e poi, presto o tardi, le conseguenze inevitabili: la carestia, l’epidemia, la guerra, una serie di guerre... Mio dio! La storia si rifà. Finirà il ventesimo secolo in Europa come è finito l’altro nella Francia. Tutto questo è certo, caro signor Bianchini, come quattro e quattro fanno otto.
- Buon giorno, ingegnere! - disse bruscamente il Bianchini...
- Buon giorno, cavaliere! - rispose il Cambiasi, voltandosi in là per non far vedere il sorriso; e poi si voltò a guardar di lontano la sua vittima.
Il povero Bianchini tornò a casa profondamente turbato, e, com’è uso degli animi deboli, invece di ribellarsi al proprio sgomento, vi si abbandonò e vi si chiuse, facendosene quasi un’armatura, per ripararsi da altri sgomenti avvenire. Il Cambiasi l’aveva persuaso, quello che gli aveva detto era la verità patente, bisognava esser ciechi ostinati per non riconoscerla, o scimuniti a non rassegnarvisi, riconoscendola. Oramai non c’era che a prepararsi l’animo agli eventi ineluttabili. E fra quei tristi pensieri gli brillò l’immagine consolatrice del figliuolo come quella d’un protettore futuro, d’una salvaguardia della sua casa. Sì, quanto più egli si fosse spinto innanzi sulla via del socialismo, quanto più arditamente egli avesse pubblicato le sue idee e combattuto per esse, tanto più sicura e potente, nei giorni del pericolo, sarebbe stata la protezione del suo nome. Povero Alberto! Una nuova e più profonda tenerezza egli si sentiva in cuore per lui. Non l’avrebbe più contraddetto, gli avrebbe lasciato correr la sua strada, per il meglio di tutta la famiglia, secondo che lo guidava l’ingegno, che vedeva tanto più lontano degli altri. E un altro pensiero consolante gli nacque dalla paura: quello di poterla infondere in altri. Quella sera stessa, al caffè Londra, avrebbe cominciato a mettere una pulce nell’orecchio a quei vecchi possidenti barbogi, amici suoi, così stupidamente sicuri di finire i loro giorni nella bambagia. E voleva far lo stesso con sua moglie, la quale con quel disprezzo aristocratico del popolo, con quella sua petulante fiducia nella sovranità fatale della borghesia, gli metteva in cuor suo un dispetto intollerabile. Quel giorno medesimo, infatti, egli attaccò con lei la prima scaramuccia intorno al grande argomento, esprimendo delle idee largamente umanitarie, dandosi per un uomo preparato a tutto, per il trionfo della giustizia sociale; e la scaramuccia finì in una battaglia.
In questo modo, da due parti ad un tempo, s’appiccò a casa Bianchini il fuoco della discordia.