Primo maggio/Parte prima/I
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Alle sette in punto il signor cavaliere Bianchini saltò giù dal letto e, affacciandosi alla finestra, ebbe due dispiaceri: vide che il cielo era tutto azzurro e che il muratore Peroni non era andato al lavoro. Questi se ne stava seduto, con la giacchetta sulle spalle, sullo scalino del suo uscio a vetri, in fondo al lungo terrazzino della casa bassa che formava un cortile triangolare con le due grandi ali dell’isolato. Diamine! Se festeggiava il 1° Maggio il Peroni, un operaio vecchio e tranquillo, c’era da credere che lo festeggiassero tutti gli operai di Torino.
Questo pensiero spiacevole fece dimenticare al signor Bianchini di esaminarsi il viso e la lingua allo specchietto per la barba, come faceva ogni mattina, compiacendosi della floridezza ammirabile, benché un po’ pingue, dei suoi sessant’anni.
Vestito che fu, uscì dalla camera, e udendo nella cucina una voce d’uomo che discorreva con le donne di servizio, si fermò ad origliare all’uscio socchiuso. Era il garzone panattiere, a cui Rosa, la cameriera, saldava il conto del mese, contando delle lire sulla tavola. Il giovane diceva: - Dell’argento?... Ah! sta bene, perché i biglietti... Presto ha da accadere qualche cosa di grosso, per cui i biglietti dei signori non varranno più niente. - La cameriera gli diede dello spaccone. Ma Antonia, la vecchia cuoca, biascicando le parole con voce acre, confermò la profezia. Fin dall’alba giravano per Torino pattuglie di fanteria e di cavalleria. Essa aveva inteso dire nelle botteghe che nella giornata del 1° Maggio sarebbero venuti in città i contadini, con le falci e i tridenti, ad aiutare gli operai, e assicurava che molte famiglie avevan fatto provvista di pane e di carne per tre o quattro giorni, in previsione d’una rivoluzione.
Il signor Bianchini tirò via, seccato. Erano due o tre giorni che quella vecchia ciaccolona riportava in casa tutte le più sinistre e strampalate pastocchie che sentiva dire in mercato, con l’evidente proposito di destare inquietudine nei padroni...
Il Bianchini andò nella sala da desinare, che aveva due grandi terrazzini, l’uno su piazza dello Statuto, l’altro sul corso Beccaria, e s’affacciò al terrazzino della piazza. Questa aveva l’aspetto solito di quell’ora: non c’era nessun capannello; coppie e gruppi di ragazzi s’avviavano alle scuole. Egli scrollò una spalla e disse: - Non seguirà nulla -. Poi, guardando con occhio sereno le Alpi azzurre, sorbì lentamente il caffè, che gli portò la cuoca. Era questo uno dei più vivi piaceri della sua vita. I suoi piaceri erano molto modesti. Una passeggiata igienica la mattina per i viali di piazza d’armi, leggendo la Gazzetta del popolo, due buoni pasti fatti con buon appetito, il vermouth, il sigaro Cavour, gli amici del caffè Londra la sera, quando non accompagnava moglie e figliuola in società o al teatro, e un buon sonno filato di otto ore: non gli bisognava a coronare la propria felicità; il cui fondamento era un affetto grandissimo, misto a una profonda ammirazione, che aveva per il suo unico figliuol maschio, Alberto, professore di lettere nel liceo Brofferio.
Preso il caffè, entrò nella stanza accanto, dov’egli aveva una piccola biblioteca, di cui non apriva mai un volume. Fu stupito di trovarvi già la sua figliuola, Ernesta...
- Ebbene -, gli domandò la ragazza, porgendogli la fronte, come soleva fare ogni mattina - che cosa accadrà quest’oggi?
- Che vuoi che accada? - rispose il padre - Un po’ di chiasso, tutt’al più.
- Non dovrà mica intervenire la truppa?
- E quando dovesse intervenire?... Suonan la tromba e tutti scappano, come in tutte le dimostrazioni. T’hanno lasciata quetare questa notte?
In quel punto entrò la signora Bianchini, alta e maestosa, già stringata nel busto, coi capelli tinti ben pettinati, con la sua larga faccia bruna ben depilata, mostrando i bei denti incisivi da un marengo l’uno. E rispose, entrando, alla domanda del marito: - Se ci hanno lasciato quetare?... È stato un chiasso indemoniato fino alle tre della mattina. Io non ho chiuso occhio. Non è possibile tirare avanti in questa maniera. È tempo che tu ci metta rimedio.
Alludeva al chiasso fatto sotto le finestre della sua camera, sul corso Beccaria, dov’erano due sedili di pietra in mezzo agli alberi, e vi si radunavano quasi ogni notte dei giovinastri brilli o briachi, che cantavano, ballavano, leticavano, senza che comparisse mai una guardia.
- Questa notte poi, - soggiunse, sogguardando la figliuola, che abbassò gli occhi -, c’erano anche delle donne, e si son sentiti dei discorsi... Insomma, se non ti decidi una buona volta a andar dal Questore, gli scriverò io!
Il Bianchini rispose che ci sarebbe andato; ma non quel giorno, di certo, perché in questura dovevano aver ben altro da pensare che agli schiamazzi notturni del corso Beccaria.
- Ah! giusto -, esclamò la signora, ricordandosi; - oggi è il 1° Maggio. Un altro regalo. - E dopo aver dato uno sguardo scrutatore alla piazza, domandò: - Ma, in conclusione, che cosa vogliono questi operai?
Il marito rispose che volevano ridotto a otto ore il lavoro giornaliero, per avere otto ore da dormire e otto ore di libertà.
- E che vogliono farne di queste otto ore di libertà? - domandò la signora.
Il Bianchini che, per antica abitudine, quando non aveva naturalmente un’opinione opposta a quella di sua moglie, fingeva d’averla, rispose, con l’aria di giustificar gli operai: - Oh bella!... Vogliono otto ore per star con la propria famiglia,... per coltivar lo spirito, istruirsi.
- E cosa ne voglion fare dell’istruzione? - domandò la moglie. Poi soggiunse: - Non hanno mica da fare i professori. Vorranno le otto ore per passarle all’osteria. Già, son tutti eguali. Io li giudico da quelli che passan la notte sotto le mie finestre.
- Eh, andiamo -, disse il Bianchini - non bisogna metterli tutti in un mazzo. Vedi il muratore Peroni, per esempio. È un ottimo uomo.
- Sarà un’eccezione, di certo. Del resto... ha una faccia scura. Non è rispettoso.
- Saluta -, osservò il Bianchini, con un sorriso; - è quanto si può pretendere. Non c’è ragione perché si sprofondi in scappellate - E arrotondò la bocca, come per zufolare.
La signora lo fissò con uno sguardo acuto e sprezzante, come faceva sempre quando s’accorgeva d’esser contradetta per proposito, e, troncata la discussione, andò sul terrazzino a guardare in su, per vedere se fosse alla finestra il suo nipotino Giulio, figliuolo d’Alberto, che abitava sopra di loro, al secondo piano. Suo marito andò a pigliare il cappello per uscire alla passeggiata solita. La ragazza, nell’anticamera, gli raccomandò di ritornar subito a casa se avesse visto degli affollamenti per le strade.
Sotto il portone il Bianchini incontrò l’ordinanza d’un maggiore medico, che abitava sull’altra scala, un piccolo calabrese nero, che portava il cheppì per traverso, un ameno originale...
- Buon giorno al signore! - gli disse questi sorridendo, e come avrebbe annunziato un allegro spettacolo, soggiunse: - Oggi, dunque, c’avremo la ribellione delli borghesi!
- Credete? - gli domandò il Bianchini.
- Ma! - rispose quegli - Pare che voglian tentare il saccheggio!
E tirò via, allegro, lasciando il Bianchini a masticare quelle due brutte parole: ribellione, saccheggio. Quando fu sulla piazza, voltandosi a destra, vide l’imboccatura del Borgo San Donato chiusa da una fila di soldati di fanteria, comandati da un ufficiale, davanti ai quali stavano in contemplazione una dozzina di donne e di ragazzi con le cartelle sotto il braccio. Anche questo gli spiacque. Si diresse verso via Garibaldi, interrogando il viso di tutti i passanti, che gli pareva avessero aspetto d’operai; ma erano i visi di tutti i giorni. Infilò corso Palestro. Gli fece piacere veder dei muratori che lavoravano alla porta del lavatoio pubblico, e si soffermò un momento a guardarli con occhio benevolo; poi accese un mezzo Cavour. In quel punto sentì una voce dall’alto che disse: - I signori, dopo che hanno mangiato, fanno una fumata. - Era un ragazzo muratore, ritto sopra una scala a mano, che aveva detto quelle parole per lui. Egli gli sorrise; ma quegli guardava già per aria. Tirò innanzi, meditando su quella satira, che gli parve un indizio. A malincuore. Gli rincrebbe di non aver avuto l’idea di offrire un sigaro a quel piccolo impertinente. Sboccò in via Cernaia: nulla di nuovo. Ma poco dopo vide passare di corsa quattro o cinque ragazzi, di cui uno disse: - Hanno dato fuoco a una fabbrica al Martinetto. - Diamine, la cosa si faceva seria. Ma pensò che non fosse vero. Correvano tante voci... Rimase però pensieroso. E gli venne in mente d’andare in cerca di qualche amico per avere la " parola della situazione " bisogno che sentiva in occasione d’ogni avvenimento pubblico: un’ " idea " di qualcuno, da far sua, una traccia per i suoi pensieri della giornata.
Giusto in quel momento vide sbucare dai portici di corso Vinzaglio l’ingegnere architetto Cambiasi, intimo amico del suo Alberto, il quale come ogni mattina veniva a prendere il tranvai da piazza Vittorio Emanuele per andare a vedere una casa in costruzione in Vanchiglia. Era un uomo d’ingegno, che pensava con la sua testa, che s’intendeva di tutto e aveva gran pratica d’operai.
Andò verso di lui. Quegli, appena lo vide, gli mosse incontro, agitando il suo gran corpo robusto, con passo giovanile. Era un bel colosso, con un bel faccione simpatico, un sorriso cordiale franco, ma due occhi astutissimi. - Come - gli disse - fuori di casa? Non ha paura della rivoluzione?
- Ah! giusto - rispose quegli - la rivoluzione... - e rise, scotendo le spalle. Ma era un uomo che non sapeva dissimulare, era un viso trasparente, a traverso a cui il Cambiasi lesse subito l’inquietudine.
- Crede lei che accadrà qualche cosa? - domandò il Bianchini giovialmente.
L’ingegnere si fece serio, fissando gli occhi sul muro della casa in faccia. Poi disse: - Non si può predire nulla.
Allora si fece serio anche l’altro.
- Certo, questa qui del 1° Maggio è stata una gran pensata. Per il socialismo è come il punto d’appoggio, che cercava Archimede... per sollevare la terra. E la mobilitazione internazionale delle forze operaie... Le par poco? ma questa commozione che c’è già da un mese nei governi, nella stampa, in tutto il pubblico, in attesa del 1° Maggio, è già una grande vittoria. Chiamano l’attenzione del mondo sulla quistione. La quistione delle 8 ore... da ridere! dietro la quistione delle otto ore, c’è il socialismo intero che s’avanza e minaccia. Comincia il periodo d’azione della collettività... l’entrata in linea del diritto universale... Caro Bianchini - soggiunse sorridendo, mettendogli una mano sulla spalla - siamo all’89 dei proletari!
Il cavalier Bianchini corrugò fortemente le sopracciglia, per fingere d’aver capito. Poi disse:
- Capisco. Ma oggi, cosa crede lei che avverrà?
- Oggi - rispose, reprimendo un sorriso che gli distorse quella straordinaria serietà - oggi ... Una rivoluzione no, di certo. Le rivoluzioni a data fissa sono sogni: lo ha detto anche Bismarck. Sono le rivoluzioni che rendono celebri le date; non le date che fanno le rivoluzioni celebri. Possono seguire disordini... anche gravi... questa sera; ma non tali da mettere in pericolo la società, si capisce. Quello che è grave, quello che mi sconcerta, è che questo 1° Maggio non andrà più giù, e che sarà ogni anno più serio. Vede, ci son mille ragioni per cui il movimento deve crescere; nessuna perché debba diminuire. - E dicendo questo lo fissò negli occhi, arricciandosi un baffo.
Il Bianchini fece un cenno d’assenso col capo. Ma la risposta non lo soddisfaceva ancora. - Ma lei che ha conoscenza d’operai, che cosa intendono di fare?
- E chi lo può sapere?... Egli ce n’aveva sei o sette socialisti, che avevano simpatia e fiducia in lui, e gli esponevano apertamente le loro idee, che egli ribatteva apertamente. Ma le idee, non le intenzioni! Per esempio, su quel che avessero architettato di fare il 1° Maggio, non s’erano lasciati uscire una sillaba, benché fossero certi che in nessun caso egli l’avrebbe riportata. I socialisti - disse - staranno cheti -, chi tenterà un colpo saranno gli anarchici. Ah! egli ne conosceva uno, un operaio metallurgico, un tipo! Un gran diavolo d’anarchico, una faccia... C’eran secondo lui, certe faccie che incarnavano certe quistioni: ebbene: la faccia di quello era la quistione sociale con la fronte, gli occhi, il naso, la bocca. Un viso su cui sfolgorava un’idea unica, una convinzione irremovibile, un’audacia fanatica: la risoluzione d’un uomo pronto ad agire, a morire domani, oggi, in qualunque momento, anche senza alcuna speranza, col solo scopo di dare un esempio... Ebbene costui, era da vari giorni in uno stato d’eccitazione straordinaria... ma muto come un pesce, si capiva che macchinava qualche cosa... Se qualche cosa segue - disse - son certo che è fatto suo. Ecco il tranvai. Mille saluti a tutti. - E di sul tranvai, diede un’occhiata furtiva al Bianchini rimasto pensieroso sul marciapiede.
Poi riprese giù per via Cernaia, col capo basso. Un nuovo ordine d’idee gli s’apriva. Fino allora egli non aveva annesso a quella parola socialismo che un’idea confusa d’un pericolo indeterminato e remotissimo. Ma ora che c’era un giorno fisso, che sarebbe ritornato ogni anno, quell’idea gli s’avvicinava straordinariamente. Egli vedeva davanti a sé, con infinita modestia, una lunga serie di primi maggio, l’uno più tumultuoso e più minaccioso dell’altro, e questo lo spaventava, non per viltà d’animo, ma per il suo immenso amore della pace e per le dolci soddisfazioni dello status quo che era abituato a considerare come assicurato per tutta la vita. La sua immaginazione correva subito agli estremi: vedeva la sua casa di San Salvario, frutto di tanti risparmi, occupata a forza da operai che non pagavano; la sua cascina venduta all’incanto, a pezzi; le sue cedole ridotte a carta straccia. E allora? Non ci sarebbe stato che un rimedio eroico, vender tutto, andar all’estero... Ma dove? Questo nuovo pericolo aveva anche questo di unico e di terribile che era universale, che lo avrebbe trovato eguale, forse maggiore, in qualunque altro paese d’Europa si fosse rifugiato. Tutto il mondo n’era infetto. Egli aveva inteso dire che di tanto in tanto partivano masse enormi da Ginevra, da Parigi, da Londra, da Nuova York, diretti a ogni parte, manifesti internazionali in tutte le lingue, eccitanti nei termini più violenti il proletariato a sollevarsi... Era come trovarsi in mezzo a un cerchio di fuoco. A questa bella prospettiva dovevano condurlo 58 anni di vita onesta, laboriosa, di buon impiegato, di buon padre, di cittadino integro? - E con questo pensiero compì la sua passeggiata solitaria intorno a piazza d’Armi vecchia.
Ritornando verso casa, non vide per le vie nulla di nuovo, fuorché qualche pattuglia di cavalleggieri, che passavano, guardando intorno con aria annoiata. Ma un angolo di piazza Solferino, intese un giovine operaio a crocicchio con dei facchini, il quale si vantava d’aver detto ai soldati, non si sa dove: - Tirate, se siete buoni!... E non han mica avuto coraggio di tirare! - Era dunque seguito già qualcosa di serio? Entrò in casa di malumore e salì difilato al 2° piano, dal bisogno di avere "una parola sulla situazione" da suo figlio. Gli aperse la nuora, la cui bellezza fresca e placida lo metteva sempre di buon umore. Ma il figliuolo ci aveva nello studio due professori del Liceo.
- Tornerò -, disse il padre. - Cosa dice Alberto del 1° Maggio?
- Non saprei - rispose sorridendo - non ne parla, non ne vuol nemmeno sentir parlare.
- Già -, disse il padre - ne sarà seccato anche lui. Egli è tutto nella letteratura. E il papà?
La ragazza sorrise - Oh il papà... - disse a bassa voce. - L’ho visto ieri sera. È terribile!
Gli spiacque: se un uomo di quella levatura era irritato, la causa doveva essere importante.
Bianchini scese a far colazione, e appena scambiò qualche parola con la moglie e la figliuola, che gli parlarono del 6 maggio, l’anniversario del loro matrimonio, che da molti anni solevano festeggiare ogni anno, invitando parenti ed amici a un piccolo trattenimento: la signora ci teneva. Soltanto si scosse sulla fine a una delle solite fiabe che raccontò la vecchia serva mettendo in tavola le frutte. Raccontava d’aver inteso dire da una donna delle soffitte, che bisognava sprangar bene gli usci, perché da un po’ di giorni entravano nelle case delle faccie terribili, che pigliavan la gente pel collo, e dicevano: - O sei socialista con me, o ti faccio la pelle! - E bisognava farsi socialista per forza. Il Bianchini andò in collera - Eh! finitela una volta con le vostre sciocchezze! - le gridò. E quella tacque, ma sentirono il suo brontolio minaccioso nell’anticamera. La signora rimproverò il marito: non erano quelli i modi: la serva poteva prender cappello e piantarli lì su due piedi. - Oggi tu hai i nervi -, gli disse -, faresti bene a andare a passar un’ora col signor Moretti.
- Lo credo anch’io. - È l’unica persona di buon senso che stia in questa casa - rispose, e s’alzò!
Il Moretti stava al 3° piano. Era un vecchio celibe, ispettore della dogana giubilato, sano e allegro come un ragazzo, vecchio amico di casa, e ugualmente simpatico alla signora perché era un adoratore, un servitore nato del bel sesso, e al marito, per il suo ottimismo roseo come il suo viso, che armonizzava con l’indole di lui, e per l’abbondanza dei disegni, progetti, riforme, fantasie politiche, economiche, sociali, amministrative, che pullulavano continuamente nel suo cervello disoccupato di pensionato. Il Bianchini andò a fare la sua siesta obbligata, e poi uscì per andarlo a cercare al caffè delle Alpi, dove andava ogni giorno a leggervi i giornali verso le tre.
Per le strade cominciava a raffittire la gente; ma non c’erano ancora attruppamenti. Si sentiva qualche cosa per l’aria. Ai crocicchi, tutti guardavano nelle quattro direzioni come se aspettassero di veder comparire una dimostrazione in fondo a ogni strada. Egli fece un giro. Davanti alle due caserme di via Garibaldi e di via del Carmine v’eran degli ufficiali in cheppì e sciarpa. Nei cortili v’eran dei fasci d’arme, e formicolavano di soldati. Il pensiero della vicinanza di quelle due caserme a casa sua, tranquillò il Bianchini. Il caffè delle Alpi era più popolato del solito. Appena entrato nella seconda sala, vide in un angolo gli occhi azzurri e il viso rosato del Moretti, incorniciato nella barba bianchissima, che pareva di cotone.
Questi lo salutò col suo sorriso giovanile, e se lo fece seder vicino. Poi disse: - Crispi ha torto. Non doveva proibire la dimostrazione, che sarebbe stata uno sfogo, una cosa imponente, bella. Mal fatto, mal fatto. Gli operai s’offendono a vedersi trattare come nemici. Appena vogliono manifestare un’idea, anche con le più oneste intenzioni, fuori fanteria, fuori cavalleria, fuori artiglieria... Eh, che diavolo! È la paura che provoca i disordini.
- Crede lei che seguirà qualchecosa?
- E che cosa vuol che segua?... I nostri operai hanno buon senso. La maggior parte son padri di famiglia; han tutt’altro pel capo che le chiassate. Il popolo è buono. Veda nelle rivoluzioni. Son sempre borghesi spostati quelli che spingono alle violenze. S’è visto durante la Comune. Il concetto del 1° Maggio è pacifico. Non ci sarà nemmeno un vetro rotto.
Il Bianchini si sentì riconfortato. Ma gli rimanevan dei dubbi - Eppure - disse - del malcontento ce n’è, non si può negare.
- È un bene che ci sia -, rispose il Moretti - dove non c’è malcontento non c’è progresso. - Rimase un momento sopra pensiero: poi disse alla sfilata, in fretta: - Bisogna rialzare l’agricoltura, risanare i terreni paludosi, dissodare le terre incolte; bisogna fondare delle banche d’assicurazione del prodotto del lavoro; bisogna modificare la legge di successione, caro signor Bianchini... Bisogna fondare delle case da thè per gli operai, come in Inghilterra, mettere i teatri a buon mercato... istituire delle centinaia di biblioteche popolari circolanti...
In quel punto fu interrotto da un rumore per la strada: guardarono tutti e due per la finestra e videro passare un uomo, che pareva un operaio, ammanettato, pallido, col viso alto, in mezzo a due carabinieri, seguiti da molta gente.
- Vede se non cominciano i disordini! - disse il Bianchini, alzandosi.
- Sarà un borsaiolo - rispose il Moretti, rattenendolo. Ma il Bianchini s’accomiatò, voleva tornare a casa, per tranquillizzar la famiglia, se fosse seguito qualche cosa in piazza. Il Moretti uscì con lui; ma lo lasciò all’uscio, dovendo andar da Rossi a prender delle scatole di conserva; perché era ghiotto, al corrente di tutte le salse e conserve nuove, e ne aveva in casa un magazzino.
Il Bianchini rimontò verso piazza Statuto. La gente era raffittita ancora, i bottegai erano sugli usci, molti curiosi alle finestre, senza che nulla giustificasse la cosa. Tutti si guardavano a vicenda, e intorno. C’erano crocchi di donne e ragazzi alla cantonata. Si sentiva come un ronzio diffuso. Circolava la vita ordinaria, ma rallentata e come distratta da un’aspettazione. Ogni più piccolo rumore, come il grido d’un ragazzo, una persiana sbattuta con violenza, faceva voltare cento visi. Ma non si vedevan gruppi d’operai da alcuna parte: ciò che fece piacere al Bianchini. Sbucando nel corso Palestro, vide avanzarsi a destra, lentamente, un plotone di cavalleggieri, comandato da un ufficiale, che s’avviava verso piazza dello Statuto, seguito da molti ragazzi. Lo seguì egli pure, e, entrando nella piazza, vide in fondo, sul ponte della ferrovia, dove sbocca il viale di Rivoli, un gruppo di circa cento tra operai, ragazzi, curiosi, tutti immobili e rivolti verso la città, come se aspettassero qualcuno, e tranquilli, come se si fossero assembrati col solo scopo di farsi sciogliere. Stette in distanza a osservare. Quando furono davanti al gruppo, i soldati spronarono il cavallo in varie direzioni, e la folla si sparse spontaneamente, rompendosi in vari gruppi, verso i quali di nuovo si mossero i cavalieri, e allora la gente si sparpagliò per la piazza e pei viali, a passo lento, senza mormorare, parte malcontenti, parte ridendo. Quel modo di sciogliersi gli parve di buon augurio: così si sarebbero anche sciolti la sera. Il Moretti aveva forse ragione.
Quando fu davanti a casa sua, vedendo sul terrazzino il Geri, figlio del padron di casa, che stava accanto a lui, sullo stesso piano, affrettò il passo. Quello lì, uomo d’affari mescolato nella finanza, nel giornalismo finanziario, nell’industria, sempre in giro per Torino, doveva essere in caso di dargli delle notizie e delle idee. Erano molto in relazione, dopo che un suo figliuolo, entrato nel ginnasio Brofferio, era scolaro del suo Alberto.
Salito, intese dalla cameriera che quella sera sarebbe scesa a desinar con loro la nuora, perché il signor Alberto era andato a pranzo con amici. La signora e la signorina erano in saletta colla signora Cambiasi.
- A pranzo fuori questa sera! - disse tra sé il Bianchini - Gli pareva una sera mal scelta. - Che idea!... Un’idea da letterato. - E si diresse al terrazzino, per parlare col Geri, al quale, tendendo il braccio, avrebbe potuto quasi stringere la mano, poiché i due terrazzini eran vicinissimi.
- Ebbene - gli disse sorridendo - siamo nei migliori posti per goder la rappresentazione. Pare che sarà una rappresentazione pacifica.
Il Geri scrollò il capo in atto dubitativo, guardando la piazza, dove giravano gli elementi sparsi d’una folla, che pareva si cercassero, senza volersi ancora riunire. Alto, secco, un po’ curvo, con un lungo naso aquilino che terminava in una punta acuta, con un viso pallido e un po’ logoro per i suoi trentott’anni, torcendosi i baffi acuminati con una mano nervosa, egli aveva l’aria d’un ufficiale di cavalleria in borghese... Un’espressione vaga di disprezzo ch’era sempre nei suoi occhi chiari e freddi, ingrandiva nel Bianchini il concetto che egli aveva della forza del suo carattere, benché sapesse che tra lui e suo figlio non c’era simpatia.
Il Geri finì con rispondere: - Non sarà una dimostrazione pacifica. Sono due mesi che quel velenoso giornaluccio la Quistione Sociale stuzzica tutta questa gente...
Il Bianchini, che non conosceva quel piccolo giornale settimanale che per averlo visto appeso dai rivenditori, si mostrò incredulo. - Ma se non lo legge nessuno! - esclamò. Chi sa che esista la Quistione Sociale?
- Gl’interessati del partito lo leggono - rispose l’altro - d’altra parte una quantità d’altri giornaletti socialisti provenivano a Torino da varie città d’Italia; ne venivano anche di Francia. - E masticò delle parole acri contro l’avvocato Rateri, direttore della Quistione, un mascalzone, uno dei tanti spostati ambiziosi, che miravano a farsi una carriera pubblica perché non erano riusciti a farsene una privata. E quell’altra avventuriera di Maria Zara.
- Lei crede dunque che ci saranno dei disordini seri? - domandò il Bianchini.
- Appena notte -, rispose il Geri - perché costoro hanno tutto l’interesse a non esser riconosciuti. E li lasceranno fare. La truppa si lascerà, al solito, insultare e prendere a sassate per due ore filate. - L’esercito, secondo lui, non era atto a questi servizi. Per la repressione di quel genere di disordini egli avrebbe voluto che si istituisse una milizia borghese, armata di fucili perfezionati; la quale non avrebbe fatto tanti complimenti. Si era visto come nel Belgio la guardia nazionale aveva ristabilito l’ordine, nel grande sciopero del 1885.
Il Bianchini non rispose, occupato a osservare un brigadiere di P.S. con due agenti che faceva sciogliere un gruppo formatosi all’entrata del piccolo giardino del Meridiano. Quando fu sciolto, mise un respiro. Poi domandò: - E il papà che cosa ne pensa?
Il Geri sorrise. - Oh il papà - disse - lei lo deve sapere. Ha sempre la sua idea fissa: Malthus, il celibato, l’amplesso preventivo. Non c’è altro mezzo di salvare il mondo. Tutti i mali derivano dalla moltiplicazione. Vorrebbe stabilire un premio per i celibi. Quando vede passare per la strada una coppia con cinque o sei figli, si mette di malumore.
- Eppure c’è del buono nell’idea - osservò il Bianchini, tenendo d’occhio la piazza.
- Bah! Non si può mai entrare nella testa del popolo. Il popolo non segue che l’istinto. Non ci sarebbe che l’evirazione, come la praticano gli Skoptzy in Russia, obbligatoria, però.
Mentre il Bianchini rideva, il Geri fu chiamato di dentro. Lo salutò, e gli disse andandosene col suo sorriso sarcastico: - Se assaliranno la casa, conto sul suo concorso per una difesa eroica.
Il Bianchini rise forte, ma di mala voglia, pensando alla sua casa di San Salvario. Ma era troppo fuori di mano... Andò a salutare la signora Cambiasi nel salotto, dove erano pure la moglie di suo figlio e il ragazzo.
La signora Cambiasi, una stupenda bruna di trentasette anni, che ne mostrava molti di meno, con due splendidi, dolci, ridenti e ingenui occhioni neri, grassissima, schiattante di salute e di buon umore, si mise a ridere - per sospetto d’esser canzonata - quando il Bianchini s’offerse d’accompagnarla a casa, pur di non correre pericolo per la strada. Il Bianchini dovette spiegarle che non era uno scherzo; ed essa rise più forte. Ah! il 1° Maggio - sì - n’aveva inteso parlare. Era la festa degli operai; ebbene che c’era da temere? No?... Volevano otto ore di lavoro. - Ebbene -, disse ingenuamente - perché non li contentano, poveretti? A me spiace quando s’ubbriacano, ma quando son sul lavoro, che fanno colazione, discorrendo, alle volte hanno delle uscite così comiche! - L’autunno scorso in campagna, dove fabbricavano un villino accanto a casa sua, s’era divertita un mondo di dietro alle persiane, a sentire la conversazione dei muratori. C’eran dei tipi!
Ma l’offerta del Bianchini le ricordò che era ora d’andare a casa, d’onde mancava da tre ore, e i suoi cinque figliuoli dovevano aver messo tutto sossopra. S’alzò, e sentendo un ronzio forte nella strada, s’avvicinò alla finestra, esclamò allegramente: - Tò! I bersaglieri.
Il Bianchini accorse: c’era una compagnia di bersaglieri schierata, di cui si vedeva spiegare l’ala destra da via del Carmine. I soldati erano al riparo. Gli ufficiali passeggiavano in corso Beccaria, dove s’era radunata molta gente.
Nell’anticamera, la signora disse alle amiche: - Fortunate voi altre che state qui, che potete veder qualche cosa! Noi stiamo in quel deserto di corso Vinzaglio, dove non accade mai nulla.
E rise ancora di cuore sul pianerottolo dicendo che andava ad attraversare la rivoluzione.
Malgrado tutto, il Bianchini si mise a tavola di buon umore, perché quello era sempre per lui il momento; perché non era né un goloso, né un beone, ma gli piaceva mangiare e ber bene, e a ciò lo servivano gli organi ottimamente. E poi gli faceva sempre piacere aver a mensa la nuora, che amava, e il nipotino, che il suo Alberto adorava. E la nuora non gli piaceva soltanto perché bella; colta, un carattere buono, sano e amabile come il suo; ma perché era figlia di suo padre. Il Commendatore Dondéro, ex-deputato, ricco, autore di opuscoli su quistioni tributarie, in procinto da quindici anni d’esser nominato senatore, che rappresentava per lui, modesto proprietario ed ex-impiegato oscuro e di molto circoscritta intelligenza, una grandezza sociale a cui non s’erano mai alzati nemmeno i sogni della sua ambizione giovanile, egli lo ammirava e lo venerava con una sorta di timidezza rispettosa, che gli dava quasi l’illusione di amarlo, benché fra i loro caratteri ci fossero molte e profonde disparità che non avevano lasciato stabilire tra di essi una vera dimestichezza. Certo egli aveva tal concetto e amore del suo figlio, che non considerava la figliuola del Dondéro punto superiore ai suoi meriti: una principessa non le sarebbe parsa tale; ma pure il sentimento che aveva per il padre si rifletteva un poco anche sulla figliuola, a cui dimostrava un rispetto, dei riguardi più che parenteschi, quasi ossequiosi.
Cominciarono a mangiare col buonumore solito, benché il ronzio crescente di sotto indicasse che la folla andava crescendo. La moglie di Alberto raccontò che, due ore prima, dalla sua finestra, avendo interpellato con un certo telegrafo ottico convenuto fra loro la signora Luzzi che stava nella casa in faccia a piazza dello Statuto, se quella sera sarebbe venuta a tenerle compagnia, come aveva promesso, questa le aveva risposto: - Interdizione superiore. E tutti s’esilararono, perché quella interdizione, si capiva, era del signor Luzzi, un buon uomo a cui il più piccolo disordine pubblico faceva l’effetto d’un cataclisma della natura.
Era già quasi buio, nella piazza s’accendevano i fanali del gas.
Ma la signora Bianchini era un po’ in pena per il figliuolo, che poteva capitare a tornar a casa fra i disordini. - Che idea d’andare a desinar fuori il primo di Maggio!
- Oh! - disse la signora, con la sua voce placida e con compiacenza - Alberto non ha paura di nulla.
E questo diede occasione al Bianchini di farne gli elogi: era stato coraggioso sempre; fin da ragazzo non aveva mai avuto paura né di buio, né di spettri, non s’era mai lasciato fare un sopruso dai suoi compagni, non aveva mai indietreggiato davanti a pericoli: pareva che ogni idea di pericolo facesse scattare dentro di lui una molla, che lo faceva accorrer per il primo, come se fosse stato chiamato per nome.
- Quando il coraggio ha uno scopo - osservò la signora Bianchini - sta bene... Ma cosa serve contro una massa di gentaglia infuriata... che gli può fare un brutto tiro a tradimento, soltanto perché è ben vestito?
- Gentaglia! - disse a mezza voce suo marito. Egli non aveva spirito democratico; ma l’udir designare il popolo basso con termini abitualmente spregiativi lo urtava.
Sua moglie lo fissò.
- Cosa diresti tu? - domandò.
- Io?... Io dico: povera gente.
- Senti la tua povera gente! - ribatté con accento vittorioso la signora.
Una urlata clamorosa, sgangherata, di mille voci, s’era alzata da corso Beccaria. La signorina richiamò in fretta il ragazzo ch’era accorso alla finestra del terrazzino.
- Fanno l’urlata ai bersaglieri! - disse il ragazzo tornando a tavola.
- Che canaglia! - esclamò spensieratamente il Bianchini, indignato.
- Ah! vedi dunque! - esclamarono a una voce la moglie e la figlia, in aria di trionfo.
La signora Giulia s’alzò, inquieta. - Mi pare che qui siamo troppo in vista. Vedono due grandi finestre rischiarate, al primo piano... Potrebbero tirar dei sassi. Se chiudessimo le imposte?
La figliuola corse a chiudere le imposte della finestra sul corso Beccaria, dicendo: - Che bei mascalzoni! Insultare i militari! Che cosa ne possono loro?... - E dopo aver prestato l’orecchio per lo spiraglio alle grida: - Se sentiste i vituperi che dicono!
In un altro momento, il Bianchini sarebbe già stato turbato. Ma il piacere di nutrirsi in abbondanza, e le libagioni copiose che faceva ogni giorno a tavola, proponendosi ogni giorno di moderarsi il dì dopo, gli davano un’esaltazione, che teneva lontana la paura. E infatti, con occhio intrepido, dal suo posto, egli guardava l’estremità opposta della piazza formicolante di gente.
La conversazione durò un altro poco, interrotta a quando a quando da uno scoppio d’urli, di voci squarciate, di fischi, fra cui si distinguevano qua e là delle insolenze articolate: - Plandrun! - Mangiapani a tradimento! - Abbasso i cappelloni!
A un certo punto, la signora Bianchini ebbe uno slancio d’indignazione: - Ma perché non spazzano la strada a colpi di fucile!
Intanto il ragazzo era corso alla finestra rimasta aperta sulla piazza, e improvvisamente disse: - Tirano delle pietre!
Tutti balzarono in piedi. - Bisogna chiuder le persiane! - esclamò la signora Bianchini. La signorina premette con forza il campanello elettrico nel muro. La cameriera e la cuoca accorsero in furia. In quel punto si sentì sotto le finestre della piazza un fragore di vetri rotti. - Hanno rotto un lampione del gas! - gridò il ragazzo. - Chiudete le persiane! - gridò Bianchini. - E Alberto che è fuori! - esclamò la signora Giulia girando affannata per la stanza. Nello stesso momento intesero un colpo forte nella persiana della sala, ch’era attigua alla camera da pranzo. - Ma tirano anche a noi! Rosa - gridò la signora Bianchini spaventata -, le persiane della sala subito! - Rosa corse. Antonia si lanciò nella stanza da lavoro delle signore. Altri vetri di lampioni caddero nella piazza con grande fragore, un’altra sassata urtò nella balaustrata del terrazzino della stanza da pranzo. - E ora, che cosa accadrà? - gridò la signorina spaventata. Tutte tre le signore si lanciarono nella camera da lavoro che era la più lontana dal corso Beccaria, spensero i lumi, e s’avvicinarono tremando alle persiane della finestra di destra. Bianchini mandò Rosa ad assicurarsi se era chiuso il portone di casa, corse a quella di sinistra, e lo spettacolo che vide gli diede un senso di freddo acuto dalla testa ai piedi, come se gli avessero versato sulla nuca una brocca d’acqua ghiacciata.
La folla tumultuante faceva nero tutto lo spazio intorno alla rotonda del Meridiano; la piazza era chiusa da compagnie di fanteria; il corso San Martino da una doppia schiera di cavalleggieri; i bersaglieri chiudevano il corso Beccaria; gruppi di carabinieri e di guardie di polizia a tutti gli angoli; e dietro alle masse scure e silenziose delle truppe, di cui scintillavano qua e là le uniformi e le baionette al lume dei lampioni, la piazza e i viali eran solitari, i portici deserti, le botteghe chiuse, le case senza lumi, cieche e mute come corpi abbandonati. La città, dalla parte delle truppe, pareva morta. La folla, in alcuni punti folta, in altri rada, fluttuava, avanzando e retrocedendo a vicenda, lanciando sassi, che non si vedeva dove andavano a cascare, emettendo urli da selvaggi, fra cui si distinguevano grida d’incitamento e di comando: - Sotto figliuoli! - Forza ai vetri! - Coraggio! - Una voce altissima e quasi lamentevole gridò: - State in guardia! - Nel frastuono si continuava a sentire fragorii di fanali spezzati. Delle forme nere si chinavano a raccoglier pietre per terra, tenendo il viso alto, per non perder d’occhio la truppa. Altri giravano rapidamente, come per diffondere una parola d’ordine. I più avanzati parevano i più giovani, fra cui c’eran dei ragazzi. Tutta quella massa aveva delle mosse brusche, strane, come delle scosse che ricevessero tutti ad un punto, come se fosse agitata dagli scossoni d’una febbre violenta. E davanti a quella agitazione furiosa, pareva più terribile, più solenne l’immobilità impassibile delle truppe lontane, che chiudevan tutte le vie davanti come muraglie viventi.
Il Bianchini si ritirò dalla finestra, profondamente agitato. I lumi erano stati spenti; ma un po’ di chiarore del vicino lampione della luce elettrica entrava nella stanza. A quel chiarore egli vide la figliuola e sua moglie sedute in un angolo, mute, tenendo per mano il ragazzo. La sola signora Giulia rimaneva alle persiane, esclamando di tratto in tratto con affanno: - E mio marito ora? E Alberto? Come farà a tornare, Dio mio!
- Il Bianchini cercò d’acquetarla, profittando della semioscurità che non lasciava vedere il suo viso pallido; ma la sua voce tradiva il suo turbamento.
- Ma perché non fanno fuoco! - esclamò la signora Bianchini, con voce quasi di pianto. - La canaglia è dunque padrona di Torino, adesso!
Questa volta suo marito non pensò più a ribatter la parola. Tornò ad avvicinarsi alla persiana. La folla urlava sempre più, e gli parve che avanzasse. Si sentivano suonar delle trombe. Egli guardò quelle file nere dei soldati, e provò per loro un sentimento profondo d’amore e di pietà. Ma insieme lo assalse un vivo terrore a pensare che tra quella folla furiosa di rapina e la città, e l’ordine sociale, e gli averi di tutti, non c’erano che quelle poche file di giovani armati, stanchi dalle fatiche di tutta la giornata, forse digiuni da molte ore. Gran Dio! Per distruggere ogni cosa non c’era che a superare quel piccolo baluardo di forze umane! Egli avrebbe voluto vedere un apparato formidabile, degli interi corpi d’armata, dei fossati enormi, delle mura granitiche sorte per incanto. Pazzi feroci! Bruti insensati! Perché non se la pigliavano coi loro padroni, con quelli che li sfruttavano, con quel signor Ferreri, per esempio, che stava all’angolo della stessa casa, un appaltatore che s’era fatto dei millioni col lavoro degli operai? - Perché minacciavano e facevano tremare lui pure, che aveva servito lo Stato tant’anni, per un modesto stipendio e che non aveva mai messo sul lastrico un inquilino delle soffitte, nella sua casa di San Salvario? Chi aveva sfruttato lui? Non aveva sempre rispettato e amato gli operai? C’era forse un soldo del suo patrimonio che fosse stato estorto a qualcuno? E, preso da un moto più forte d’allarme, di paura, cercando con gli occhi gli ufficiali a cavallo che vedeva circolar fra le truppe, disse loro in cuor suo: - Ma movetevi dunque! Ma liberateci una volta da questa tortura dell’inferno!
E, vedendo che non si muovevano, si staccò dalla finestra e cominciò a camminar per la stanza a passi concitati. Non era ancor giunto in fondo che sentì un colpo di fucile, e poi subito una grandinata di colpi, che risonarono nella piazza con un fracasso tremendo. Le signore gettarono un grido. Egli si lanciò alle persiane e vide la folla fuggire disperatamente verso San Donato e il viale di Rivoli, urlando e imprecando, tutti curvi, piegati in due, come per fuggire alle palle. Credette a una strage, gli parve sentir delle grida di feriti, cercò per la piazza se vedeva della gente stesa a terra, si sentì gelare il sangue nelle vene. Ma non vide né feriti né morti: dovevano aver tirato per aria. Vide tutte le truppe avanzarsi, mandando baleni dalle baionette. Vide passare sotto le sue finestre, a corsa rapidissima, una compagnia di bersaglieri, e osservò l’ufficiale che era alla testa, grasso, colla sciabola in pugno, che pareva impacciato nella corsa dal mantello. Dei carabinieri e delle guardie seguivan correndo le truppe, e sparando colpi di pistola. Egli notò i lampi del fuoco diretti in alto, quasi verticali. Delle grida violente di rimando s’intesero di sotto la casa: - Via! Via! Via! - Più lontano vide avanzarsi la massa - Poi un rumore pesante di passi di corsa: un gruppo di fanteria passava per i giardini della casa per prendere di fianco la turba.
Dopo non si vedeva più un dimostrante da nessuna parte. Il Bianchini mise un gran respiro, si tirò indietro dalle persiane e si trovò seduto sopra una seggiola in mezzo alla stanza, dove gli giunse all’orecchio, misera consolazione, lo scalpitio d’una massa di cavalli, e la voce limpida d’un ufficiale che gridò: - Aaaal trotto!
Allora disse forte: - Potete riaccendere i lumi, che diavolo!
Si accesero i lumi. La signora Bianchini e la figliuola stentavano a rimettersi dallo spavento. Anch’esse avevano creduto che si fosse tirato a palla. Ma il Bianchini, con aria d’intenditore, disse che s’era accorto subito che no, non avendo sentito i colpi delle palle nella facciata della stazione di Rivoli. - Ah! - esclamò la signora Bianchini - speriamo che ora ne facciano una buona retata! Scellerati! Che momenti ci hanno fatto passare! - Le donne di servizio accorsero ansiose a domandare se c’erano stati dei morti - Ma che morti! - disse con disprezzo il padrone; e domandò con gran tenerezza al ragazzo, carezzandolo, se aveva avuto paura. La signora Giulia tornò ad angustiarsi per suo marito, esclamando: - Ma che giudizio, ma che cuore, a farmi stare in pena in questo modo! Ma come farà a tornare a casa!
- Ma se ora è tutto finito! - disse il Bianchini. Non di meno la nuora volle tornare in casa, per riveder suo marito subito, caso che, sul ritornare, non fosse passato da suo padre, per andarla a tranquillizzare immediatamente. Il Bianchini l’accompagnò fino all’uscio, e pregò la nuora d’avvertirlo con tre colpi sul solaio della sua stanza, quando Alberto fosse rientrato. Poi tornò in casa a finir la bottiglia sulla tavola non ancora sparecchiata.
Un’onda di parole gli uscì dalla bocca; aveva un’allegria nervosa, attraversata ancora a momenti da lampi di timori, che gli facevan tendere l’orecchio verso la piazza, aveva bisogno di esprimere le sue impressioni; ma taceva la più forte. Era pieno d’ammirazione per la condotta della truppa; gli erano parsi stupendi i bersaglieri; diceva che lo spettacolo di tutte quelle vie deserte, chiuse dalla forza, in quell’oscurità, in quel silenzio, aveva "qualche cosa di grandioso". La signora, dalla finestra, l’interruppe dicendo: - Tutto il marciapiede è coperto di vetri: non c’è più un lampione intero. Che barbara gente! Che malvagia canaglia! - Ma il Bianchini non approvava quel giudizio. Svanito il pericolo, egli inclinava all’indulgenza per gli operai, come per annegare in essa quel po’ che gli rimaneva di paura.
Eh! - disse - vanno compatiti, anche loro... In somma, per 364 giorni dell’anno stanno queti... Potevano far di peggio.
La signora lo zittì vivamente.
- Ah! Non ti basta?... Ebbene; faranno di peggio l’anno venturo, non dubitare.
Quella risposta lo raffuscò. Egli aveva quasi dimenticato che quel 1° Maggio era il primo; ma non l’ultimo. E si turbò di più quando l’Antonia, sparecchiando, sospirò: - Basta, qui è passata. Ma chissà cosa sarà seguito nelle altre parti di Torino!
Il Bianchini s’alzò inquieto, e andò nell’altra stanza, sul terrazzino a destra. La piazza presentava il medesimo aspetto di poco prima: le truppe immobili, le vie, i portici deserti. Solo c’eran varie finestre delle case rischiarate. Mentre stava osservando, si sentì chiamare. Era il Geri figlio, sul terrazzino accanto. Era allora rientrato in casa, aveva visto tutto d’in fondo alla piazza.
- Ha veduto? - disse al Bianchini con la sua rabbia fredda e sorridente, - non manca più che delegati e ufficiali si lasciassero sputare in faccia a uno a uno. Delle autorità che si lasciano malmenare a quel modo, meritano tutto. È una vigliaccheria che fa stomaco; che incoraggia e giustifica la rivolta.
E disse che in via Garibaldi avevan fatto di peggio, ferito dei soldati, accoltellato delle guardie, saccheggiato delle botteghe, tentato d’invadere delle case.
- Avremo il resto domani -, concluse. - Ma non è finita neppure questa sera. Credo che si battano in fondo al borgo San Donato... Ma io vorrei che appiccassero il fuoco ai quattro canti di Torino, per vedere se il Governo si sveglierebbe.
E prima che il Bianchini riuscisse a spiccicare le labbra, gli diede la buona notte, e rientrò.
Il Bianchini rimase tristo e sgomento. Aveva avuto fino allora una serie di alti e bassi di coraggio e di timore; ma dall’impressione di quelle ultime parole sentì che non si sarebbe più liberato. Il sentimento della precarietà dello stato delle cose, del governo, della sua fortuna, gli entrò e gli crebbe nell’animo e gli montò la fantasia con una forza tutta nuova in quel silenzio severo della notte. Precorse gli anni col pensiero, vide le strade di Torino insanguinate, i palazzi fumanti, tutte le forze legali disciolte, la moltitudine padrona di tutto; si vide ridotto povero -, errante per le vie - minacciato da pattuglie armate d’operai avvinazzati -, costretto a chiedere asilo e un pezzo di pane al muratore Peroni... Poi si riscosse da quelle fantasie come da un sogno orribile, andò a dar la buona notte alla moglie e alla figlia, e poi entrò nella sua camera per andar a letto. Guardò per le vetrate la finestra rischiarata del Peroni, e quasi lo invidiò, poiché egli non aveva nulla da temere da un cataclisma sociale. Poi gli ritornò il pensiero della sua onestà, della legittimità della sua fortuna, dell’ingiustizia mostruosa che sarebbe stata la sua rovina, e un impeto di indignazione lo prese. Sì, il Governo doveva difendersi, ci voleva del fuoco e del piombo, si sarebbe dovuto tornare al governo assoluto, con un esercito spietato e delle leggi tremende. Ma una voce intima lo avvertiva che tutto questo avrebbe fatto peggio, che c’era qualche forza immensa e fatale più forte d’ogni resistenza. E quando mise la testa sul cuscino, l’ira era sbollita, non gli restava più che una profonda tristezza.
In quel punto sentì i tre colpi sul soffitto.
A quel segnale, che annunziava che suo figlio, il suo caro Alberto, la gioia e l’orgoglio della sua vita, era tornato sano ed illeso, una grande tenerezza gli entrò in cuore e gli inumidì gli occhi.
- Caro, adorato figliuolo! Quale sarebbe stato il suo avvenire? Quali pericoli l’aspettavano nell’avvenire oscuro?
Con questo pensiero triste chiuse gli occhi. Lo riscossero violentemente degli squilli di tromba della cavalleria che passava sul corso Oddone. Poi tutto tacque.
- Basta - pensò sospirando - la casa è guardata. E stanco delle emozioni della giornata, s’addormentò.