Poesie (Parini)/V. Terzine/IV. Il trionfo della spilorceria
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IV
IL TRIONFO DELLA SPILORCERIA
Io men giá tutto sol, pensoso e stanco
giá di cercare al mio compor soggetto;
quand’io posai su l’erba il debil fianco.
Ed ecco sopra un carro d’oro eletto
5una donna venir per la campagna
di panni sbricia e magherá d’aspetto.
Dietro a colei vid’io una turba magna
di genti d’ogni clima e d’ogni guisa,
che l’assomiglia insieme e l’accompagna,
10Era la vista mia del tutto fisa
a mirar la gran calca che venia;
quando un gran raglio mossemi le risa.
Io mi volsi a guardar lá donde uscia
raglio siffatto; e duo mulacce io scorsi
15condur quel carro, e zoppiccar per via.
Levaimi da sedere, e quivi io corsi:
ma ognuna intorno a sé lo stuol dirada
cacciandosi la fame a calci e a morsi.
La donnicciuola in su quel carro agghiada:
20e benché sia di quel popol signora,
par che non mangi mai fieno né biada.
Ella guardas’intorno ad ora ad ora,
com’uom che teme di smarrir qualcosa;
e tutto ha in copia, e pur vorrebbe ancora.
25Spesso appoggiata a un bastoncel pensosa
stassi contando in su le dita, e spesso
il riso accenna, e rider poi non osa.
Sorgea un’insegna in sul bel carro istesso;
ove colui che nell’inferno giacque
30in mezzo all’onda è a meraviglia espresso:
e scritto in s’un cartel, come a lei piacque,
col puntai d’una lesina appiccato:
Tantalo sitibondo in mezzo all’acque.
Letto ch’i’ ebbi, io mi guardai da un lato,
35e vidi un uom che d’avacciar procura
con indosso un saion roso e intignato.
Quand’io’l vidi, costui femmi paura;
ché a mostrar la miseria e la grettezza,
questa è la vera e naturai figura.
40Egli appiccato agli omeri ha una pezza
di ferraiuol che, con un fil di spago
avanzato alle scarpe, ognor rappezza;
e un sudicio cappel che con un ago
da due bande ei tien ritto, e all’altro canto
45leggiadramente ir lascia errante e vago.
Ad un amico mio simil cotanto
era costui, che fiso in quell’inganno
fecimi accosto, e l’acchiappai pel manto.
— Se’l ciel ti guardi ognor da rio malanno,
50dimmi, Spizzeca mio, chi è costei, —
dissi,—e color che dietro a lei sen vanno? —
Ed ei rivolto a me disse:—Chi sei?
Avverti che in iscambio tu m’hai colto;
quegl’io non son che tu creder mi dei.
55Ma dappoi ch’io ti veggo scritto in volto
quanta il tuo core ha di conoscer brama
la trionfante donna e ’l popol folto,
e io dirolti ’n breve: ella si chiama
Spilorceria; e gli spilorci sono
60che seguitan colei per la gran lama. —
Appena i’ udii del mio maestro il suono,
ch’i’fecimi a guardare attentamente
que’ dello stuol, tutto in Ior fiso e prono,
sol per veder s’alcuno in fra la gente
65io ci conosco; e ne conobbi assai;
e vidici fra gli altri un mio parente.
Ma la mia scorta disse: — Attendi ornai
que’ che in spilorceria fur piú famosi
e di cui conoscenza tu non hai. —
70A guardare a’ suoi cenni allor mi posi.
Ei disse: — Vedi quel che gli occhi acuti
levar dal carro d’òr par che non osi? —
— Dimmi chi è colui, se Iddio t’aiuti, —
diss’io; ed egli a me: — Quegli è Euclione
75che chiaro è ne’ latin comici arguti.
Ecco un soffietto al collo ha ciondolone;
e perché ’l fiato invan non mandi fuore,
alla bocca il turacciolo gli pone.
Mira la coppia di que’ due che onore
80hanno da ognun passando: uno è Giuliano,
e l’altro è Sergio Galba imperadore.
Irato ha questi lo stidione in mano,
per foracchiare la ventraglia al cuoco
che a certi ambasciador fu troppo umano.
85E quegli la basoffia, che dal fuoco
appena è tolta mangia, e un’insalata
che ha dello aceto assai, dell’olio poco.
Sai d’una lepre che gli fu donata,
e d’un porcel che a tutta la sua corte
90han per tre di la mensa apparecchiata? —
Io sta vanii, qual uom che teme forte
no ’l compagno gli ficchi una carota,
ornando il falso con maniere accorte;
quando il buon duca mio mi disse: — Nota
95colui che viene. — E innanzi un mi si fece
che avea incavata l’una e l’altra gota.
— Tinto è costui della medesma pece:
ei mangiò al desinar la carne stracca,
e una minestra sua di riso e cece.
100Chiamossi Pertinace; e a lui s’attacca
chi messe la gabella in su i’orina,
del cui danar non gli putien le sacca.
Presso a lui ne vien quel di Cascilina.
Mai non fu di costui maggior spilorcio,
105dacché ’l fuoco va ’n su, l’acqua alla china.
Ei di vita ridotto in su lo scorcio,
d’assedio e fame si morio piuttosto,
ma vendè per danar l’unico sorcio. —
— Chi è colui che se ne vien discosto
110dagli altri, tinto il sen di sangue o d’ostro? —
i’ dissi al mio maestro. Ed ei ben tosto:
— Egli è Caton, famoso in ogni inchiostro,
che prestò altrui per òr la sua mogliere;
e d’esempi non manca al secol nostro.
115Anco Dionisio tu ci puoi vedere
che i peli si bruciò col moccolino,
per avanzar la mancia del barbiere.
Ecco Ermon che d’aver speso un quattrino
sogna la notte; e si la doglia il fiede
120che ad una trave impiccasi ’l mattino.
Ermòcrate che fe’ sé stesso erede,
ed Occo re, che, per non dare altrui,
non pose mai fuor di sua casa il piede. —
Si come il fanciullino che con dui
125occhi guarda nel viso alla nutrice
che le sue fole va contando a lui:
ed ei, che crede il ver quel ch’ella dice,
ora si duole, or ride, or face altr’atto,
secondo il dir di lei tristo o felice:
130tal io né movo piè né ciglia batto,
al dire, ai cenni del mio duca intento:
ed eccoti venire un altro matto.
Presso alla turba ei si conduce a stento.
— Quegli è Ahneone, — allor disse il mio duca;
135— e’l don di Creso fallo andar si lento.
Ei s’è ficcato l’ór fin sulla nuca,
sotto alla cuffia, e dentro alle brachesse,
in mano, in grembo e dove si manuca.
Mira il gallico re che il sarto elesse
140in proprio araldo, e a un medico furfante
l’uficio insin di cancellier commesse,
com’or spesso un grammatico ignorante
fan servir certe pittime cordiali
in un di segretario e di pedante.
145Egli scrisse le sue spese giornali:
tanto per rattoppare una pianella;
piú per aver fatt’ugner gli stivali.
Cotanto egli ebbe il granchio alla scarsella,
che tu ci puoi veder l’un conto acceso,
150e quell’altro dannato a serpicella.
Ma basti di costui quel che n’hai ’nteso, —
disse il mio duca;—e pria che ’l tempo accorci,
attendi Alfonso re, ch’or tei paleso.
A’ sudditi ingrassar fece i suoi porci:
155cosi toccava un tempo al buon vassallo
di mantenere i principi spilorci.
Vien Carlo Malatesta, s’io non fallo;
che al suo coppier, che un bicchier ruppe a caso,
quasi far fece in campo azzurro un ballo.
160Poco dietro a costui quegli è rimaso
che per amor dell’olio i lumi in chiesa
a spegner si levò dopo l’occaso.
Seco è colui che pur la notte attesa,
scendendo nelle stalle, a’ suoi famigli
165ciuffava il fien per avanzar la spesa;
ma scorto alfin da’ vigilanti cigli
al buio, e sol, di sudice percosse
in su i panni toccò ricchi e vermigli. —
I’ chiesi alla mia guida onde mai fosse
170che costor due e gli altri di lor setta
han la spilorceria fitta nell’osse;
ma egli mi rispose: — Amico, ho fretta.—
Ed io soggiunsi a lui: — Ombra benigna,
di sapere il tuo nome mi diletta. —
175Ed ei rispose: — I’ son chiamato il Tigna,
che grande uccellator fui di tabacco. —
Io gliene do una presa; ed egli svigna.
Si di mirar, sazio non giá, ma stracco,
privo dell’alta vision son ora;
180ma quand’io miro al secolo vigliacco,
panni veder quel bel trionfo ancora.