Poesie (Parini)/IV. Le odi/XX. Alla Musa
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XX
ALLA MUSA
[1795]
Te il mercadante che col ciglio asciutto
fugge i figli e la moglie ovunque il chiama
dura avarizia nel remoto flutto,
Musa, non ama.
5Né quei cui l’alma ambiziosa rode
fulgida cura, onde salir piú agogna;
e la molto fra il di temuta frode
torbido sogna.
Né giovane, che pari a tauro irrompa
10ove a la cieca piú Venere piace:
Né donna, che d’amanti osi gran pompa
spiegar procace.
Sai tu, vergine dea, chi la parola
modulata da te gusta od imita;
15onde ingenuo piacer sgorga, e consola
l’umana vita?
Colui cui diede il ciel placido senso
e puri affetti e semplice costume;
che, di sé pago e dell’avito censo,
20piú non presume;
che spesso al faticoso ozio de’ grandi
e all’urbano clamor s’invola, e vive
ove spande natura influssi blandi
o in colli o in rive
25e in stuol d’amici numerato e casto,
tra parco e delicato al desco asside;
e la splendida turba e il vano fasto
lieto deride;
che ai buoni, ovunque sia, dona favore:
30e cerca il vero; e il bello ama innocente;
e passa l’etá sua tranquilla, il core
sano e la mente.
Dunque per che quella si grata un giorno
del giovin cui diè nome il dio di Deio
35cetra si tace; e le fa lenta intorno
polvere velo?
Ben mi sovvien, quando, modesto il ciglio,
ei giá scendendo a me, giudice fea
me de’ suoi carmi: e a me chi dea consiglio:
40e lode avea.
Ma or non piú. Chi sa? Simile a rosa
tutta fresca e vermiglia al sol che nasce,
tutto forse di lui l’eletta sposa
l’animo pasce.
45E di bellezza, di virtú, di raro
amor, di grazie, di pudor natio
l’occupa si, ch’ei cede ogni giá caro
studio all’oblio.
Musa, mentr’ella il vago crine annoda,
50a lei t’appressa; e con vezzoso dito
a lei premi l’orecchio; e dille: e t’oda
anco il marito:
— Giovinetta crudel; per che mi togli
tutto il mio D’Adda, e di mie cure il pregio,
55e la speme concetta, e i dolci orgogli
d’alunno egregio?
Costui di me, de’ geni miei si accese
pria che di te. Codeste forme infanti
erano ancor, quando vaghezza il prese
60de’ nostri canti.
Ei t’era ignoto ancor, quando a me piacque.
Io di mia man per l’ombra e per la lieve
aura de’ lauri l’avviai, vèr l’acque
che, al par di neve
65bianche le spume, scaturir dall’alto
fece Aganippe il bel destrier che ha l’ale:
onde chi beve io tra i celesti esalto
e fo immortale.
Io con le nostre il volsi arti divine
70al decente, al gentile, al raro, al bello:
fin che tu stessa gli apparisti al fine
caro modello.
E se nobil per lui fiamma fu desta
nel tuo petto non conscio: e s’ei nodria
75nobil fiamma per te, sol opra è questa
del cielo e mia.
Ecco giá l’ale il nono mese or scioglie
da che sua fosti, e giá, deh! ti sia salvo,
te chiaramente in fra le madri accoglie
80il giovin alvo.
Lascia che a me solo un momento ei torni;
e novo entro al tuo cor sorgere affetto,
e novo sentirai da i versi adorni
piover diletto:
85però ch’io stessa, il gomito posando
di tua seggiola al dorso, a lui col suono
de la soave andrò tibia spirando
facile tono:
onde, rapito, ei canterá che sposo
90giá felice il rendesti, e amante amato;
e tosto il renderai dal grembo ascoso
padre beato.
Scenderá in tanto dall’eterea mole
Giuno, che i preghi de le incinte ascolta;
95e vergin io de la Memoria prole,
nel velo avvolta,
uscirò co’ bei carmi; e andrò gentile
dono a farne al Parini, italo cigno,
che, ai buoni amico, alto disdegna il vile
100volgo maligno. —