Poesie (Parini)/IV. Le odi/XII. La tempesta

XII. La tempesta

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XII

LA TEMPESTA

[1786?]

     Odi, Alcone, il muggito
nell’alto mar de la crudel tempesta,
e la folgor funesta
che con tuono infinito
5scoppia da lungi, e rimbombar fa il lito.
     Ahimè, miseri legni
che cupidigia e ambizion sospinse;
e facil’aura vinse
per li mobili regni
10lor speme a sciorre oltre gli erculei segni
     Altro sperò giocondo
tornar da ignote preziose cave;
e d’oro e gemme grave
opprimer col suo pondo
15de la spiaggia nativa il basso fondo.
     Credeva altro d’immani
mostri oleosi preda far nell’alto;
altro feroce assalto
dare a gli abeti estrani,
20e dell’altrui tesoro empier suoi vani.

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     Ma il tuono e il vento e l’onda
terribilmente agita tutti e batte;
né le vele contratte
né da la doppia sponda
23il forte remigar, l’urto che abbonda
     vince né frena. E in tanto
serpendo incendioso il fulmin fischia:
e fra l’orribil mischia
de’ venti e il buio manto
30del cielo, ognun paventa essere infranto.
     E giá piú l’un non puote
l’alto durar tormento: uno al destino
fa contrario cammino;
un contro all’aspra cote
35di cieco scoglio il fianco urta e percote:
     e quale il flutto avverso
beve giá rotto: e qual del multiforme
monte dell’acque enorme
sopra di lui riverso
40cede al gran peso; e al fin piomba sommerso.
     Alcon, non ti rammenti
quel che superbo per ornata prora
veleggiava finora,
di purpurei lucenti
45segni ingombrando gli alberi potenti?
     A quello d’ambo i lati
ignivome s’aprian di bronzo bocche;
onde pari a le ròcche
forza sprezzava e agguati
50d’abete o pin contro al suo corso armati.
     E l'onde allettataci
stendeansi piane a lui davanti: e a i grembi
fregiati d’aurei lembi
de’ canapi felici
55spiravan ostinati i venti amici:

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     mentre Glauco e i tritoni
pur con le braccia lo spingean piú forte;
e da le conche torte
lusingavano i buoni
60áuguri intorno a lui con alti suoni.
     E lungo i pinti banchi
le dee del mar, sparse le chiome bionde,
carolavan per Tonde,
che lucide su i bianchi
65dorsi fuggian strisciando e sopra i fianchi.
     Fra tanto, senza alcuno
il beato nocchier timor che il roda,
dall’alto de la proda,
al mattin primo e al bruno
70vespro, cosí cantava inni a Nettuno:
     — A te sia lode, o nume,
di cui son l’opre ognor potenti e grandi,
o se nel suol ti spandi
con le fuggenti spume,
75o di Cinzia t’innalzi al chiaro lume.
     Tu col tridente altero
a tuo piacer la terra ampia dividi;
tu fra gli opposti lidi
del duplice einispero
80scorrevole a i mortali apri sentiero.
     Rota per te le nuove
con subitaneo piè veci Fortuna:
e quello che con una
occhiata il tutto move
85non è di te maggior superno Giove. —
     Tale adulava. Or mira
or mira, Alcon, come, del porto in faccia,
lungi dal porto il caccia
Nettuno stesso: e a dira
90sorte con gli altri lo trasporta e aggira!

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     E la ricchezza imposta
indi con la tornante onda ritoglie;
e le lacere spoglie
ne gitta, e la scomposta
95mole a traverso dell’arida costa.
     Ahi, qual furore il mena
pur contra noi d’ogni avarizia schivi,
che sotto a i sacri ulivi
radendo quest’arena
100peschiam canuti con duo remi a pena!
     Alcon, che pili s’aspetta?
Ecco il turbine rio che omai n’è sopra.
Lascia che il flutto copra
la sdrucita barchetta,
105e noi nudi salvianci al sasso in vetta.
     O giovanetti, piante
ponete in terra; qui pomi inserite;
qui gli armenti nodrite
sotto a le leggi sante
110de la Natura in suo voler costante.
     Qui semplici a regnare;
qui gli utili prendete a ordir consigli;
né fidate de’ figli
la sorte, o de le care
115spose, a l’arbitrio del volubil mare.